“È opportuno che entro due anni le truppe della Coalizione lascino l’Irak”. “Alla fine del 2006 sarà possibile una valutazione; auspicabilmente, questa dovrà portare a un graduale ritiro delle truppe nel corso del 2007”. Non sono dichiarazioni di Prodi o di Fassino. La prima affermazione è del presidente dell’Irak, Jalal Talabani, la seconda di Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa americano. La nostra sinistra sembra dunque spiazzata. Continua a ripetere come un disco rotto che occorre ritirarsi dall’Irak, apparentemente senza accorgersi che dicono la stessa cosa il governo irakeno e l’amministrazione Bush. Ma, in verità, non si tratta proprio della stessa cosa.
Le affermazioni di Rumsfeld vengono dopo un rapporto del comandante delle forze americane in Irak, il generale Richard Myers, che si conclude con una frase non politicamente corretta ma chiara: “Stiamo senz’altro vincendo”. A chi obietta che le autobomba continuano a esplodere, Myers replica che la portata del terrorismo non è “neppure paragonabile” a quella di prima delle elezioni irakene. Il terrorismo, che era arrivato a controllare intere città, oggi si limita ad attacchi che sono certamente sanguinosi ma che, dal punto di vista militare, non lo avvicinano di un passo al controllo del territorio. Crescono inoltre la collaborazione della popolazione all’azione anti-terroristica e il numero di irakeni che si arruolano nella polizia e nell’esercito, nonostante le minacce di al-Zarqawi (che continua peraltro a perdere luogotenenti, arrestati uno dopo l’altro) e gli obiettivi rischi. E i contrasti fra partiti ed etnie sono stati un ostacolo più grave del terrorismo per il governo irakeno quando si è trattato di mettersi al lavoro secondo una tabella di marcia che sarà comunque rispettata, e che porterà al referendum sulla nuova Costituzione il 15 ottobre e alle elezioni politiche il 15 dicembre.
Talabani e Rumsfeld sono d’accordo sul fatto che il terrorismo deve ancora ricevere nei prossimi mesi duri colpi sul piano militare, ma la sua sconfitta ultima potrà essere soltanto politica, con la presa di potere agli inizi del 2006 di un governo uscito dalle elezioni del 15 dicembre 2005, e con la graduale sostituzione delle forze irakene a quelle della Coalizione nei compiti di polizia.
La “strategia di uscita” dall’Irak è molto delicata. Se si va via troppo presto, prima che il governo irakeno abbia la forza militare e politica per fare fronte al terrorismo, si rischia di ingolosire i terroristi spingendoli a un’offensiva in grande stile che eventualmente “costringa” forze americane a tornare e faccia perdere la faccia alle autorità di Baghdad. Se si va via troppo tardi, si mette in pericolo il consenso degli irakeni ai loro governanti, elemento indispensabile perché i terroristi siano sconfitti.
La domanda dunque, che riguarda anche il contingente italiano, non è se ma quando andare via dall’Irak. Una risposta responsabile dovrebbe essere data in funzione non delle scadenze elettorali in Occidente ma di una valutazione realistica della capacità di funzionare del governo, dell’esercito e della polizia irakena. All’opinione pubblica del mondo islamico è importante dare l’impressione che i soldati dell’Occidente non sono messi in fuga dalle bombe di al-Zarqawi, ma tornano a casa da vincitori.