L'estremismo islamico in una recente interpretazione

CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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"L'estremismo islamico in una recente interpretazione"
Una recensione di Fondamentalismi di M. Introvigne e Il mercato dei Martiri di M. Introvigne e L. R. Iannaccone

di Maria Immacolata Macioti (La Critica Sociologica, n. 152, inverno 2004-2005 [10 febbraio 2005)], pp. 95-99)

Sono usciti recentemente due interessanti testi di Massimo Introvigne in cui si tratta dell’estremismo religioso, con particolare riferimento a quello islamico, a partire da un’ottica di teoria economica delle religioni: si tratta di Fondamentalismi. I diversi volti dell’esperienza religiosa (Piemme, Casal Monferrato 2004) e, suo e di Laurence R. Iannaccone, Il mercato dei Martiri. L’industria del terrorismo suicida (Lindau, Torino 2004).

Ne i Fondamentalismi. I diversi volti dell’esperienza religiosa le tesi proposte sono di grande interesse: 1) i processi di modernizzazione, scrive l’autore, generano il risveglio e non la scomparsa della religione (v. anche il caso della Turchia); 2) la teoria della secolarizzazione, nonostante la sua fortuna in molti paesi, non si è rivelata adatta a spiegare il mondo di oggi.

Probabilmente, l’interesse con cui ho letto il libro deriva anche dalla convinzione che ho sempre pubblicamente espresso circa la persistenza di una domanda di sacro: fin da quando, con Franco Ferrarotti ed altri abbiamo scritto i volumi sulle Forme del sacro in un’epoca di crisi, usciti a fine anni ’70, inizio anni ’80 presso la casa editrice Liguori di Napoli. Introvigne comunque insiste sull’importanza di un uso corretto dei termini: non tutto l’islam è fondamentalista. Non tutto il fondamentalismo islamico è terrorista.

In un supposto mercato del sacro l’offerta, continua l’autore, genera la domanda. E i conservatori vincono, i progressisti perdono: una interessante notazione, mi sembra, che spiega anche, almeno in parte, le vicende del cattolicesimo a partire dal Concilio Vaticano II a oggi.

Comunque, qui si avanza un’attenta analisi della complessità della materia, della pluralità di atteggiamenti all’interno di quello che troppo spesso viene definito fondamentalismo, senza adeguate distinzioni. Né si tratta di oziose questioni accademiche: essenziale l’individuare interlocutori in posizioni intermedie tra laicismo e fondamentalismo. Sbagliato, infatti, il puntare esclusivamente su alleanze tra governi occidentali da un lato e regimi laicisti ed éradicateur dall’altro, in un mondo in cui esistono molteplici nicchie, in cui l’esperienza dell’emigrazione incide e induce mutamenti, in cui i movimenti fondamentalisti possono essere estremamentediversificati, in cui il “riformismo” può apparire in difficoltà (v. il caso iraniano, con Khatami).

Il testo è ricco di riferimenti a molti paesi, dall’India all’Iran, dall’Algeria alla Tunisia, dalla Giordania all’Afghanistan e all’Arabia Saudita, dal Pakistan alla Malaysia e all’Indonesia e, ancora, dal Sudan alla Turchia, alla Palestina: il modello turco, chiarisce Introvigne, va malissimo per il terrorismo internazionale: da cui la volontà di stroncarlo diffondendo un clima di insicurezza.

Il testo si sofferma anche sui temi dell’immigrazione in Europa, su quello della difficoltà della rappresentanza: da cui resterebbe fuori la nicchia centrale, mentre sarebbero rappresentati fondamentalisti e tradizionalisti. Ma soprattutto emerge il problema dell’ultrafondamentalismo: cioè del terrorismo suicida.

Compare qui il tentativo, poi ripreso più ampiamente nell’altro testo con Iannaccone, di delineare l’origine sociale dei suicidi terroristi: che non corrispondono, chiarisce lo studioso, affatto al profilo degli emarginati, dei disperati. E cita raccolte di diari dei candidati al martirio, pubblicati in Iran, in cui ricorre il tema del giovane martire (p. 197). Le giustificazioni del terrorismo suicida sono, suggerisce lo studioso, di ordine religiose, vanno lette in quest’ottica. Il test oggi per qualsiasi movimento islamico è, secondo l’autore, la sua disponibilità o meno a condannare il terrorismo suicida come mezzo di lotta (p. 209).

Il testo è certamente interessante e acquista consistenza se abbinato a quello sul Mercato dei Martiri.

Un’unica notazione vorrei aggiungere, che riguarda l’autocollocazione di Introvigne, che sempre si vede come sociologo della religione. Non senza ragioni, visto l’oggetto della sua attenzione. Ma anche qui come in altre sue opere, l’ottica da cui muove mi sembra più da studioso di scienze politiche, da storico delle religioni: meno presente, mi sembra, l’impostazione sociologica, nel senso di un tentativo di fondare nel sociale il tipo di credenza o, come in questo caso, di nicchia presa in esame. Qui l’unico punto in cui si ha un cenno alle origini sociali riguarda il terrorismo suicida. Per il resto, il discorso rimane su altri piani.

Comunque, come si accennava, questo libro andrebbe certamente accostato, nella lettura, a Il mercato dei Martiri. L’industria del terrorismo suicida, in cui si propone l’esame della domanda di estremismo, da parte di singoli individui; e dell’offerta in merito, da parte di organizzazioni estremiste. L’idea di fondo è che 1) la religione può spiegare molti comportamenti che si presentano in termini religiosi; e, 2) che i processi di modernizzazione non sono affatto incompatibili con una continua e forte presenza di credenze e pratiche religiose (v. la metafora del mercato religioso e dei beni simbolici) e che la concorrenza fa bene al mercato, che l’offerta alimenta la domanda; 3) che nel mercato religioso moderno non tutte le religioni hanno le stesse possibilità. Paradossalmente, sarebbero le organizzazioni più rigorose ad avere più seguito.

Chiarite queste ineliminabili premesse, si passa all’esame della domanda da parte dei singoli aspiranti terroristi suicidi: e si ribadisce che non si tratta di poverissimi né di emarginati. Dove si hanno dati, questi rinviano piuttosto ai ceti medi. Un altro mito che viene sfatato è quello della follìa: la scelta suicida segue, secondo questa interpretazione, una propria logica. Ci sono costi da pagare, ma si ritiene che il saldo sia positivo. Niente lavaggio del cervello, quindi. Giocano, invece, i legami sociali: il proselitismo funziona se e quando coincide con legami amicali o sociali. Né è un caso che in genere i primi convertiti a una nuova credenza siano i parenti del fondatore, i suoi amici più stretti. La dottrina verrà messa al centro delle narrazioni di conversione in un secondo momento soltanto. Ma, si dice in questo testo, la tipica recluta delle sètte è normale. Le conversioni sono rare e riguardano soprattutto persone con scarsi o deboli contatti sociali: è il gruppo che è dirimente, poiché il proselitismo è, in quest’ottica, un processo. A volte, possono essere dirimenti certi legami tribali: quelli, ad esempio, che hanno permesso a Saddam Hussein di nascondersi per otto mesi. La credenza, come si è detto, seguirà il coinvolgimento individuale.

Come ha luogo la domanda di esperienze religiose estreme? La nicchia ultrafondamentalista è, come si è detto, numericamente molto ridotta. Nell’ambito fondamentalista, pochi sono i soggetti potenzialmente interessati al fondamentalismo. Questi in genere fanno scelte razionali, nel senso che sono ritenuti importanti, dirimenti, i risultati ottenuti: anche a costo della vita. Il calcolo, si diceva, tra la propria morte e esiti di annientamento del nemico, di affermazione, di onore per sé rimane positivo. Non c’è, secondo gli autori, un tipo specifico di terrorista. Alcuni dei terroristi suicidi erano persone di mezza età, sposati, con figli. In vari casi si è trattato di donne (v. la Cecenia). La realtà è che i terroristi suicidi sono reclutati in una comunità in cui evidentemente esiste una certa domanda di estremismo religioso. Ne consegue che si potranno forse operare riduzioni, ma che è difficile pensare che si possa giungere alla eliminazione del fenomeno.

Un secondo capitolo è dedicato all’offerta, che riguarda, nell’ottica dell’economia religiosa, le organizzazioni. Ma anche leader dei movimenti, che sono da considerare come una sorta di imprenditori sociali a capo di strutture ampie e complesse, costose, in cui proliferano sottounità piuttosto autonome l’una rispetto all’altra per ridurre i rischi. I terroristi suicidi sarebbero quindi il risultato di un processo sociale. Che prevede il reclutamento, l’interazione con il gruppo, l’addestramento. Il reclutato, la manovalanza cioè, non può non essere responsabile, affidabile: non sarebbe possibile il ricorso a persone instabili, inaffidabili.

In tutto questo discorso la religione riprende un suo ruolo centrale. Quando si parla di organizzazione, si intende quindi un’organizzazione religiosa. La religione costituisce la spiegazione principale. È la religione che fornisce carburante (la metafora è degli autori) al mercato dei martiri. Naturalmente, perché dall’offerta si passi all’atto terroristico suicida ci vuole un incontro con una domanda latente.

Si insiste molto, in questo testo, sul fatto che i martiri, i terroristi suicidi cioè sono pochi. Pochissimi. Ma enorme è l’attenzione dei media: proprio per l’eccezionalità. Pochi anche i movimenti che incoraggiano queste scelte: di varie migliaia di movimenti religiosi presenti negli USA, si ricorda, due soli sono stati i leader carismatici che hanno ordinato omicidi: Jim Jones in Guyana (1978) e David Koresh (1993). Il fatto è che l’attenzione si concentra su pochi gruppi violenti, mentre si ignorano le centinaia di gruppi non violenti.

Procedendo nell’analisi, il testo propone l’esempio del fondamentalismo cristiano, dove si è arrivati, in effetti, all’omicidio, in pochi, tristemente noti casi: contro medici abortisti, soprattutto. Ma il numero degli uccisori è minimo sia in senso assoluto che in paragone ai tanti che sono contrari all’aborto, che lo vedono come un assassinio. Questo perché “non esistono organizzazioni cristiane attive in modo sistematico sul mercato del reclutamento, dell’addestramento e dell’organizzazione di attività terroristiche anti-abortiste” (p. 86). In campo cristiano sembrerebbe esservi una domanda di estremismo religioso cui non corrisponderebbe una offerta adeguata. In ambito islamico invece, secondo questa analisi, l’offerta sarebbe adeguata, nel senso che esisterebbero organizzazioni che beneficiano del sostegno, almeno passivo, di vasti network all’interno della tradizione religiosa in cui militano, addestrano e organizzano i terroristi suicidi.

Si possono avere ipotesi diverse circa l’interpretazione della parola terrorismo: qui ci si richiama alla Convenzione Internazionale per l’eliminazione dei finanziamenti al terrorismo votata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre del 1999, secondo cui per terrorismo deve intendersi attività svolte non da Stati o governi per causare morte o gravi danni fisici a civili o a chi non prende comunque parte a un conflitto armato. Scopo: intimidire la popolazione, indurre un governo o uno Stato a determinati comportamenti. Il terrorismo è giudicato sempre illecito, per quanto possa apparire legittimo lo scopo.

L’esame dell’atteggiamento dell’islam nei confronti del terrorismo suicida è reso più complesso dall’assenza di una gerarchia verticale. Il testo ricorda comunque la posizione legittimante assunta da autorità sciite nel contesto della lotta dell’Iran contro l’Iraq di Saddam Hussein prima, poi nel quadro dello scontro tra sciiti del Sud del Libano e Israele. Dal 1993 poi le “operazioni di martirio” sembrerebbero essere state addotte da Hamas, organizzazione sunnita palestinese, e giustificate da autorità sannite. Gli autori comunque sembrano nutrire dubbi circa alcune opinioni negative e condanne espresse da chi in altri casi avrebbe avallato scelte analoghe. Forse, ipotizzano, si è condannato Bin Laden per lo scarto esistente tra intenzione e azione? La loro ipotesi è che si abbia in ambito islamico un network fondamentalista più ampio che in altre religioni.

Il terzo capitolo ha per titolo Combattere il terrorismo dal lato dell’offerta. Si parte dall’idea che è illusoria l’eliminazione della domanda. Che gli interventi a monte (combattere l’analfabetismo, la povertà, ecc.) non bastano: si è detto che non è dalla marginalità che emerge il terrorismo suicida. Ci vorrebbe più democrazia? Ma molti terroristi sono stati reclutati in Germania, in Gran Bretagna. In Marocco. Sarebbe più utile, secondo gli autori, conoscere e studiare meglio il mercato dei martiri e quindi intervenire colpendo l’azienda terrorista. Con infiltrazioni, azioni di intelligence e anche paralizzando i possibili finanziamenti. Vi sono altre imprese in concorrenza? Vanno aiutate, incrementate, ai fini di un riequilibrio del mercato religioso.

Tutti e due i testi riportano interessanti Appendici. Il Mercato dei Martiri riporta la fatwa di giustificazione dell’attentato suicida compiuto nel giugno 2000 dalla terrorista cecena Hawa Barayev, di cui forse è stato autore lo shaykh saudita Hamud bin ‘Uqla al-Sh’aybi (1925-2002); testo notevole, si ricorda, per la provenienza ma anche per l’ampia circolazione e rilevanza, per la diffusione in Internet, per la legittimazione del terrorismo religioso. L’altro libro, quello sui Fondamentalismi, riporta un’inquietante testo che, con tutte le diversità del caso, rinvia a una sorta di veglia d’armi dell’aspirante terrorista suicida. Si tratta di un testo con riferimenti coranici, L’ultima notte, in cui si riprendono i vari passi da compiere per giungere preparati all’azione “per la gloria di Allah”.

Immagino che i pareri in merito a questi libri e alle interpretazioni proposte possano essere di vario tipo: certamente possono suscitare disaccordi oltre che adesioni parziali o totali. Essi hanno comunque il merito, a mio parere, di addentrarsi in un tema difficoltoso, affrontandolo sotto un’angolatura interessante e che sembra potere dare alcune indicazioni esplicative. E di riproporre all’attenzione degli studiosi la centralità, ai nostri giorni, della religione.

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