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Terroristi: figli nostri?

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 4, numero 9, 26 febbraio 2005)

Nel dicembre 2001 un collega americano, uscendo con me dall’Università di Copenaghen, fu fermato dalla polizia. Nevicava, e si era messo un tipico copricapo afghano. Nel clima del dopo 11 settembre, la polizia lo aveva scambiato per un talebano o un terrorista. Il poveretto, indignato, ci mise qualche ora a spiegarsi: buon patriota e buon anticomunista, aveva comprato il cappello molti anni prima a una vendita di solidarietà con la resistenza anti-sovietica. Nell’anno di grazia 2001 la scusa era buona per evitare la prigione, ma non gli sguardi ironici dell’ultimo piantone danese, pronto a prendersi gioco degli sciocchi cowboy americani che, per il loro anticomunismo maniacale, avevano covato il terrorismo di bin Laden come la chioccia cova i pulcini. Lo confesso: anch’io ho partecipato a qualche manifestazione a favore della «resistenza dimenticata» nell’Afghanistan occupato dai sovietici. Ho aiutato Al Qa’ida? Una ricognizione storica sembra, come al solito, necessaria.

L’Afghanistan – i cui confini attuali derivano dal «grande gioco» fra Russia zarista e Gran Bretagna nel secolo XIX – ha come sua principale ricchezza la posizione geografica e il suo essere «strada»: per le merci, per i pellegrini verso la Mecca, e oggi per il petrolio e il gas naturale dell’Asia Centrale. Percorsa da eserciti invasori di tutti i tipi, la strada afghana ha dato origine a un paese etnicamente composito, dove alla maggioranza pashtun (che ha il suo centro a Kandahar, nel Sud), musulmana sunnita, si contrappongono le minoranze uzbeke e tagike nel Nord e Nord-Est (pure sunnite, ma con forti influenze sufi), hazara al Centro (di lingua persiana e sciita), dari a Ovest (persiana di lingua ma sunnita), per non parlare di un’ampia serie di minoranze più piccole (fra cui una ismailita). Al di sotto dell’etnia si collocano le tribù, spesso in lotta fra loro, come avviene all’interno dei pashtun fra i durrani (la cui capitale tradizionale è Kandahar) e i ghilzai (più numerosi nella zona di Kabul, che pure è città a sua volta etnicamente composita). Il padre della monarchia afghana moderna è il re Ahmad Shah (1722-1772), da molti ancor oggi venerato come un santo: un pio pashtun della tribù durrani, che avvia la tradizione afghana di lasciare ampie possibilità di autogoverno alle minoranze interne ricevendone in cambio sostegno contro i nemici esterni. Fra alti e bassi, questa tradizione – legata a un islam tollerante di matrice sufi – continua fino al regno di Mohammad Zahir Shah (1914-), re dal 1933 al 1973.

Zahir – un pio musulmano – è rovesciato nel 1973 dal cugino Mohammad Daud (1909-1978), che cerca d’introdurre nel paese una forma di nazionalismo laico. Daud è avversato da una parte dai fondamentalisti islamici sostenuti dal Pakistan, dall’altra dai comunisti leali alla vicina Unione Sovietica, peraltro divisi fra le correnti Khalq («Masse») e Parchan («Bandiera»). L’opposizione fondamentalista a Daud è guidata – dal Pakistan, che avrà sempre un ruolo cruciale – da tre dirigenti: Burhanuddin Rabbani (1940-), Ahmad Shah Massud (1953-2001) e Gulbuddin Hikmatyar (1947-). Negli anni 1970 è già chiara la distinzione fra un islam conservatore ma non fondamentalista, un fondamentalismo «neo-tradizionalista», ostile al terrorismo, e un ultra-fondamentalismo radicale che odia l’Occidente e non rifugge dagli attentati. Massud incarna (all’afghana) l’islam conservatore, Rabbani il fondamentalismo neo-tradizionalista e Hikmatyar quello radicale. Daud cerca di governare venendo a patti con la fazione comunista Parchan di Babrak Karmal (1929-1996), ma nel 1978 è ucciso da una rivolta guidata dalla corrente Khalq. Quest’ultima non riesce a controllare il paese, scosso dalle rivolte degli anticomunisti e delle minoranze etniche: nel 1979 l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan, fa uccidere il presidente Khalq, Hafizullah Amin (1929-1979), e installa al suo posto Karmal.

Nei successivi dieci anni, al prezzo di un milione e mezzo di morti, la composita alleanza dei mujaheddin («combattenti») – che comprende islamici conservatori, fondamentalisti «neo-tradizionalisti», fondamentalisti radicali e minoranze etniche –, con l’aiuto del Pakistan e degli Stati Uniti, scaccia i sovietici dal paese, e nel 1992 abbatte il regime comunista di Najibullah (1947-1996), succeduto a Karmal nel 1986. Le origini del movimento di Osama bin Laden risalgono a questa guerra afghana contro l’invasore sovietico, e in particolare già al 1982 quando l’ISI (Inter-Service Intelligence), il servizio segreto pakistano, diretto dal generale Hameed Gul – un fondamentalista neo-tradizionalista, ma amico di molti radicali – lancia l’idea di una «brigata internazionale islamica» per combattere i comunisti. «Stiamo combattendo un jihad e questa sarà la prima brigata internazionale islamica dell’era moderna», dichiara il generale: «I comunisti hanno le loro brigate internazionali, l’Occidente ha la NATO, perché i musulmani non dovrebbero unirsi e formare un fronte comune?».

 

C’era un giovane miliardario

 

Il governo pakistano incoraggia l’iniziativa, sia perché alimenta i suoi sogni di egemonia regionale, sia perché già immagina che la «brigata internazionale islamica» potrà dare una mano alla guerriglia filo-pakistana nel Kashmir indiano. Fuori del Pakistan, l’iniziativa non suscita immediati consensi. Gul riesce tuttavia a convincere l’Istakhbarat, il servizio segreto saudita, guidato dal principe Turki bin Faisal, che si tratta di un’idea utile per far sfogare all’estero, in Afghanistan, estremisti sauditi che diversamente s’interesserebbero pericolosamente di politica interna. Sotto gli auspici dell’ISI, è aperto un ufficio a Peshawar, che nel 1984 diventa il Makhtab al Khidmat (MAK, «Centro di servizi»). Fin dal 1982 si era trasferito a Peshawar Osama bin Laden (1957-), un miliardario saudita venticinquenne che dal 1980 svolgeva attività di «corriere» trasportando in Pakistan donazioni di ricchi sauditi destinate a diverse fazioni della resistenza anti-sovietica afghana.

All’Università Re Abdul Aziz di Jeddah, dove perseguiva un titolo accademico in amministrazione aziendale, Osama aveva incontrato il suo maestro spirituale, Abdullah Azzam (1941-1989), un giordano che si era staccato dai Fratelli Musulmani per propugnare un radicalismo islamico con forti tinte millenariste. A partire dal 1979, Azzam alterna l’attività accademica con quella di guerrigliero in Afghanistan: un’avventura per cui recluta diversi suoi studenti, fra cui Osama bin Laden. Nel 1984 Azzam (che sarà ucciso nel 1989, forse dallo stesso bin Laden cui ormai darà ombra) diventa il direttore del MAK di Peshawar, e il ricco Osama non solo lo sostiene economicamente ma s’impegna in ambiziosi progetti di costruzione nelle zone dell’Afghanistan controllate dalla resistenza. Il MAK riceverà e instraderà in Afghanistan nei dieci anni 1982-1992 35.000 volontari di 45 paesi. In Pakistan i volontari sono chiamati «arabi afghani», benché non ci sia fra loro neppure un afghano e gli arabi siano in minoranza. Più tardi il MAK si chiamerà Al Qa‘ida («la base») e userà gli «arabi afghani» per il progetto di Osama di costruire un terrorismo globale.

Il MAK non è affatto un progetto «americano», anzi, la CIA guarda l’intera operazione con sospetto. Solo nel 1986 il suo direttore William Casey autorizza il sostegno alla brigata internazionale islamica, che rimarrà peraltro sempre indiretto. La CIA non addestrerà mai la brigata internazionale (né, quindi, bin Laden), ma darà il suo placet a che addestramento e aiuto siano forniti dai servizi pakistani. Casey si rende conto della possibilità che gli «arabi afghani», oltre a lottare contro i sovietici, possano rivelarsi un elemento di destabilizzazione dei paesi da cui provengono. I motivi della sua decisione sono sostanzialmente tre. Da una parte, vuole compiacere i servizi pakistani e sauditi, alleati degli Stati Uniti nella regione. In secondo luogo, intende impedire una saldatura fra la «brigata internazionale islamica» e l’Iran, che all’epoca gli Stati Uniti considerano il principale e più pericoloso «Stato canaglia» nella regione. Infine, pensa che la «brigata internazionale islamica», assai meglio addestrata di altri reparti della resistenza, possa dare un colpo decisivo all’Unione Sovietica, con conseguenze non solo in Afghanistan ma anche in Europa. L’ascoltato politologo Zbigniew Brzezinski riassume quest’ultimo argomento quando si chiede retoricamente, dopo i primi successi talebani: «Che cos’è più importante in una visione globale della storia? I talebani o la caduta dell’impero sovietico? Aver eccitato un po’ di musulmani, o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della Guerra fredda?». Naturalmente, dopo l’11 settembre 2001, queste parole assumono un suono sinistro, e i calcoli che i vari Brzesinski avevano fatto nel 1986 sembrano ampiamente sbagliati. Ma in Afghanistan il più rispettato dei comandanti, protagonista di una vera e propria epopea – Massud – aveva del resto sempre messo in guardia contro la brigata internazionale, con cui aveva rifiutato ogni tipo di collaborazione. Ed è l’epica avanzata di Massud a vincere la guerra contro l’URSS, una guerra che il leggendario comandante avrebbe certamente vinto anche senza gli «arabi afghani».

Il primo presidente mujaheddin dell’Afghanistan è Sibghatullah Mujaddedi (1929-), un conservatore e non a caso il più autorevole esponente della confraternita sufi Naqshbandiyya in Afghanistan. Il fondamentalista neo-tradizionalista Rabbani diventa presidente nel 1993, con un governo a forte presenza tagika e con Massud (che è di origine tagika) come capo dell’esercito. Di fatto, Rabbani non riuscirà mai a controllare l’intero territorio nazionale: le minoranze etniche diverse dalla tagika sono tutte in rivolta, e l’area pashtun è spezzettata in piccole zone ciascuna di fatto governata da un «signore della guerra» spesso legato alla malavita e in genere rapace e violento.

 

Vicini al Presidente. Ma Clinton

 

Nel 1994 uno di questi comandanti locali fa rapire due ragazze del villaggio di Singesar, nella provincia di Kandahar, e le violenta. Il mullah del villaggio, Mohammed Omar (1959-), raduna trenta studenti (taliban) della sua piccola madrassa (scuola coranica), libera le ragazze e impicca il comandante. Per molti, è il segnale che è possibile ribellarsi ai «signori della guerra» corrotti. Il successo di Omar, dopo diverse imprese dello stesso genere, è fenomenale: lo sostiene il governo di Rabbani, che pensa di utilizzare questi «talebani» nelle zone pashtun contro i comandanti locali e contro i fondamentalisti radicali di Hikmatyar, che riuscirà a conquistare Kabul e a diventare presidente per pochi mesi nel 1996; soprattutto, punta su Omar il Pakistan, che diventa il suo principale finanziatore. Grazie a questi aiuti – e a quello di Osama bin Laden, quando nel 1996 torna dal Sudan – in due anni i talebani riescono a impadronirsi del paese. Il consenso popolare, all’inizio diffuso, evapora rapidamente – a causa della rigidissima applicazione della legge islamica (spesso mischiata al codice tradizionale pashtun), dell’oppressione delle donne, della discriminazione contro i non pashtun e anche contro i pashtun che non sono durrani –; e la guerra civile continua. Vi s’intersecano complesse questioni legate al traffico di droga (che diversi dirigenti talebani dichiarano lecito purché rivolto a un consumatore finale non islamico, così che l’Afghanistan arriva a rifornire il cinquanta per cento del mercato mondiale dell’eroina), e alla costruzione di oleodotti e gasdotti in territorio afghano, a proposito dei quali si affrontano la multinazionale statunitense Unocal (già Union Oil of California e, con buona pace di Michael Moore, assai più vicina alla famiglia Clinton che non ai Bush) e l’ambiziosa società argentina Bridas del finanziere di origine italiana Carlos Bulgheroni, che nel 1997 cede peraltro il sessanta per cento del suo pacchetto azionario all’altro colosso statunitense Amoco. La guerra civile, oleodotti a parte, assume però un tono mistico e millenarista, quando – il 4 aprile 1996 – il mullah Omar si presenta ai suoi fedeli a Kandahar avvolto in una delle più venerate reliquie dell’islam, conservata appunto a Kandahar ma esposta al pubblico solo un paio di volte per secolo, il mantello del profeta Muhammad, e si fa acclamare come emiro dell’Afghanistan (ma in realtà, come a pochi sfugge, chi ha l’ardire d’indossare il mantello dichiara di fatto di aspirare al ruolo di califfo dell’intero islam).

I talebani – con poche eccezioni, fra cui lo stesso Omar – non hanno combattuto contro i sovietici, dunque chi ha sostenuto la resistenza anti-sovietica non ha sostenuto i talebani. Questi si sono preparati piuttosto al dopo-invasione studiando in Pakistan nelle scuole coraniche più puritane (la cui ideologia peraltro non coincide perfettamente con il fondamentalismo, da cui le ricorrenti tensioni con Osama), con l’intenzione esplicita di preparare una classe dirigente alternativa e di rientrare forti in un paese stremato da una guerra che essi non hanno combattuto. Quanto a Massud, il vero vincitore della guerra, Al Qa‘ida lo elimina il 13 settembre 2001: sa bene che l’Occidente, con l’appoggio della maggioranza degli afghani, dopo l’11 settembre non avrebbe più esitazioni a riconsegnargli il paese. Il recente libro di Françoise Causse Quand la France préférait les talibans : Massoud in memoriam (Les Éditions de Paris, 2004) ci informa sul contributo dei servizi francesi, che ne detestano le posizioni filo-americane e anti-arabe, all’assassinio del vero vincitore dell’epopea afghana: un uomo che probabilmente avrebbe saputo prendere anche bin Laden.

Amici delle «resistenze dimenticate», non vergogniamoci di avere sostenuto la resistenza in Afghanistan. Non soltanto abbiamo contribuito a far cadere l’Impero sovietico – un risultato per cui molti sacrifici sarebbe valso la pena fare – ma abbiamo sostenuto il comandante Massud, musulmano (se il termine ha un senso) «moderato», che ha lottato per un Afghanistan senza comunisti, ma anche senza talebani e senza Al Qa‘ida, ammazzato nel 2001 dai sicari di Osama (se si crede alla Causse, con qualche aiuto parigino) e che solo ora sta forse per vedere coronato il suo sogno.

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