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Mercato religioso, fondamentalismo e conservatorismo islamico: il caso della Turchia

di Massimo Introvigne (La Critica Sociologica, n. 152, inverno 2004-2005 [10 febbraio 2005)], pp. 43-56)

Il mercato religioso

La teoria dell’economia religiosa – riassunta a uso del pubblico di lingua italiana nel volume di Rodney Stark e del sottoscritto Dio è tornato (2003) – insiste sulla tesi secondo cui i processi di modernizzazione non sono affatto incompatibili con una continua e vigorosa presenza sia di credenze, sia di pratiche religiose. Il caso degli Stati Uniti – un paese dove fin dal XIX secolo un processo di modernizzazione rapidissimo si accompagna a una presenza quantitativa della religione assai più rilevante di quella europea – ha da sempre messo in crisi le teorie classiche della secolarizzazione. A queste la teoria dell’economia religiosa propone di sostituire un «nuovo paradigma» fondato sull’uso della metafora del mercato. La vita delle istituzioni religiose è analizzata, con gli strumenti che derivano dalla teoria economica, come un mercato di beni simbolici in cui competono diverse aziende religiose, la cui offerta incontra una domanda religiosa a sua volta distribuita in diverse nicchie di consumatori religiosi. Naturalmente, la metafora ha i suoi limiti, e del resto la sociologia non si occupa che del «lato umano della religione» (Stark e Finke 2000), lasciando volentieri il lato più che umano ai teologi. La teoria postula che – anche nel lungo periodo – la domanda religiosa tende a rimanere costante, e che per spiegare le variazioni delle statistiche religiose occorre dunque porsi dal lato dell’offerta.

Ci sono infatti notevoli variazioni nella pratica religiosa tra un paese e l’altro, cui non si accompagnano peraltro variazioni altrettanto importanti nel numero di coloro che si dichiarano religiosi o credenti, a conferma che non è la domanda a mutare. Negli Stati Uniti il numero di coloro che frequentano regolarmente i luoghi di culto (circa il 40%) è il doppio di quello dell’Unione Europea; in Italia la stessa cifra è tre volte superiore a quella della Francia (Davie 2002); e così via. Se queste discrepanze non derivano dalla domanda, debbono derivare dall’offerta, e dalle modalità con cui l’offerta incontra la domanda: un contesto in cui è fondamentale il ruolo degli Stati e dei loro atteggiamenti e normative sulla religione.

Senza trascurare altri elementi relativi, per esempio, alla qualità dell’offerta religiosa nei vari paesi, la teoria sostiene che – come per ogni altro mercato di beni materiali o simbolici, e contrariamente a quanto pensano alcuni teorici della secolarizzazione – anche per la religione (istituzionale) la concorrenza fa bene al mercato e, entro certi limiti, l’offerta alimenta la domanda. I paesi con un più ampio pluralismo religioso – cioè con la maggiore concorrenza fra imprese religiose – come gli Stati Uniti, o quelli dove l’ingresso di nuove imprese particolarmente attive crea un improvviso aumento della concorrenza (come l’America Latina dopo la cosiddetta esplosione protestante, che ha stimolato una vigorosa risposta cattolica), sono anche i paesi dove il numero totale di praticanti religiosi si mantiene stabile o cresce. Dove invece lo Stato ostacola il pluralismo religioso, opponendosi in particolare all’ingresso sul mercato di nuove imprese, bollate come «sètte» o come nemiche dell’identità nazionale, lì – come avviene in Francia e in Russia – il numero di praticanti religiosi in genere decresce in modo spettacolare.

Si deve anche precisare che non si tratta solo di concorrenza tra religioni. Almeno due religioni – il cattolicesimo e l’islam – sono così grandi (ciascuna conta più di un miliardo di fedeli) da avere sviluppato anche quel fenomeno che gli economisti chiamano concorrenza intrabrand. La possibilità di scegliere fra innumerevoli varianti del cattolicesimo in Italia (secondo processi di differenziazione che i sociologi della religione italiani hanno notato da decenni) o dell’islam in Indonesia o in Egitto crea una concorrenza che, mutatis mutandis, ha gli stessi effetti positivi della concorrenza interbrand fra religioni diverse, e spiega la buona tenuta della religione istituzionale in questi paesi.

Un’altra tesi centrale della teoria dell’economia religiosa (cfr. Introvigne 2004) è quella secondo cui nel mercato religioso moderno non tutte le religioni hanno la stessa probabilità di avere successo. La domanda religiosa si distribuisce in nicchie che radunano gruppi di consumatori secondo le caratteristiche sociali e demografiche, ma anche secondo i gusti e le preferenze. Queste nicchie possono essere distinte secondo il loro grado di strictness, cioè di tensione rispetto ai valori e agli stili di vita (in genere, meno rigorosi di quelli proposti dalle religioni sul piano morale e dell’impegno) prevalenti nella società circostante. Semplificando schemi più complessi, possiamo distinguere cinque nicchie, dalla più alla meno strict: ultra-fondamentalista, fondamentalista, conservatrice, progressista e ultra-progressista.

Una delle scoperte cruciali della teoria dell’economia religiosa è che queste nicchie – che, come la domanda, tendono a rimanere relativamente costanti nel tempo – non sono di uguale dimensione. Le nicchie progressista e ultra-progressista sono piuttosto piccole, perché patiscono la concorrenza di chi propone gli stessi valori e stili di vita in una prospettiva non religiosa. Le nicchie ultra-fondamentalista e fondamentalista in circostanze normali sono più grandi di quelle ultra-progressista e progressista, ma più piccole della nicchia centrale conservatrice, in cui si situa la maggioranza dei consumatori religiosi. Inoltre, mentre i consumatori si spostano raramente da una nicchia all’altra, le organizzazioni religiose lo fanno: lentamente, ma quotidianamente. Molte organizzazioni nate come ultra-fondamentaliste convergono verso il centro, e diventano nel giro di qualche generazione semplicemente conservatrici (alla prossima generazione potranno anche diventare progressiste: in tal caso, cominceranno a perdere membri).

Che le organizzazioni (relativamente) più strict, che chiedono maggiori impegni e sacrifici, prosperino più di quelle meno «costose» per i consumatori religiosi può sembrare sorprendente, ma è spiegato dalla teoria dell’economia religiosa con riferimento al concetto di free rider (Olson 1965; Iannaccone 1992, 1994; Iannaccone, Olson e Stark, 1995). Il free rider è chi «viaggia a sbafo»: sale sull’autobus ma non paga il biglietto, vuole ottenere i benefici di un’impresa collettiva ma non vuole pagarne i costi. Un’organizzazione può tollerare alcuni free rider, ma non troppi. Nel campo delle religioni, le organizzazioni meno strict e rigorose, che impongono bassi costi di entrata e controllano in modo blando se i membri hanno pagato il biglietto, cioè se si impegnano sufficientemente, imbarcano un numero così alto di free rider da offrire ai loro fedeli un’esperienza religiosa annacquata e poco soddisfacente, oltre a incontrare i problemi – spesso fatali – che tormentano tutte le imprese che hanno un tasso di free rider troppo alto. Le organizzazioni più rigorose fanno pagare un biglietto più costoso, e controllano che tutti lo paghino: dunque lasciano entrare meno free rider, e i beni simbolici prodotti da un gruppo dove i free rider non abbondano si presentano in genere come più soddisfacenti per i consumatori.

Naturalmente, il biglietto non deve essere troppo caro. La nicchia ultra-fondamentalista è relativamente piccola, perché le persone disposte a pagare prezzi altissimi per un’esperienza religiosa molto intensa sono poche. Ma il fatto che siano poche non vuol dire che non esistano. 

Il “fondamentalismo” islamico

La tragedia dell’11 settembre 2001 e le sue conseguenze hanno riportato all’attenzione generale il problema della terminologia da usare quando si parla di islam, «fondamentalismo» e «radicalismo». Negli anni 1990, la categoria di fondamentalismo islamico è stata ampiamente costruita – anche tenendo conto del regime al potere in Iran dopo la rivoluzione «fondamentalista» del 1979 – sulla base della non distinzione (non solo la non separazione) fra religione e politica (non soltanto fra religione e cultura), e il desiderio di ristabilire «l’ordine ideale della Città di Dio» (Guolo 1994, 22) nella città degli uomini, attraverso la rigorosa applicazione della legge islamica, la sharī‘a.

Alcuni hanno preferito a «fondamentalismo», quando si parla dell’islam, termini diversi come «integrismo» (talora distinguendo anche tra «fondamentalismo» e «integrismo» in base a gradi diversi di estremismo), o ancora «islamismo» o «radicalismo» (quest’ultimo usato da alcuni autori in un senso più specifico, per indicare una corrente all’interno del «fondamentalismo»): ma il problema di fondo non cambia.

Sembra, in realtà, che la letteratura degli anni 1990 parlasse di «fondamentalismo islamico» in due sensi diversi. Nel primo senso il «fondamentalismo islamico» è un tipo ideale, un modello di pensiero e di atteggiamento che rimanda a un attivismo politico-religioso militante. Così inteso, il fondamentalismo islamico comprenderebbe una serie di correnti puritane e antimoderne che si sono manifestate – come notava nel 1995 Olivier Roy (1995, 29-30), spesso nella scia della più rigorista delle scuole giuridiche, quella hanbalita fondata da Ibn Hanbal (780-855) – a partire dal XVIII secolo (il wahhabismo, ideologia ufficiale dell’attuale Arabia Saudita, anche se il termine è oggi contestato come invenzione di orientalisti occidentali proprio nel paese di origine), quindi nel XIX (il movimento deobandī), e infine altre nate solo nel XX secolo. A favore dell’uso di questa prima nozione di fondamentalismo islamico sta il fatto che queste correnti oggi spesso collaborano fra loro e sembrano indirizzarsi alla stessa nicchia di mercato.

In un secondo senso, che sembra prevalere negli anni 2000, l’espressione «fondamentalismo islamico» designa invece un movimento, che ha uno specifico inizio e un percorso nella storia. In questo senso, un «fondamentalismo-movimento» nasce dopo la Prima guerra mondiale come reazione alla penetrazione di idee occidentali «moderne» nel mondo musulmano. A queste oppone come antidoto il ritorno al Corano, una certa ostilità all’Occidente, e l’applicazione della sharī‘a in opposizione a qualunque tentativo d’instaurare nelle terre dell’islam sistemi giuridici di tipo occidentale. Dopo l’abolizione del califfato nel 1924, il fondamentalismo si presenta anche come «movimento del califfato» (nome con cui è noto ai suoi albori in India), in quanto propone la restaurazione di questa funzione, con un ruolo più che meramente simbolico. Le date rilevanti sono, da questo punto di vista, nel mondo sunnita il 1928 in Egitto, data della fondazione dei Fratelli Musulmani da parte di Hasan al-Bannā (1906-1949) (Mitchell 1993; Jansen 1997) e il 1941 nel subcontinente indiano, dove Mawlānā Sayyid Abū l-A‘lā Mawdūdī (1903-1979) fonda la Jamā‘at-i Islāmī (Nasr 1994, 1996). Come teorico radicale, Mawdūdī è spesso accostato a Sayyid Qutb (1906-1966), esponente dei Fratelli Musulmani giustiziato in Egitto nel 1966. Nel mondo sciita la data di riferimento è certamente la rivoluzione iraniana del 1979, i cui prodromi remoti possono essere rintracciati nel tentativo – per i tempi del tutto nuovo – dell’alto clero sciita nelle città sante dell’attuale Iraq di impostare un progetto anche politico di re-islamizzazione della società, in reazione all’occupazione e poi al mandato britannico dopo la caduta dell’Impero Ottomano (cfr. Luizard 2002a; più brevemente, Luizard 2002b). La repressione inglese porta al fallimento del progetto, ma si può dire che il fondamentalismo sciita iraniano abbia in questo senso le sue radici in Iraq.

A complicare il quadro, nella repressione sovietica del movimento indipendentista della Cecenia, nell’attuale Russia e negli Stati ex-sovietici dell’Asia Centrale, «wahhabismo» è spesso usato come sinonimo di «fondamentalismo» (Rashid 2002). L’uso fa riferimento al fondamentalismo islamico in senso lato o come tipo ideale, mentre se s’intende il fondamentalismo come un movimento storico il wahhabismo è piuttosto un «concorrente» di tipo tradizionalista del fondamentalismo. I contatti fra l’Arabia settecentesca e la modernità (contro cui il fondamentalismo in senso stretto è una reazione) rimangono limitati, e oggi non tutti i wahhabiti hanno una buona opinione del movimento fondamentalista, di cui il wahhabismo ufficiale non condivide lo stile populista e l’avversione alle autorità islamiche costituite (Roy 1995, 30-32).

Quanto a «salafita» (da salaf, i «pii antenati» cui si deve ritornare), il termine – oggi a sua volta talora presentato come sinonimo di «fondamentalista» –, più che a «fondamentalismo», equivale in via analogica al termine «movimento di risveglio» in ambito protestante. I wahhabiti si auto-definiscono «salafiti», ma si tratta – come ricorda Burgat (1988) – di una salafiyya, non certo dell’unica. Lo stesso termine indica nel secolo XIX il risveglio islamico che mira a risollevare l’islam dallo stato di decadenza in cui era caduto. In realtà, da questo risveglio «salafita» – nell’ambito del quale una partita importante si gioca a Damasco, dove correnti diverse lottano per l’egemonia culturale in una città che influisce su tutto il mondo islamico (Weismann 2001) – guidato da figure come Jamāl al-Dīn Afghānī (1839-1897) e Muhammad ‘Abduh (1849-1905) si alimentano nel secolo XX e XXI filoni diversi. In parte vanno effettivamente inclusi nel movimento fondamentalista (e leggono la salafiyya ottocentesca attraverso gli occhiali del suo esponente tardo Rashi¯d Rida¯, 1865-1935), in parte sono invece a vario titolo «riformisti». Il programma di «modernizzare l’islam» e «islamizzare la modernità» non manca di una certa ambiguità.

Lo scenario descritto da Weismann (2001) con riferimento alla città di Damasco è importante, perché ci presenta lo schema tipico di un movimento di risveglio. A fronte di una crisi si manifesta un movimento di riformisti, che rimane aperto a diverse interpretazioni, è sviluppato dalla generazione successiva in direzioni alternativamente progressiste, conservatrici, o fondamentaliste, con eventuali sbocchi ultra-fondamentalisti. I riformisti insistono tutti sulla sharī‘a, ma se la sua interpretazione debba essere basata solo sul taqlīd (tradizione, cristallizzata nei hadīth [forma preferibile a «gli» hadīth, dal momento che la lettera h iniziale è aspirata]) o anche sull’ijtihād (ragionamento individuale di tipo analogico, che permette un margine di interpretazione e adattamento) è la questione che divide i loro discepoli. A seconda dei diversi accostamenti alla sharī‘a ci si colloca nelle nicchie conservatrice o fondamentalista. Nella sostanza, tuttavia, i riformisti rispondono a una domanda religiosa cui la precedente offerta non era adeguata, e – anche tramite le stesse divisioni dei loro discepoli – creano nei paesi a maggioranza islamica un mercato religioso di tipo moderno.

Il mercato religioso intra-islamico

Ogni discussione di tipo teorico necessita, come si è visto, della previa distinzione fra fondamentalismo-movimento (riferito a un determinato movimento storico, con precise origini e sviluppi) e fondamentalismo-tipo ideale (riferito al carattere strict e a una certa idea del rapporto religione-cultura a prescindere dall’appartenenza all’una o all’altra corrente storica). Questo premesso, «non vi è nessuna ragione per ritenere che la teoria del mercato religioso non si applichi al mondo islamico» (Gill 2002, 128), purché si tenga conto che è un mercato religioso nella gran parte dei casi intra-islamico, dove la concorrenza è creata da diversi movimenti all’interno dell’islam, non da religioni diverse che all’islam si contrappongono. In questa prospettiva, si dovrebbero considerare sia il fondamentalismo-movimento sia forme di tradizionalismo come quelle rappresentate dai wahhabiti e dai deobandī come organizzazioni in concorrenza fra loro. Entrambe cercano di rispondere alla domanda religiosa che viene dalla nicchia che chiamiamo in senso generale «fondamentalista» (con riferimento al fondamentalismo come tipo ideale) o strict.

Alcune organizzazioni del fondamentalismo-movimento alzano il livello di tensione con la società fino ad andare a occupare la nicchia radicale (ultra-fondamentalista, o ultra-strict). Nello stesso tempo, secondo il consueto itinerario che prevede il graduale spostamento da nicchie più strict verso il centro, altre frazioni del fondamentalismo-movimento si muovono in direzione della nicchia centrale conservatrice. Si potrebbe perfino parlare di un itinerario islamico «da “sètta” a Chiesa». Del resto, già Enzo Pace (1999) ha acutamente notato che, nel momento in cui la loro pertinenza è messa in discussione con riferimento al cristianesimo, le categorie di «Chiesa», «sètta» e «misticismo» elaborate da Weber e Troeltsch possono rivelarsi assai feconde, opportunamente adattate, per una sociologia dell’islam.

Nella nicchia ultra-strict le frange radicali (alcuni delle quali includono esplicitamente il terrorismo tra i loro mezzi di lotta) del fondamentalismo-movimento si trovano in concorrenza con frange radicali del tradizionalismo (con cui possono allearsi o scontrarsi). Nella nicchia conservatrice, gruppi che evolvono dal fondamentalismo-movimento si incontrano (o, ancora, sono in concorrenza) con altri che corrispondono a diverse linee di sviluppo dei revival ottocenteschi nati intorno a personaggi come Afghānī e ‘Abduh e ai loro omologhi in area non araba. Infine, un islam che secondo il modello delle nicchie può essere chiamato «conservatore» nasce autonomamente in diversi paesi con movimenti originali di carattere riformista come il movimento Nur in Turchia, su cui torneremo.

Non si devono confondere questi movimenti riformisti di tipo conservatore con altri che si collocano nella nicchia progressista. Come «fondamentalismo», anche «modernismo» nel mondo islamico è una parola utilizzata ambiguamente e con molti significati diversi. Se si tratta di abbracciare la modernizzazione economica e tecnologica, la maggior parte dei «fondamentalisti» è essa stessa «modernista». Meno ambiguamente, si può parlare di «progressismo» (una categoria forse meno logorata dall’uso per quanto riguarda l’islam) per correnti e organizzazioni caratterizzate dai bassi costi richiesti ai membri e da un’accettazione della separazione fra religione e cultura come inevitabile, e di «ultra-progressismo» per correnti che teorizzano e promuovono questa separazione di tipo laicista e non si limitano ad accettarla. L’audience di queste correnti, pure non assenti nel mondo islamico, rimane però relativamente limitata.

Il laboratorio turco

Si può dire che la Turchia sia un esempio da manuale di come una teoria sociologica rivelatasi fallace abbia informato la politica di un intero grande paese per parecchi decenni. Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), il creatore della Turchia moderna, ispirava consapevolmente la sua politica al positivismo di Auguste Comte (1798-1857), di cui era grande ammiratore. Come è noto, secondo Comte la storia dell’umanità procede linearmente dallo stadio religioso a quello scientifico: a mano a mano che la scienza avanza, la religione è fatalmente condannata a recedere, e la resistenza religiosa alla scienza rappresenta un fenomeno di retroguardia e un ostacolo al progresso.

Benché Atatürk abbia personalmente attraversato fasi diverse nella sua relazione privata con la religione (Mango 2000), negli ultimi anni del suo governo il processo per instaurare il «laicismo» (laiklik, parola importata dalla Francia, cui si guarda come modello da imitare) assume caratteri virulenti sul piano sia giuridico, sia pratico. L’organizzazione tradizionale dell’islam turco, articolata nella rete delle moschee e nell’autorità della classe dotta degli ‘ulamā’, ne riceve colpi durissimi. Ma – a conferma che spesso i processi di modernizzazione generano il risveglio e non la scomparsa della religione – l’islam turco, cacciato dalla sfera pubblica, sopravvive e prospera da una parte nelle confraternite sufi, particolarmente nelle varie branche della Naqshbandiyya, dall’altra nel già citato movimento riformista Nur («Luce») fondato da Said Nursi (1876-1960; cfr. Abu-Rabi‘, 2003). Benché non manchino scontri con il regime kemalista, entrambe le correnti resistono affermando di occupare spazi diversi da quello pubblico vietato alla religione: le confraternite la sfera privata, personale e familiare; il movimento Nur il campo della cultura attraverso circoli di lettura delle Epistole della Luce, il best seller del fondatore (a sua volta influenzato dal sufismo).

Questo complesso movimento islamico (su cui cfr. Yavuz 2003) comprende in sé varie tendenze – dal fondamentalismo a un moderato progressismo – ma ha in comune un riferimento positivo al passato ottomano (che il regime tende a sostituire con l’appello, scarsamente popolare, alla Turchia pre-islamica e perfino agli hittiti), la valorizzazione dell’islam turco rispetto a quello arabo, l’idea che il buon musulmano debba portare la sua moralità negli affari e che il successo economico sia una prova visibile dell’aiuto di Dio. Quest’ultimo accostamento – che non manca di ricordare il rapporto fra alcune denominazioni protestanti e il capitalismo prospettato da Max Weber (1864-1920) – si afferma in particolare nella branca della confraternita Naqshbandiyya detta Gümüşhanevi raccolta intorno al carismatico shaykh Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) e alla moschea İskenderpaşa di Istanbul. Della cerchia di Kotku – che coesiste con altre confraternite che contano milioni di seguaci, tra cui quella più tradizionalista dei Süleymancı – fanno parte tre futuri primi ministri: Turgut Özal (1927-1993), Necmettin Erbakan e l’attuale premier Recep Tayyip Erdoĝan.

Benché la Turchia kemalista sia una democrazia anomala, in cui il Consiglio per la Sicurezza Nazionale composto dagli alti vertici militari, custode del laicismo, ha il potere costituzionalmente riconosciuto di interferire pesantemente sul governo civile, negli anni della Guerra fredda si verifica un allentamento delle politiche anti-religiose. Non senza qualche suggerimento statunitense, i generali si convincono che la religione è un antidoto necessario al comunismo che s’infiltra pericolosamente nel paese. Di fronte all’incapacità di governi civili laicisti ma ampiamente corrotti di fronteggiare il terrorismo di matrice comunista e separatista curda, il colpo di Stato del 1980 apre la strada a un governo «suggerito» dai generali ma guidato da una personalità religiosa di ambiente sufi, Turgut Özal, che gode di ampio consenso. Tra l’altro, l’appello alla comune fede musulmana sunnita sembra l’unica via verso una soluzione del problema curdo. Il laiklik turco si precisa così come qualche cosa di diverso dal laicismo francese – coltivato dogmaticamente come tale solo dall’ala più «occidentalista» e ateizzante dell’esercito –, e assume i caratteri di un laicismo moderato (Davison 2003), il cui germe era forse già presente in tendenze dell’epoca fondatrice dell’Atatürk e dei suoi immediati successori (Davison 1998).

La prematura scomparsa di Özal apre la strada a un nuovo periodo di instabilità, in cui emerge il partito Refah («Benessere») di un altro discepolo dello shaykh Kotku, Erbakan. Per la prima volta a un partito religioso è consentito, nel 1995, di vincere le elezioni. Ma Erbakan, a differenza del prudente Özal, sfida i militari sul terreno del giudizio storico sul kemalismo e lascia intendere pericolose svolte in politica estera, allontanandosi dai tradizionali alleati Stati Uniti e Israele e avvicinandosi ai Fratelli Musulmani, esponenti di un fondamentalismo arabo assai diverso dal «fondamentalismo» turco. I militari – in cui prevale un’ala chiusa in un kemalismo militante – reagiscono con il colpo di Stato «soffice» del 28 febbraio 1997, in cui lo stesso Erbakan è convinto a promulgare nuove leggi anti-religiose che porteranno alla messa al bando del suo partito Refah.

La campagna anti-religiosa che ne segue – nel corso della quale anche un riformista moderato come Fethullah Gülen, dirigente della principale branca in cui si è frammentato il movimento Nur (cfr. Yavuz ed Esposito, 2003), è incriminato come «fondamentalista» e indotto a trasferirsi, ufficialmente per motivi di salute, negli Stati Uniti – non suscita consensi nella popolazione, né i governi «laici» danno particolare buona prova sul terreno economico. Il successore immediato del Refah, il partito Fazilet («Virtù»), è a sua volta tempestivamente messo al bando, ma nel movimento islamico si manifesta una divisione fra i «vecchi» – legati a Erbakan e ai suoi tentativi di contatto con il fondamentalismo arabo e iraniano – e i «giovani», raccolti intorno al carismatico sindaco di Istanbul, Erdoĝan (anch’egli, peraltro, messo al bando dal potere giudiziario controllato dai militari, in quanto accusato di voler sovvertire il laicismo).

La separazione fra Erbakan e Erdoĝan (una sorta di «svolta di Fiuggi» per il mondo che aveva fatto parte del partito Refah) dà visibilità politica alla differenza, divenuta sempre più netta, fra movimenti che occupano la nicchia fondamentalista (legati a Erbakan e ai «vecchi» del partito) e movimenti che occupano la nicchia conservatrice e centrista, egemonizzati da Erdoĝan, la cui iniziativa politica di «democrazia conservatrice» è spesso paragonata a una versione islamica delle Democrazie Cristiane europee degli anni 1950.

Sul fronte fondamentalista, l’erbakanismo (che rimane vicino alle posizioni dei Fratelli Musulmani) patisce in Turchia una scarsa concorrenza da parte di formazioni ultra-fondamentaliste: il terrorismo radicale è spesso di importazione, e anche gli attentati firmati da un gruppo dal nome tipicamente turco, i Cavalieri del Grande Oriente (Büyük Doĝu, titolo di un giornale fondato nel 1943 dall’influente intellettuale islamico Necip Fazıl, 1904-1983) rimangono ambigui e sono variamente attribuiti a servizi segreti deviati o a infiltrazioni dall’estero di al-Qā‘ida. Piuttosto, nella stessa nicchia, il fondamentalismo erbakanista patisce la concorrenza di gruppi che fanno parte del mondo che abbiamo definito «tradizionalista». In Turchia un islam puritano e «tradizionalista» è rappresentato principalmente da quattro milioni di Süleymancı, membri di una «comunità» (cemaat) fondata da Süleyman Hilmi Tunahan (1888-1959). Una cemaat non è tecnicamente una confraternita sufi: benché Tunahan provenisse personalmente da una branca, diversa di quella di Kotku, della Naqshbandiyya, criticava come irrimediabilmente decaduto il sistema delle confraternite, e Zarcone (2004, 281) ha potuto parlare a proposito dei Süleymancı di «sufismo senza confraternalismo».

Se la nicchia «progressista» si esprime soprattutto in intellettuali che tentano interpretazioni religiose del kemalismo sulla scia di Hasan Ali Yücel (1897-1961), nella nicchia «ultra-progressista» si possono collocare molti dei dieci milioni di alevi turchi, rappresentanti di una corrente di remote origini sciite e sufi che nel XX secolo ha legato la sua sorte a quella del laicismo turco. Oggi è arrivata a presentarsi, in certi suoi esponenti che si dichiarano ormai «non religiosi» e che sono spesso influenzati dal marxismo (ma che non rappresentano la maggioranza della corrente), come un semplice movimento «culturale» (Olsson, Özdalga e Raudvere 1998; Shankland 2003; White e Jongerden 2003). La questione dei rapporti con gli alevi induce tra l’altro una certa confusione all’interno di un’altra corrente, la Bektaşiya. Oggi si parla spesso di una «corrente alevi-bektaşi», facendo prevalere il fatto che entrambi i movimenti occupano la nicchia religiosa (e politica) ultra-progressista sulle differenze di struttura (si nasce alevi, si è iniziati come bektaşi) e di origine (la Bektaşiya, per quanto accusata di eterodossia, nasce all’interno dell’islam sunnita, mentre le origini degli alevi, certo controverse, non sono comunque sunnite).

Tutti questi fattori contribuiscono a spiegare la particolare forza dell’islam centrista e conservatore in Turchia, dove non è rappresentato solo dalle sue espressioni politiche alla Erdoĝan. Anzi, la novità principale è costituita dal già citato movimento Nur, che dopo la morte del fondatore Nursi si frammenta in otto principali branche, la più grande e internazionale delle quali è diretta come si è accennato da Fethullah Gülen. Il riformismo del movimento di Fethullah Gülen e quello di Erdoĝan in effetti non coincidono, solo una parte dei membri del gruppo di Gülen  in Turchia vota per il partito di Erdogˆan, e non mancano le divergenze, anche se entrambi promuovono un accostamento centrista e conservatore all’islam che si presenta come alternativo al fondamentalismo.

A proposito di quello che molti (ma non i suoi membri, che tengono al nome «Movimento Nur») chiamano «Movimento Fethullah Gülen », alcuni osservatori accademici parlano di uno stile di pensiero «neo-Nur» (Yavuz ed Esposito 2003), che unisce alle idee di Said Nursi un nazionalismo turco o grande-turco, il che ne spiega il successo nelle popolazioni che si considerano etnicamente affine ai turchi nell’Asia Centrale post-sovietica. Comunque sia, attraverso le oltre trecento scuole istituite in Europa e Asia, il «Movimento Nur» di Fethullah Gülen si è affermato come una delle principali presenze mondiali di un islam centrista e riformista. Le statistiche precise rimangono controverse – e c’è anche chi parla di un network più che di un movimento – ma i seguaci sono certamente nell’ordine dei milioni. Il movimento di Fethullah Gülen dedica particolare attenzione al dialogo inter-religioso, e in questo senso vanno segnalati un incontro fra lo stesso Gülen e Giovanni Paolo II nel  1998 nonché un congresso organizzato a Roma nel maggio 2003.

Alle elezioni del 2002, benché né Erbakan né Erdoĝan possano ufficialmente candidarsi, l’islam politico riesce a presentare due partiti, l’erbakaniano Saadet («Felicità») e l’erdoganiano Adalet ve Kalkınma (AKP, «Giustizia e Sviluppo»), che presenta un programma in cui la sharī‘a è indicata come orizzonte ideale piuttosto che come insieme di precetti fissi e immutabili, e in cui la politica estera è saldamente ancorata all’alleanza statunitense e alla richiesta di ingresso nell’Unione Europea. Gli elettori danno la maggioranza relativa (34,2%) dei voti e quella assoluta dei seggi all’AKP, mentre il partito Saadet si ferma al 2,46% e non raggiunge neppure il quorum, e il Partito Repubblicano kemalista registra con il 19,39% un’evidente sconfitta. L’AKP vittorioso mette in atto una serie di modifiche legislative che permettono al suo leader Erdogˆan di ritornare alla vita politica e diventare primo ministro.

La delicata transizione (su cui cfr. Insel 2003) si compie nel febbraio 2003, proprio nei giorni in cui il Parlamento deve votare sulla richiesta degli Stati Uniti che chiedono il passaggio attraverso la Turchia di truppe dirette in Iraq. Benché l’AKP (e i militari) suggeriscano ai parlamentari di votare a favore della richiesta americana, molti deputati tengono conto dei timori e delle riserve dell’opinione pubblica (nonché delle pressioni franco-tedesche, che minacciano ulteriori ostacoli all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea) così che la proposta ottiene la maggioranza relativa ma manca per soli tre voti la maggioranza assoluta necessaria. Qualche giorno dopo il voto Erdoĝan si insedia come primo ministro, concede agli Stati Uniti almeno lo spazio aereo e inizia a ricucire i rapporti con Washington. È peraltro assai significativo che i militari non siano intervenuti né per impedire l’insediamento di Erdoĝan né per imporre al Parlamento il voto a favore della richiesta statunitense.

La storia della Turchia è una prova empirica della fallacia della teoria classica della secolarizzazione. La modernizzazione – neppure in presenza di un imponente sforzo di laicizzazione tramite la scuola e i mezzi di comunicazione, saldamente sotto controllo kemalista – non ha generato scomparsa, ma piuttosto risveglio della religione. Se è vero che le grandi società commerciali spesso legate agli interessi stranieri, federate nell’organizzazione confindustriale TÜSİAD, sono considerate un pilastro del kemalismo, le cosiddette «tigri dell’Anatolia», le medie imprese della zona asiatica che hanno gran parte nel boom economico recente, hanno costituito un’organizzazione alternativa, MÜSI˙AD, la cui dirigenza si ispira a principi di tipo religioso e sostiene l’AKP.

Quest’ultimo partito costituisce un interessante esperimento – i cui risultati sono, evidentemente, da verificare – di movimento radicato nell’islam politico (turco e di ispirazione sufi, assai diverso da molte forme dell’islam politico arabo) che tuttavia si presenta come democratico, economicamente liberista e filo-occidentale. Insel (2003, 301) lo definisce «conservatore» e propone un esplicito parallelo con la corrente di matrice religiosa (cosiddetta theo-con) del neo-conservatorismo statunitense. Certo, l’AKP si trova di fronte a problemi assai complessi: se può affrontare (ma la soluzione è ben lontana) quello curdo con un richiamo alla comune appartenenza di turchi e curdi alla umma musulmana sunnita, rimangono sul tavolo i difficili rapporti con la Grecia per la questione di Cipro. La questione della condizione femminile rimane pure aperta, anche se – come è avvenuto per altri paesi – la militanza nei movimenti «fondamentalisti» e conservatori islamici si è rivelata per molte donne turche un fattore di mobilitazione e, a suo modo, di emancipazione. Militando in un partito islamico, le donne turche entrano in conflitto con lo Stato kemalista sulla questione del velo: ma questa stessa militanza le spinge a uscire di casa, a impegnarsi in una molteplicità di attività sociali, a sentirsi protagoniste di una battaglia politica (White 2002).

Tensioni fra i militari, da decenni alleati di Israele con cui intrattengono complessi rapporti sul piano strategico e delle forniture, e il governo civile di Erdoĝan emergono anche in materia di conflitto arabo-israeliano. Erdoĝan ha condannato alcune iniziative del governo Sharon, attirandosi le critiche dell’Esercito. Nell’assumere posizioni meno filo-israeliane dei suoi predecessori il primo ministro dell’AKP tiene conto non solo degli umori della sua base elettorale, ma anche delle pressioni di Francia e Germania che accusano paradossalmente la Turchia di essere sul punto non troppo poco, ma troppo «occidentale», nel senso di appiattita sulle posizioni degli Stati Uniti e scarsamente attenta, a differenza dell’Unione Europea, ai diritti dei palestinesi (con cui peraltro i turchi hanno rapporti difficili fin dai tempi dell’Impero Ottomano).

Il rischio è quello di contrapporre in modo rigido civili sempre e comunque «democratici» e militari sempre e comunque «non democratici». Storicamente in Turchia non è sempre stato così, e la strada per la stabilità passa semmai per una riconciliazione fra movimento islamico e ambienti militari capaci di sottrarsi al più rigido dogmatismo kemalista, già avviata negli anni di Turgut Özal che molti oggi considerano esemplari. In ogni caso, l’esempio turco conferma che accomunare nell’etichetta «fondamentalismo» ogni forma di islam politico, da Erdogˆan a bin Laden, è un’operazione non solo politicamente ambigua ma anche concettualmente infondata.

Ancora nel 2002 in Germania un opuscolo del Ministero dell’Interno bavarese (non nuovo a iniziative simili nei confronti delle «sètte») diffondeva informazioni assai critiche sul vecchio partito Refah e sulle sue derivazioni sovrapposte graficamente, in un’abile composizione, al volto ben riconoscibile di Osama bin Laden (cfr. Ewing 2003, 410). Operazioni come questa, promossa in una regione dove vivono centinaia di migliaia di lavoratori turchi, alla vigilia della consultazione elettorale del 2002 in Turchia, possono sembrare un semplice – anche se maldestro – tentativo da parte di ambienti politici tedeschi di sostenere i concorrenti elettorali dell’AKP. Ma c’è il rischio che il tentativo di sostegno al kemalismo abbia effetti involontari di aiuto all’estremismo. Vi è infatti nel mercato religioso intra-islamico una forte domanda di conservatorismo. Che essa sia soddisfatta da movimenti conservatori (ma non fondamentalisti) è condizione necessaria per evitare che  la carenza strutturale o congiunturale di offerta religiosa conservatrice spinga la domanda di conservatorismo a ripiegare sulle alternative fondamentaliste, quando non su quelle ultra-fondamentaliste o radicali. Le elezioni amministrative del 2004, con l’ulteriore avanzata dell’AKP, mostrano che il rischio in Turchia è per ora remoto. Ma molto dipenderà dalla complessa partita avviata dalla Turchia con l’Unione Europea, cui Erdoĝan ha scelto di legare indissolubilmente la propria avventura politica.

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