Il divieto assoluto di sacrificare l’essere umano è uno dei messaggi più alti della Bibbia ebraica. La vita è sacra, insegna la Scrittura, ed è sacro il sangue che della vita è simbolo e veicolo. Su questo concetto essenziale, il testo ebraico torna decine e decine di volte, con un’insistenza che trasforma la proibizione dell’assassinio in un vero fondamento della religione giudaica. Di fronte a questa verità teologica, le ripetute accuse di omicidio rituale, che per centinaia di anni sono state scagliate contro gli ebrei, suonano come un autentico paradosso della storia.
La calunnia compare per la prima volta in età antica, in ambiente ellenistico. Quando Antioco cerca di trasformare il tempio ebraico di Gerusalemme in un santuario pagano, e accompagna la propria politica con un’efficace propaganda di diffamazione. È la sua corte a diffondere la diceria che gli ebrei rapiscano ogni anno un giovane greco, per poi farlo a pezzi e mangiarlo, giurando eterno odio alla sua gente. Il racconto si diffonde rapidamente. Lo storico Flavio Giuseppe ci informa che gli antisemiti di Alessandria lo usano per gettare discredito sulla comunità ebraica della città.
Quando comincia a emergere la setta cristiana, ecco che l’accusa viene rivolta contro il nuovo movimento, che ha tanti punti di contatto col giudaismo: “Ci accusano scrive l’apologeta Tertulliano nel II secolo di osservare un rito che consiste nell’uccidere un bambino e poi mangiarlo”.
Ma se il cristianesimo vince la propria battaglia, e s’impone come religione dominante, gli ebrei rimangono una minoranza vulnerabile. Nella sua versione medievale, la calunnia rinasce a Norwich, in Inghilterra: è il 25 marzo 1144, giorno di Pasqua, quando viene ritrovato il cadavere di un giovane cristiano. Il sospetto cade sul piccolo nucleo ebraico, che riesce tuttavia a farsi proteggere dallo sceriffo. Anche se, questa volta, nessun ebreo viene arrestato, attorno a William, la vittima, si crea un alone di leggenda e un benedettino del luogo raccoglie un dossier antiebraico.
Negli anni seguenti, casi simili si ripetono con frequenza, tanto in Inghilterra quanto nell’Europa continentale, in area francese e tedesca. Nel 1235, per esempio, 34 ebrei di Fulda vengono trucidati con l’accusa di aver ucciso cinque figli di un mugnaio e di averne raccolto il sangue.
Se le gerarchie ecclesiastiche locali avallano spesso le persecuzioni antiebraiche, durante il Medioevo il papato interviene ripetutamente per tutelare gli ebrei. In un decreto del 1247, Innocenzo IV ha parole inequivocabili: “Bisogna detestare la crudeltà dei cristiani che, per desiderio di beni o avidità del sangue ebraico, spogliano, straziano e uccidono gli ebrei, contravvenendo alla temperanza della religione cattolica, che li ammette a vivere nel proprio seno e ne tollera i riti”.
È solo nella seconda metà del Quattrocento che questo argine di tolleranza pontificia sembra cedere. Nel 1475, in occasione della cupa vicenda di Simonino da Trento, Sisto IV ordina un’inchiesta sul processo che ha portato alla condanna a morte degli ebrei tridentini, imputati dell’assassinio del bambino. Sebbene l’inviato pontificio, Battista de’ Giudici, sia convinto della loro innocenza, le pressioni dei colpevolisti sono più forti e l’indagine termina con una sostanziale ratifica della legalità del processo. Comincerà così il culto del beato Simonino, che si protrarrà fino al 1965. Durante i secoli della Controriforma, l’accusa di omicidio rituale rientrerà di fatto, se non di diritto, nell’arsenale della discriminazione contro gli ebrei.
Su questo tema tormentato, esce adesso, a cura di Massimo Introvigne, un importante testo settecentesco, una voce controcorrente, che rappresenta, in età moderna, la prima organica presa di distanza dal mito dell’omicidio rituale. È il responso scritto nel 1759 dal cardinale Lorenzo Ganganelli, futuro papa Clemente XIV, a proposito di un nuovo caso scoppiato in Polonia. Il cardinale passa in rassegna le accuse tradizionali e dimostra come gli ebrei siano, in realtà, vittime di calunnie senza fondamento. Eppure, anch’egli ammette la veridicità di due casi di “martirio”, quello di Simonino, e l’infanticidio di Andrea da Rinn, anche questo imputato agli ebrei nel Quattrocento e riconosciuto ufficialmente da Benedetto XIV nel 1753. Nonostante la sua visione illuminata, Ganganelli deve fare i conti con la pesante atmosfera di pregiudizio che regna ancora nella Chiesa dell’epoca.
Pur coi suoi limiti dottrinali, lo scritto del cardinale segnò una svolta importante, una prima apertura in un contesto che avrebbe tuttavia continuato a utilizzare il tema dell’omicidio rituale nella polemica ideologica contro “la perfidia ebraica”. La rinuncia al pregiudizio è una disciplina difficile: altri duecento anni sono stati necessari alla Chiesa per portare a termine il percorso intrapreso da Ganganelli nel Settecento.