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Testimoni di Geova e diritto delle comunità religiose di espellere un associato: una pericolosa ordinanza del Tribunale di Bari

Nota: Con ordinanza depositata il 14 dicembre 2004 il Tribunale di Bari ha revocato l’ordinanza, riconoscendo che in realtà “il diritto di difesa del fedele è stato tutelato”. Con sentenza del 20 febbraio 2007, pronunciando nel merito, il Tribunale di Bari ha rigettato tutte le domande dell’avvocato Pucci.

img(m.i.) È stato pubblicato il testo di un'ordinanza del Tribunale di Bari, Sezione distaccata di Bitonto, che sospende l'efficacia di un provvedimento di “disassociazione” - cioè, secondo le parole del Tribunale, di “esclusione e/o scomunica” - di un membro della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova. La pericolosa ordinanza rompe con una lunga tradizione di rispetto da parte dell'autorità giudiziaria dell'autonomia degli ordinamenti speciali come quelli religiosi (ex art. 8 Costituzione) ma anche, per esempio, sportivi così che, per esempio, non è stato finora ritenuto possibile fare ricorso alla giustizia civile contro l'espulsione di un giocatore in una partita di calcio decisa dall'arbitro o contro una squalifica comminata dal giudice sportivo.
Il Tribunale di Bari fa salve le previsioni delle Intese e del Concordato, e ricorda che secondo l'Intesa firmata il 20 marzo 2000 fra Repubblica Italiana e Testimoni di Geova “gli atti in materia disciplinare” di questi ultimi “si svolgono senza alcuna ingerenza statale”. Ma, dal momento che tale intesa sottoscritta dal Governo non è stata (ancora) ratificata dal Parlamento con legge di esecuzione, “non se ne può assumere l'efficacia immediata nel diritto statuale”, e dunque il giudice avrebbe per ora titolo a ingerirsi nelle procedure di “disassociazione, esclusione e/o scomunica”, quantomeno e in particolare sotto l'aspetto procedurale verificando se sia stato rispettato il “giusto processo” (una nozione difficilmente applicabile, in genere, agli ordinamenti interni delle comunità religiose). C'è da augurarsi che il processo di merito conduca a conclusioni più rispettose dell'art. 8 della Costituzione e del principio di non ingerenza dello Stato e dei giudici negli affari interni delle comunità religiose. Diversamente potremmo aspettarci che - dal momento che anche l'Intesa con l'Unione Buddista Italiana non è stata ratificata dal Parlamento - un giudice ordini la reintegrazione in una comunità buddista di un membro che affermasse che il Buddha non era un illuminato ma un cialtrone e un mistificatore, almeno qualora l'esclusione non sia avvenuta secondo le regole del “giusto processo”. Oppure - si licet magna componere parvis - che un giudice originale (o tifoso) annulli il provvedimento di espulsione di un giocatore di calcio durante una partita (certamente preso senza il rispetto del “principio generale sull'ordinamento del giusto processo”: dov'era in campo l'avvocato difensore?) e ordini la ripetizione della partita.
Segue il testo dell'ordinanza.

Tribunale di Bari. Sezione distaccata di Bitonto. Ordinanza 1 giugno 2004: "Testimoni dei Geova: sospensione del provvedimento di espulsione di un associato".

(Omissis)

TRIBUNALE DI BARI
SEZIONE DISTACCATA DI BITONTO

Proc. n. 373/2003 R.G.A.C. (Pucci V., difeso dagli avv.ti Luigi De Marco e Luigi Liberti, c/Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, difesa dagli avv.ti prof. Pietro Rescigno, Giuseppe Tucci, e Andrea Barenghi e altri)

Il G.U.

a scioglimento della riserva, osserva.

Premesso che all'intesa dell'ex art. 8, co. 3, Cost. - conclusa il 20-3-2000 tra la Repubblica Italiana e la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova - non è seguita la legge d'esecuzione, il che implica che non se ne può assumere l'efficacia immediata nel diritto statuale (ciò vale anche in riferimento all'art. 1 della detta intesa a tenore del quale “la Repubblica… riconosce… che gli atti in materia disciplinare si svolgono senza alcuna ingerenza statale”), ciò premesso, appare chiaro che, ai fini dell'emissione dell'invocato dictum sospensivo ex artt. 23-24 c.c., l'apprezzamento in ordine al fumus bonis iuris deve essere condotto, non col riferimento al merito della deliberazione di esclusione (merito in ordine al quale potrebbe anche in ipotesi, come propugnato da autorevole dottrina, ritenersi privo di ogni competenza il giudice statuale stante l'art. 8, co. 1, Cost. che prevede la piena libertà delle confessioni religiose donde l'asserita insindacabilità giudiziale dei provvedimenti di disassociazione, esclusione e/o scomunica dei loro adepti o fedeli), ma con attinenza alla forma del provvedimento di disassociazione o espulsione che deve fare salvo, sulla base del principio generale dell'ordinamento sul “giusto processo”, il diritto alla piena difesa dell'incolpato ed il rispetto degli adempimenti procedurali previsti dallo statuto.

Spetta dunque a questo giudicante verificare se nella specie siano in particolare state osservate le formalità procedimentali e, segnatamente, le “competenze” stabilite dall'art. 5 per l'adozione del provvedimento espulsivo e parimenti se vi sia stata congruenza tra la sequenza procedimentale in concreto adottata e le garanzie di difesa (che prescrivono, in materia disciplinare, l'esigenza della previa contestazione degli addebiti, dell'audizione a discolpa cui segue eventualmente l'irrogazione della sanzione).

Sempre a mo' di premessa, va precisato che, pur nell'innegabile “concitazione” difensiva dell'attore (di cui è riprova l'elencazione anche di fatti e circostanze rievocanti l'intera vicenda esistenziale di scarsa attinenza al thema decidendum), risultano chiaramente dedotti nell'atto introduttivo, per quanto qui rileva, due vizi della delibera d'espulsione: a) l'assenza di contestazione preventiva degli addebiti e b) l'assenza della rituale proposta degli anziani della congregazione locale all'assemblea centrale ex art. 5, u.c., St.. A tal proposito, va subito chiarito che l'estensione lite pendente dell'impugnativa del Pucci alla delibera assembleare 3-7-2003 pare correlata, ex art. 183 co. 4 c.p.c., alle stesse difese della Congregazione che ha reso nota solo in comparsa di risposta quale fosse l'adunanza assembleare che ebbe a deliberarne l'esclusione (invero l'attore, stante l'assenza di notifica formale dell'espulsione, riteneva che scaturisse dai Comitati giudiziari speciali, di prima istanza e di appello, succedutesi nel periodo dal 6 al 20/6/2003).

Orbene, tracciato in questi termini il perimetro della presente controversia, deve soggiungersi che appaiono sussistenti, nei limiti dell'apprezzamento sommario esperibile nella presente fase, entrambi i vizi formali lamentati dall'attore. L'art. 5 dello statuto della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova stabilisce invero che “l'espulsione dei soci aderenti (quale è innegabilmente il Pucci) è deliberata dall'assemblea su proposta del Corpo degli anziani delle Congregazioni locali”. Nella specie, e sulla scorta di quanto così previsto statutariamente, gli esiti dell'istruttoria disciplinare del Comitato giudiziario di prima istanza e d'appello avrebbero dovuto trasfondersi in una delibera del Corpo degli anziani di Bari - S. Spirito - ossia la Congregazione locale presso cui è associato il Pucci -, il quale avrebbe poi dovuto proporre l'espulsione all'assemblea della Congregazione centrale, ciò che non risulta documentalmente avvenuto. Significativo è d'altronde che la difesa della Congregazione si richiami, per giustificare l'anomalo iter procedimentale, alla pubblicazione “Organizzati per compiere il nostro ministero” a suo dire integrativa dello Statuto.

Ora, prescindendo dal fatto che non si comprende come l'integrazione (recte: la modifica) dello Statuto della Congregazione Cristiana dei testimoni di Geova, approvato con l'art. 2 del dpr 31-10-1986, n. 783, possa avvenire per effetto di tale pubblicazione (peraltro già tradotta in italiano sin dal lontano 1983), anziché con la procedura prescritta ex art. 8, co. 6, stesso Statuto, mette conto evidenziare che, se fosse vero l'assunto della Congregazione in ordine dell'osservanza della procedura delineata nella pubblicazione citata, dovrebbe argomentarsi nel senso dell'illegittimità dell'intero iter disciplinare atteso che, nella pubblicazione in menzione (v., in particolare, pag. 146 e ss.), è espressamente affermato, in contrasto rispetto allo statuto confessionale, che è il Comitato giudiziario che “decide” (tra l'altro senza previa contestazione d'addebiti) la disassociazione dalla congregazione, tant'è che, in caso di appello al Comitato giudiziario di seconda istanza, “si tiene in sospeso l'annuncio della disassociazione” (così a pag. 147).

Sotto altro concorrente profilo, non risulta in atti alcuna preventiva contestazione d'addebito indirizzata al Pucci dal Comitato giudiziario speciale di prima istanza, né v'è prova che la relazione del detto Comitato speciale 8-6-2003 (si noti: l'unico atto contenente, seppure indirettamente, un'elencazione di infrazioni) sia stata portata a conoscenza dell'incolpato o che questi avesse comunque facoltà di prenderne visione. La violazione del diritto di difesa si rifletterebbe, invero, in termini di illegittimità della delibera con conseguente facoltà di chiedere in questa sede il provvedimento sospensivo.

Passando all'esame del periculum in mora, cui si richiama implicitamente la disposizione dell'art. 23 c.c. (laddove impone la verifica dei “gravi motivi” per l'adozione del provvedimento sospensivo), tale requisito può dirsi esistente in re ipsa: invero, sono direttamente correlate al mantenimento dello status di associato le facoltà di esercizio delle pratiche religiose, la pienezza di rapporti sociali e economici con gli altri aderenti, e perfino il mantenimento dei vincoli più profondi con i componenti del nucleo familiare, entro cui avverrebbero, in esito alla c.d. disassociazione, innaturali lacerazioni (cfr altresì sul punto la deposizione resa dall'informatrice Pucci S., figlia dell'attore, all'udienza 18-5-2004).

In altri termini, in attesa della statuizione finale sul merito potrebbero aggravarsi, in difetto del necessario provvedimento sospensivo, disagi e turbamenti esasperati anche dalla specifica sensibilità religiosa dell'appartenente all'associazione confessionale, e non suscettibili di adeguata riparazione ex post.

È inutile obiettare in proposito, come fa la difesa della Congregazione, che “nessun giudice estraneo alla comunità religiosa potrebbe assolvere i fratelli dall'osservanza del provvedimento espulsivo, trattandosi di materia incoercibile, rimessa com'è all'appartenenza del singolo alla comunità di fede, e quindi alla coscienza individuale, e perciò radicalmente estranea alla dimensione del diritto statuale…” ; e ancora che “la disassociazione è fatto eminentemente spirituale su cui il giudice non può pronunciarsi”. Al di là del rilievo che le riferite allegazioni difensive sembrano non considerare l'esigenza, scaturente dall'ordinamento giuridico statuale, di uno spontaneo adeguamento della Congregazione al dictum giurisdizionale (eventualmente anche mercé l'annuncio ai fedeli della sospensione degli effetti della “disassociazione”), è noto che l'emissione dell'ordine giudiziale non potrebbe dirsi preclusa qualora se ne assumesse in concreto l'incoercibilità, poiché il requisito della coercibilità non costituisce, come noto, carattere indefettibile condizionante la correttezza, la validità e l'efficacia del provvedimento giurisdizionale.

p.q.m.

sospende, con riferimento al Pucci, l'esecuzione della deliberazione di espulsione 3-7-2003 dell'assemblea della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, di cui alla proclamazione del successivo 9-7-2003, disponendo la notifica a cura dello stesso Pucci ex art. 23, co. 3 ultimo periodo, c.c. del presente provvedimento al Presidente della Congregazione e legale rappresentante p.t.; rinvia la causa, per i provvedimenti di cui all'art. 184 c.p.c., all'udienza del 2-12-2004 assegnando alle parti termine sino a 30 gg. da oggi per precisare e/o modificare le domande ed eccezioni e sino ai 30 gg. successivi per eventuali repliche.

Se ne dia comunicazione alle parti.

Bitonto, 1-6-2004

Firmato: dr. Salvatore Casciaro

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