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Kirghizistan: "Un effetto domino nell'ultima riserva degli autocrati russi"

di Massimo Introvigne (il Giornale, 25 marzo 2005)

C’è un’alta posta in gioco in Kirghizistan, una delle cinque repubbliche ex-sovietiche a maggioranza musulmana sunnita dell’Asia Centrale. Di queste, solo il Tajikistan presenta elementi di genuina democrazia, mentre il Kazakhistan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan sono governati da autocrati ex-comunisti continuamente riconfermati da elezioni assai dubbie. Lo stesso è finora avvenuto in Kirghizistan, dove il presidente Askar Akayev – inizialmente stimato per i successi conseguiti nella graduale costruzione di un’economia di mercato – di fronte al rischio di vedersi travolto da accuse di corruzione ha imitato i suoi vicini ricorrendo alla pratica sistematica del broglio elettorale. In teoria, Akayev – già eletto due volte – non è più rieleggibile la terza nelle presidenziali previste per l’ottobre 2005. Ma i suoi avversari lo accusano di avere truccato le elezioni politiche per assicurarsi un parlamento che modifichi la Costituzione permettendogli una terza candidatura, e la rivolta sembra ormai incontenibile.

Le possibili ripercussioni internazionali spiegano il grande interesse con cui Condoleeza Rice – un’esperta dell’area – sta personalmente seguendo tre aspetti cruciali della situazione kirghisa. Il primo è la controprova della strategia di Bush secondo cui la democrazia va favorita ovunque. Non ci sono eccezioni per regioni particolari o per gli “amici degli amici”, per esempio gli amici di Vladimir Putin: chi fa ostacolo alla democrazia se ne deve andare. La regola vale in Georgia, in Ucraina e anche in Kirghizistan. E con la piena consapevolezza che, se cade Akayev (di cui pure a Washington si riconoscono i meriti di riformatore economico, e che si cerca di non demonizzare) i suoi colleghi kazakho, turkmeno e uzbeko seguiranno a ruota.

Il secondo problema – che differenzia Bush e Condi Rice da Vladimir Putin, ma anche da leader europei come Chirac e dalla dirigenza cinese – riguarda il modo di affrontare Al Qaida e il terrorismo islamico. La tolleranza di cui hanno beneficiato per qualche anno dopo l’11 settembre dittatori che si presentavano come l’unica alternativa a possibili successi elettorali dei “fondamentalisti” è finita. La seconda amministrazione Bush – come ormai riconosce perfino qualche figura della sinistra italiana – ha scelto irreversibilmente la democrazia: si voti liberamente e senza brogli, vinca il migliore e succeda quello che deve. Le elezioni in Irak, in Indonesia, in Turchia, in Malaysia hanno dimostrato che in elezioni libere si afferma un islam centrista e conservatore, mentre quello ultra-fondamentalista e vicino al terrorismo non vince.

Il terzo tema riguarda la contrapposizione fra il Sud del paese, musulmano e molto religioso, che è l’anima della rivolta, e il Nord più laico e con una forte minoranza cristiana (il venti per cento).  Al Sud è influente il grande movimento islamico Hizb-ut-Tahrir, assai diffuso in tutta l’Asia Centrale, fuorilegge ma ben presente in Kirghizistan, e assai attivo negli eventi di questi giorni. A lungo considerato almeno un potenziale alleato dei terroristi, oggi condanna Al Qaida, ha aperto discreti canali di comunicazione con forze centriste, e molti esperti occidentali pensano che perseguitarlo e reprimerlo sia un errore. Anche in Kirghizistan integrare nel processo democratico forze dell’islam politico è una sfida da vincere assolutamente se si vuole isolare il terrorismo. Ma questa sfida potrà essere vinta solo passando per una vera democrazia.

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