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Dal braccio di ferro tra Abu Mazen e Hamas può nascere la pace

di Massimo Introvigne (il Giornale, 18 gennaio 2005)

Dal dato degli astenuti nelle elezioni presidenziali palestinesi - più di un terzo degli aventi diritto al voto - parte Hamas per ricordare ad Abu Mazen che non rappresenta “veramente” tutti i palestinesi, dunque non può dare ordini alle milizie ultra-fondamentaliste, che non lo considerano il loro presidente. Eppure - al di là dei propositi bellicosi del suo dirigente politico Abu Marzuk - Hamas con Abu Mazen è disposta a discutere. Per il presidente, gestire in qualche modo il problema Hamas non è facoltativo. Israele gli ha già fatto sapere che non considera molto utile trattare con lui se poi, in modo del tutto indipendente, Hamas continua gli attentati.

Che cosa può fare Abu Mazen? Anzitutto, deve dimostrare ad Hamas di avere il controllo delle milizie armate del suo stesso partito, che con l’attentato di Karni hanno lanciato una sfida al presidente. Se le milizie non gli obbediscono, Abu Mazen non ha elementi di pressione su Hamas, che può continuare a considerare ogni minaccia come non più che verbale. Ove consegua - mobilitando le forze di polizia e quella parte di milizie che gli è fedele - questo primo obiettivo, il presidente dovrà fare svolgere regolarmente le elezioni politiche di luglio, senza cedere alla tentazione di rimandarle, e sperare che Hamas a queste elezioni partecipi. La partecipazione sembrava scontata, ma ora Hamas fa sapere che chiede prima al presidente di dichiarare che ai candidati non si chiederà di accettare previamente il quadro costituzionale palestinese uscito dagli Accordi di Oslo. Sono schermaglie tattiche, in cui Abu Mazen dovrà fare probabilmente qualche concessione. In cambio, sta chiedendo una moratoria degli attentati contro Israele, almeno di quelli suicidi (più difficile che cessi subito anche il lancio di razzi). Il percorso è a ostacoli, e ci sono due forze che brigano perché Abu Mazen inciampi: Al Qaida, che tuona via Internet, e l’Iran, che ha già messo in moto gli Hizbullah sciiti libanesi. Gli ostacoli sono alti, ma non insuperabili. Se Hamas continua a rimanere fuori dalla nuova politica elettorale - che comunque dimostra di interessare a quasi due terzi dei palestinesi - corre a sua volta il rischio di auto-emarginarsi. Se invece Abu Mazen persuaderà Hamas a partecipare ad elezioni politiche organizzate senza rinvii, e ne conterrà il prevedibile successo elettorale nei limiti di un 30-35%, avrà in mano tutte le carte per gestire un reale processo di pace in Medio Oriente.

Che voglia e possa giocarle dipenderà da due fattori. Il primo è la sua capacità di convincere a seguirlo l’ala violenta del suo stesso movimento nazionalista Fatah, che ha già cercato di assassinarlo prima delle elezioni, e di mettere almeno qualche limite alla corruzione dilagante nel suo partito ed ereditata da Arafat. Il secondo è la possibilità di Sharon di rimanere in sella in Israele, nonostante prevedibili imboscate che possono venirgli anche dal suo stesso partito Likud. Non lo aiuta un rapporto presentato da alcuni neo-conservatori americani più arrabbiati, che cerca di smentire il principale argomento del premier per il ritiro da Gaza: quello demografico, secondo cui un “grande Israele” con Gaza e Cisgiordania avrebbe tra pochi anni una maggioranza musulmana, perché le mamme islamiche fanno tre volte più figli di quelle non musulmane. Il rapporto è stato già fatto a pezzi dai demografi accademici, per i quali ha ragione Sharon: ma mostra che un po’ dovunque si annidano “falchi” ostili alla politica del primo ministro israeliano.

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