Velo sì, velo no: problema plurisecolare nel mondo islamico che s’interroga con insistenza sull’abbigliamento femminile più consono alla natura propria della donna e al rispetto delle indicazioni coraniche al riguardo. Oggi il dibattito ha assunto valenze diverse: non è più solo il pudore femminile a dover essere difeso ma spesso, in certi ambienti, è l’identità stessa della donna islamica a riconoscersi in un pezzo di stoffa posto sul capo a copertura di quei capelli ove, secondo un detto del Profeta, risiede un terzo della bellezza femminile.
Il dibattito, che prosegue da secoli, non è peraltro destinato a esaurirsi a breve giacché origina proprio nella poca chiarezza con cui il problema viene affrontato nel Corano stesso.
In epoca preislamica l’uso del velo è incerto, e nel Corano è richiamato solo sette volte: poche per un elemento che avrà tanto significato nei secoli futuri. Durante la vita di Muhammad non vi è nulla che testimoni un simile uso da parte delle sue numerose mogli. In genere si fa però risalire la rivelazione circa il velo al versetto 53 della sura 33: a Medina, nell’anno 5 dell’Egira, dopo aver sposato la cugina Zaynab, Muhammad non riesce ad allontanare i numerosi ospiti presenti nella propria casa e così, a un certo momento, decide di tirare una cortina (sitr) che divida la stanza in una parte destinata a tre ospiti particolarmente invadenti e un’altra riservata alle attenzioni di Zaynab verso il marito. Fu lì che scese la rivelazione dell’ hijab, il velo: “Quando chiedete ad esse (le mogli del Profeta) un qualche oggetto, chiedetelo da dietro una cortina: ciò è più puro per i vostri cuori e per i loro”. È quindi una circostanza particolare che rende necessaria la separazione fra gli estranei alla casa di Muhammad e le donne, in questo caso esplicitamente solo le sue. Inoltre, il termine hijab viene usato più volte con significati del tutto diversi: come barriera che impedisce al credente di vedere Allah durante la rivelazione (Corano, XLII, 51); come velo con cui Maria, la madre di Gesù, si riparò dagli sguardi indiscreti della propria gente (XIX, 17); come barriera che separa i dannati dai beati nel giorno del Giudizio (VII, 46). Esiste poi l’espressione “darabat al-hijab” cioè “ella mise il velo”, a significare “sposò il Profeta”; solo le mogli di Muhammad potevano infatti portare il velo (XXXIII, 59), e questo perché le si distinguesse dalle altre donne, in particolare dalle concubine, e perché fossero particolarmente rispettate dai fedeli, a cui peraltro il Corano faceva espresso divieto di sposarle in caso di ripudio o di morte del loro marito. In senso ancora più generale, l’espressione indica il “velo” della notte che avvolge il sole al tramonto (XXXVIII, 32), o ancora, e in senso mistico, è il buio che ottenebra il cuore e i sensi degli empi (XLI, 5).
Quattro diversi modi d’intendere il velo
Tuttavia nell’islam classico e contemporaneo, l’hijab ha acquisito significati diversi, seguendo almeno quattro percorsi fra loro anche molto lontani:
Il velo, inizialmente imposto solo alle mogli di Muhammad, è stato esteso a tutte le donne musulmane libere. Indica il passaggio dall’infanzia alla pubertà e serve a coprire tutto il corpo femminile tranne il viso e le mani. Secondo molti interpreti, questa usanza segna la netta separazione, anzi segregazione, della donna dalla società civile, ma nella prospettiva islamica indica soprattutto il rispetto dovuto alla donna che così viene salvaguardata dagli sguardi impuri degli uomini. Secondo Alessandro Aruffo, “nel corso della storia, l’islam ha proposto molteplici varianti del velo in rapporto ai popoli e alle culture con cui è venuto in contatto e con l’acquisizione di molteplici significati simbolici” (Donne e islam, Datanews, Roma 2000, p. 49) ed infatti si è parlato di volta in volta di litham, khinâ‘ e burkhu‘ . Quest’ultimo, il famoso burqa, è forse l’espressione più rigida della presunta prescrizione coranica, giacché non lascia trapelare nulla del viso e copre persino le mani con dei guanti neri. È tuttavia attestato che, durante la vita del Profeta, non tutte le sue mogli obbedivano alla prescrizione coranica e certamente non sempre. Se ‘A’isha, la preferita, usava indossare il velo del matrimonio, altre non lo facevano affatto. Famoso è l’episodio di Umm Omara, che durante la battaglia di Uhd combatté vicino al marito e fu da questi elogiata per come usava la spada, la stessa donna che nel 634, sempre in combattimento, perse un braccio.
L’uso generalizzato del velo fu certamente un’influenza bizantina e romana, dove l’abitudine a coprirsi il capo era tipica delle donne aristocratiche. È infatti noto che anche presso i musulmani l’uso del velo non venne per lungo tempo adottato nelle campagne dove le donne, dovendo lavorare la terra, preferivano abbigliamenti che consentissero maggiore libertà di movimento. Solo lentamente il velo si è imposto come uso comune, divenendo anzi gradatamente segno di distinzione e di appartenenza delle donne alla fede rivelata da Allah. Alla fine del XIX secolo, in Egitto prima e poi in Medio Oriente, partì un movimento a favore della abolizione del velo che trovò nello scrittore egiziano Khâsim Amîn il vero teorico della “emancipazione” femminile. Nel 1873, dopo l’apertura dei primi collegi femminili, alcune iniziarono a chiedere l’abolizione del velo e nel 1926 sarà Huda Sha‘râwi Pasha la prima a presentarsi in pubblico a capo scoperto. Oggi, al contrario, sono proprio le studentesse a chiedere e a indossare ostinatamente il velo in segno della loro appartenenza alla comunità islamica, talora in aperta sfida alle leggi statali come è recentemente accaduto in Francia.
Spirito e magia
Sempre il termine hijab (accanto a quello di sitr e di sitara) è usato per indicare la cortina di seta, o talora di legno pregiato, dietro la quale si cela il califfo o il re onde sottrarsi agli sguardi dei familiari. L’usanza, sconosciuta nei primi decenni dell’islam, pare sia stata introdotta dagli Omayyadi e sia stata poi ulteriormente complicata in Andalusia e in Egitto sotto i Fatimidi da un articolato rituale mirante ad aumentare il prestigio e l’aura sacrale del sovrano.
Nel mondo sufi, il termine hijab indica invece ciò che rende l’uomo impermeabile alla verità divina. Sono materialità, sensualità e superficialità che separano dalla verità divina la quale vorrebbe rivelarsi all’uomo e penetrarne il cuore, ma ne è impedita dalla bassezza delle passioni terrene. In ultimo, lo hijab è un oggetto semimagico usato in alcune pratiche popolari. Garantisce l’invulnerabilità a chi lo porta, assicurandogli il successo dei suoi propositi. Si tratta di un piccolo foglio di carta sul quale lo shaikh (o il faqir) traccia segni cabalistici o versetti coranici e che viene conservato a contatto con la pelle onde ottenere ciò che si desidera: una maternità, l’amore, il successo, una guarigione. Insomma, più un’usanza che un dogma scritturale.
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