Con l’inizio delle operazioni di voto a Riad e provincia, qualche cosa si muove sul piano della democrazia dove, fino a qualche anno fa, ogni innovazione sembrava impossibile: in Arabia Saudita Si dice che l'incontro fra islam e democrazia sia più facile in culture non arabe - come la Turchia o l’Indonesia - che non tra gli eredi di una cultura araba cui il metodo democratico sarebbe geneticamente estraneo. C’è del vero, ma non si tratta di uno scenario immutabile.
Gli attacchi di Al Qaida, che da mesi si ripetono nella penisola arabica, mirano a colpire al cuore il progetto del Grande Medio Oriente di George Bush e Condoleeza Rice. Per questo progetto, che conta di neutralizzare il terrorismo sia sul piano militare, sia su quello politico attraverso la diffusione di forme di democrazia che l’opinione islamica consideri accettabili, una lenta evoluzione dell’Arabia Saudita è essenziale.
Le elezioni comunali, avviate il 10 febbraio, prevedono date diverse per le singole province e si concluderanno il 21 aprile. Si tratta, certo, di un primo cautissimo passo verso la democrazia: gli elettori votano solo per metà dei membri dei consigli comunali, l'altra metà resterà di nomina regia. Le donne non votano. E tuttavia, nella storia dell'Arabia Saudita, è la prima volta che si vota per qualcosa. Il processo elettorale assicurerà una rappresentanza alle minoranze religiose finora escluse dalle cariche pubbliche: sciiti (oltre un milione) a Sud e a Est, sunniti che non seguono però la scuola giuridica hanbalita e la tradizione detta «wahhabita» (un’etichetta che gli interessati peraltro rifiutano) propria della famiglia reale a Ovest, nell’Hijiaz. Un ampio fronte riformista - che comprende minoranze religiose, confraternite sufi tradizionalmente ritenute eterodosse, democratici educati in Occidente, alcuni religiosi «wahhābiti» riformatori e quell'ala dei fondamentalisti che ha preso le distanze dal terrorismo - vede nelle elezioni comunali il primo passo verso elezioni politiche.
È possibile che questo fronte comprenda anche il principe ereditario Abdullah, che di fatto governa il paese da quando un infarto ha lasciato semi-paralizzato il re Fahd nel 1995 e che - in contrasto con altri membri della famiglia reale - manifesta un cauto riformismo.
La posta in gioco è enorme. L’Arabia Saudita ha reagito alla crisi araba successiva all’11 settembre 2001 con un grande movimento popolare di ritorno alla religione chiamato sahwa («risveglio»), che il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani ha cercato di monopolizzare ma di cui non è affatto il solo protagonista. Il movimento di risveglio non è unitario: ne hanno beneficiato i fondamentalisti, ma anche un nuovo riformismo islamico il quale ritiene che l'antidoto al terrorismo sia in effetti la democrazia. L’Arabia Saudita di oggi presenta un panorama religioso assai variegato, lontano da quel monolitico «impero del male» immaginato sia dai no global alla Michael Moore sia da alcuni neo-conservatori più arrabbiati.
Questi oggi ripetono che le elezioni non andrebbero tenute, perché rischiano di vincerle i fondamentalisti. In realtà, dieci anni di elezioni nel mondo islamico mostrano che, quando l'islam politico si cimenta in elezioni libere, al suo interno l'ala conservatrice e non violenta prevale su quella vicina al terrorismo.
Può succedere anche in Arabia Saudita, dove non si deve peraltro avere fretta: in paesi che non la hanno mai conosciuta, alla democrazia si può arrivare solo gradualmente.