CESNUR - center for studies on new religions

Tre cadaveri (islamici) eccellenti

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di Cultura, anno 3, numero 25, 19 giugno 2004)

Domenica 30 maggio 2004 il mondo dell’estremismo islamico internazionale ha perso in un giorno solo tre importanti dirigenti, nessuno dei quali è morto per malattia. Al mattino è stato ucciso, a Gaza, Wael Nassar, leader militare di Hamas. Al pomeriggio è caduto a Karachi il Muftì Nizamuddin Shamzai, tra i principali capi spirituali del movimento tradizionalista deobandi. Alla sera è morto a Baghdad Qahtam Kazem al-Rubai, portavoce dei Fratelli Musulmani in Irak. Tre morti molto diverse fra loro, cadute nel giorno in cui il mondo era scosso dall’attacco di Al Qa’ida in Arabia Saudita. Tre morti, però, che modificano in qualche modo la mappa dell’estremismo islamico internazionale e insieme aiutano a comprenderla.

Dopo il fondatore di Hamas, Yassin, e il capo politico, Rantisi, Israele ha colpito ancora, uccidendo il leader militare dell’organizzazione terroristica, Wael Nassar. Nel 1991 Nassar aveva contribuito alla fondazione dei Battaglioni Izz al-Din al-Qassam, il cui nome deriva da un predicatore siriano, teorico del fondamentalismo, ucciso in Palestina in uno scontro a fuoco con gli inglesi nel 1935. Attuale capo dei Battaglioni, Nassar si era specializzato nel reclutamento e nell’addestramento dei “martiri” da lanciare poi come bombe umane contro Israele.

Secondo il suo stesso Statuto, Hamas è impegnato in una lotta a morte contro Israele. Hamas ritiene che quello della Palestina e di Gerusalemme – la terza città santa per l’islam dopo La Mecca e Medina – sia, prima che un problema politico, un problema teologico. Secondo l’articolo 11 del suo Statuto, “nessuna organizzazione ha il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo della Palestina, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio”. “Cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione”: “le iniziative di pace e le cosiddette soluzioni pacifiche contraddicono tutte le credenze di Hamas” (articolo 13), e la Palestina va ripresa tutta “dal fiume al mare”, cacciandone fino all’ultimo ebreo. Quanto al futuro, l’obiettivo è “l’istituzione di uno Stato islamico” retto dalla legge islamica, la shari’a (articolo 9), il che spiega gli ambigui rapporti con il laico Yasser Arafat, che – se da una parte utilizza il terrorismo per i suoi fini – nel 1996 aveva fatto mettere Nassar in prigione, trattandolo così male da fare intervenire perfino Amnesty International.

In pratica, fino all’Undici Settembre, la dirigenza di Hamas sapeva conciliare la poesia della retorica con la prosa della politica. C’erano tensioni fra la dirigenza nei territori affidati all’Autorità Nazionale Palestinese e quella in esilio in Siria o nel Qatar, ma almeno la prima – guidata dallo stesso fondatore Yassin – manteneva aperti canali non ufficiali di discussione con i servizi israeliani, ed era disponibile a parlare, se non di pace, di “tregua”. Tra il 2000 e il 2001 Yassin non sembrava più tanto ostile all’idea di due Stati in Palestina, Israele e uno Stato palestinese, purché il secondo non fosse laico e governato da Arafat. Con l’Undici Settembre tutto è cambiato. I giovani palestinesi che costituiscono il bacino di reclutamento di Hamas hanno cominciato a subire il fascino del jihad globale di Osama bin Laden, un personaggio che Yassin non ha mai amato ma con cui altri leader del terrorismo palestinese concorrenti, per esempio quelli del Jihad Islamico, erano disposti a stipulare alleanze. Per non apparire invecchiata e imborghesita, tutta la dirigenza di Hamas ha dovuto allinearsi alle posizioni più oltranziste: la dialettica interna si è appiattita sugli estremisti.

Il tempo della tregua è così finito. Israele, sia pure lentamente, ne ha preso atto. Alla diplomazia sotterranea è subentrata una linea dura senza se e senza ma: terrorizzare i terroristi, ucciderne sistematicamente i capi, costringerli sulla difensiva. Si possono dire molte cose su questa nuova strategia di Sharon, ma una è certa: per ora funziona. Ai funerali di ogni nuovo dirigente caduto, Hamas promette spettacolari vendette: ma per il momento, con tutta la dirigenza impegnata a scappare e a nascondersi, non riesce a mantenere le promesse.

Dall’India con furore puritano

La stessa domenica 30 maggio a Karachi è stato ucciso il muftì Nizamuddin Shamzai, scatenando l’ira dei suoi sostenitori che hanno dato fuoco a diversi edifici nel centro della capitale pakistana. Shamzai era forse la voce più ascoltata della scuola deobandi, il cui nome deriva dalla città di Deoband, in India, sede dal 1867 di un centro di studi islamici tra i più importanti del mondo. Le scuole di ispirazione deobandi nel mondo sono poco meno di diecimila, e gli allievi diversi milioni. La scuola deobandi è la versione indo-pakistana del movimento wahhabita dell’Arabia Saudita: rigorista, puritana, attaccata anche ai minimi precetti della legge islamica, la shari’a, è anche in genere leale verso i poteri costituiti. Questo tradizionalismo non coincide perfettamente con il fondamentalismo, che condivide con deobandi e wahhabiti l’attaccamento alla shari’a, ma insieme è un movimento rivoluzionario di tipo moderno, assai poco rispettoso delle autorità costituite.

La grande scuola coranica di Binori, a Karachi, di cui Shamzai era il rettore, rivaleggia con Deoband come centro del movimento internazionale deobandi. Dalla scuola di Binori è passata gran parte della classe dirigente del movimento dei talebani, al potere in Afghanistan fino al 2001. Shamzai era anche una figura di punta del partito deobandi Jam’iyyat-i Ulama’-i Islam (JUI), rivale in Pakistan del movimento fondamentalista Jama’at-i Islami ma oggi suo alleato in un cartello di partiti religiosi che condizionano il regime del generale Musharraf. Shamzai aveva inizialmente benedetto l’alleanza fra i suoi allivi talebani tradizionalisti e il fondamentalista Osama bin Laden, ma dopo l’Undici Settembre aveva compreso che quell’alleanza avrebbe travolto il regime talebano, ed era corso in Afghanistan per consigliare ai suoi ex alunni di sbarazzarsi del superterrorista. Non è pertanto escluso che Shamzai, che pure rimaneva un estremista ultra-tradizionalista e continuava a tuonare contro gli americani e l’Occidente corrotto, sia stato ucciso da Al Qaida. Né si può escludere che nell’attentato ci sia la mano dell’Iran sciita, dal momento che il defunto manteneva ferma la dottrina deobandi secondo cui gli sciiti non sono veri musulmani, ed aveva avuto fra i suoi allievi responsabili di bande sunnite che terrorizzano e massacrano gli sciiti in diverse regioni del Pakistan. Non è forse un caso che il successivo 1° giugno ci sia stato in Pakistan un sanguinoso attentato a una moschea sciita.

Infine, è anche possibile che l’assassinio sia maturato nel clima di rivalità che divide da diversi anni i movimenti jihadisti di ispirazione deobandi che operano in Kashmir in funzione anti-indiana. Shamzai era stato il primo firmatario di una celebre fatwa del 1999 che dichiarava quella contro gli indiani in Kashmir una guerra santa, ed era stato chiamato diverse volte a mediare fra due gruppi terroristi rivali attivi nella lotta contro l’India, Harkat-ul-Mujaheddin e Jaish-i-Muhammad. Nel 2000 Shamzai aveva costretto i due gruppi a una tregua che li aveva lasciati entrambi scontenti. I talebani e Osama bin Laden appoggiavano Harkat, e sei membri del gruppo Jaish, accusati di violenze carnali nei villaggi occupati, erano stati impiccati in Afghanistan su ordine del Mullah Omar. Pur atteggiandosi a mediatore, Shamzai era accusato dallo Jaish di favorire a sua volta Harkat. Chiunque ne sia il responsabile, l’assassinio di Shamzai promette ulteriori turbolenze nel mondo dell’estremismo islamico indo-pakistano, con rischi per l’ordine pubblico dell’intero subcontinente indiano.

I Fratelli irakeni

Infine, ancora domenica 30 maggio, il responsabile dell’informazione e portavoce del Partito Nazionale Islamico in Irak, Qahtam Kazem al-Rubai è stato assassinato a Baghdad. Al-Rubai era un membro dei Fratelli Musulmani, il cui leader iracheno Mohsen Abdel Hamid è il capo del Partito Nazionale Islamico. I Fratelli Musulmani, fondati nel 1928 in Egitto da Hasan al-Banna, sono la maggiore organizzazione del fondamentalismo islamico internazionale. Nemici giurati dei regimi nazionalisti laici, in Irak sono stati duramente perseguitati da Saddam. In Egitto, da molti anni, i Fratelli Musulmani hanno scelto la strada neotradizionalista di una islamizzazione dal basso. Hanno rinunciato agli attentati e puntano a conquistare, prima della titolarità del potere politico, la società civile, anche se il regime ne diffida e ancora qualche settimana fa ne ha arrestato numerosi dirigenti. In Giordania i Fratelli Musulmani sono entrati nel gioco parlamentare. Solo in Palestina Hamas, che si definisce nel citato Statuto “una branca dei Fratelli Musulmani”, continua a ricorrere alla violenza e al terrorismo. I Fratelli Musulmani degli altri paesi simpatizzano con Hamas, ma ne attribuiscono il volto terroristico alle peculiari condizioni palestinesi, anche se in realtà Hamas ha da anni elaborato un’ideologia assai più estremista rispetto alle attuali posizioni della sua “casa madre” egiziana. In Irak i Fratelli Musulmani – fatto unico nella loro storia – collaboravano addirittura con gli americani, e Hamid faceva parte del Consiglio Provvisorio di Governo. Di qui l’“avvertimento” da parte di ultrafondamentalisti che – secondo una polemica che Osama bin Laden conduce da anni – considerano la scelta non violenta dei Fratelli Musulmani un tradimento.

Tutti terroristi?

Fondamentalisti come al-Rubai, tradizionalisti come Shamzai, ultrafondamentalisti come Nassar hanno in comune il riferimento alla legge islamica come legge ideale degli Stati, ma rappresentano anche posizioni piuttosto diverse fra loro. Secondo la teoria sociologica delle nicchie (che ho illustrato nel mio volume Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa, Piemme, Casale Monferrato [Al] 2004) la domanda religiosa si distribuisce in cinque nicchie diverse: ultra-progressista, progressista, conservatrice, fondamentalista e ultra-fondamentalista.

Tralasciando le prime due nicchie, poco diffuse nell’islam al di fuori di qualche cerchia di intellettuali, è importante distinguere fra: ultrafondamentalisti, che negano in teoria e in pratica qualunque possibile distinzione fra religione, cultura e politica; fondamentalisti, che ripetono la negazione di questi distinguo in teoria ma ne accettano alcune modalità nella pratica; e conservatori, che negano la separazione fra religione e cultura – e tra religione e politica – ma accettano una loro distinzione. Quanto ai tradizionalisti, cercano di ricostruire il rapporto fra religione e realtà secolari sulla base di una idea della sacralità del potere politico, e le loro posizioni variano a seconda del potere politico di riferimento. Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan è un pio musulmano conservatore; i Fratelli Musulmani sono fondamentalisti (con derive ultrafondamentaliste in alcuni paesi); Hamas e Al Qa’ida appartengono all’area ultrafondamentalista; i wahhabiti sauditi e deobandi indo-pakistani sono tradizionalisti.

Confondere tutte queste posizioni sotto un’unica etichetta di “fondamentalisti terroristi” è un errore che l’Occidente dovrebbe evitare. Solo entrando nella dialettica interna al mondo islamico è possibile trovare alleati. E senza alleati musulmani questa guerra non si può vincere.

[Home Page] [Cos'è il CESNUR] [Biblioteca del CESNUR] [Testi e documenti] [Libri] [Convegni]

[Home Page] [About CESNUR] [CESNUR Library] [Texts & Documents] [Book Reviews] [Conferences]