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Se l'Islam radicale cavalca il maremoto contro l'Occidente

di Massimo Introvigne (il Giornale, 4 gennaio 2005)

Come se non bastassero i disastri e le epidemie, c’è un’altra onda anomala su cui attira l’attenzione un rapporto della CIA e che preoccupa molto il nuovo governo indonesiano del presidente Yudhoyono. Dalla regione separatista di Aceh, in Indonesia, una delle zone più colpite, fino alla Tailandia e alla Somalia si diffonde la predicazione dei fondamentalisti islamici, che presentano lo tsunami come un castigo di Allah inflitto a governanti corrotti che non applicano la legge islamica, la sharia, e che si sono alleati con l’Occidente. Per l’ultra-fondamentalismo indonesiano si tratta di un’occasione immediata di rimonta dopo la cocente sconfitta subita nelle elezioni presidenziali del luglio 2004, dove il suo candidato Hamzah Haz si è fermato all’8% ed è rimasto escluso dal ballottaggio di novembre, per di più vinto da quel generale Yudhoyono che da sempre propugna la collaborazione con gli Stati Uniti e la linea dura contro i separatisti di Aceh, alcuni gruppi dei quali collaborano apertamente con Al Qaida.

Ad Aceh, del resto, una fragile tregua fra governo e separatisti era già stata rotta nel 2003. Nel Sud della Tailandia la guerriglia ultra-fondamentalista, pure legata ad Al Qaida, ha l’occasione di riorganizzarsi dopo dure sconfitte militari. Quanto al caos che regna in Somalia - dove i morti dello tsunami sono stati relativamente pochi (un centinaio), ma i danni economici molto gravi - per chiunque è facile pescare nel torbido. E perfino nelle pacifiche Maldive, che vivono di turismo e di buone relazioni con l’Occidente, si segnalano cupe prediche sul castigo di Dio sia nelle moschee fondamentaliste guidate da imam pakistani sia nei lussuosi centri islamici tradizionalisti finanziati dal denaro saudita.

La predicazione fondamentalista sullo tsunami procede secondo due linee. Al tema scontato del castigo di Dio - che peraltro (ed è anche questo un segno dei tempi) stavolta pochissima predicazione cristiana ha menzionato, a differenza di quanto avvenne per catastrofi del passato - si accompagna il rancore verso l’Occidente, accusato di interessarsi della zona a soli fini di sfruttamento economico o di turismo, ma di non avere fatto nulla per prevenire il disastro. L’accusa è evidentemente ingiusta, una forma di maligno sfruttamento del dolore altrui, ma assume nei sermoni degli imam una valenza teologica e apocalittica: la sopravvalutata scienza occidentale non può nulla contro la collera di Allah. E il discorso si rovescia facilmente nell’incitamento alla guerra santa: se Allah è con noi, non c’è difesa contro il jihad come non c’è contro lo tsunami.

Certo, gli effetti sociali e politici dello tsunami potranno essere valutati solo dopo qualche anno. Dopo tutto, ci sono voluti decenni perché gli storici riconoscessero in un altro tsunami, quello originato dall’esplosione dell’isola-vulcano di Krakatoa il 26 agosto 1883 (con trentaseimila morti in Indonesia), l’origine - precisamente - di un’ampia predicazione sulla catastrofe come castigo di Dio, e di un malcontento nei confronti della scienza e dell’amministrazione colonialista occidentale che non avevano saputo prevenire il disastro né gestire efficacemente i soccorsi, che si situano alle radici di quello che nel secolo XX diventerà il fondamentalismo islamico indonesiano.

Da questo punto di vista, aiutare le popolazioni colpite non è soltanto carità, ma è anche un gesto politico che aiuta a prevenire il diffondersi dell’ultra-fondamentalismo e del terrorismo.