Lunga conversazione con il migliore esperto di fenomeni religiosi nell'inquieta realtà contemporanea: Massimo Introvigne. Le divisioni nell'Islam, dai conservatori ai militanti di Al Qaeda che identificano la fede con la politica
Si intitola Fondamentalismi. I diversi volti dell'intransigenza religiosa (Piemme) l'ultima fatica del sociologo Massimo Introvigne, fondatore e direttore del CESNUR (Centro studi sulle nuove religioni). Oramai la parola fondamentalismo si è trasformata in utensile politico, spiega l'autore. Quando qualcuno non ci è simpatico lo etichettiamo subito come fondamentalista, ma la sociologia delle religioni necessita di strumenti di analisi più sofisticati e rigorosi. In questo volume applico ai movimenti religiosi la teoria delle nicchie, che dall'economia è stata portata nell'analisi della politica e dei movimenti sociali. In questo modo si possono distinguere diverse 'nicchie' di consumatori religiosi, ovvero la nicchia ultraprogressista, quella progressista, quella centrista o conservatrice, quella fondamentalista e infine la nicchia ultrafondamentalista. Nel mondo islamico un personaggio come il primo ministro turco Erdogan è un conservatore, i Fratelli Musulmani sono dei fondamentalisti (tranne che in Palestina, dove operano sotto la sigla di Hamas) e Bin Laden è un ultrafondamentalista. Queste distinzioni sono importanti per non cadere nell'hegeliana notte, dove tutte le vacche sono nere, e per non privarsi di una possibilità strategica, ovvero intervenire sulle dialettiche che esistono all'interno del mondo islamico così da favorire l'isolamento delle componenti ultrafondamentaliste che hanno scelto il terrorismo.
Introvigne, quali sono gli elementi distintivi dell'ultrafondamentalismo islamico?
A caratterizzarlo è la massima separazione dalla distinzione tra fede e cultura, fede e realtà secolari, tra fede e politica. I progressisti sono coloro che accettano di buon grado questa distinzione, che proviene dall'Illuminismo, gli ultraprogressisti la favoriscono entusiasticamente, i conservatori postulano l'esistenza di una distinzione che però non deve diventare separazione (è la posizione del magistero della Chiesa cattolica), i fondamentalisti vogliono in teoria una stretta unità tra fede, ma nella pratica accettano dei compromessi, gli ultrafondamentalisti predicano in modo parossistico la non distinzione tra fede e politica. Fede e politica devono coincidere e siccome nella realtà non coincidono, la realtà è sbagliata, per cui o ci separiamo andando a creare delle comunità isolate, oppure decidiamo di cambiare il mondo con gesti rivoluzionari. Gesti che possono anche assumere la forma del terrorismo. Queste distinzioni, però, sono applicabili a tutte le religioni, non solo all'islam.
Forse bisogna ricominciare a riconoscere l'importanza del fattore religioso anche quando si parla di terrorismo
C'è in giro una vulgata, sicuramente sbagliata, secondo cui la religione è sempre sovrastruttura di natura economico-politica e il terrorismo sarebbe il grido dei diseredati, degli emarginati e dei più poveri contro il Nord del mondo. In realtà una mia indagine su Hamas di qualche anno fa, come quelle di altri studiosi, evidenzia come il terrorista medio abbia un reddito più alto e una scolarizzazione più elevata rispetto al palestinese medio, per non parlare di Al-Qaeda, dove il livello sociale è molto alto, da Bin Laden all'egiziano al-Zawahiri fino agli operativi. Mohammed Atta, che guidava il comando dell'11 settembre 2001, aveva appena completato un dottorato di urbanistica all'Università di Amburgo ed era figlio di un ricco avvocato del Cairo. Non siamo di fronte ai disperati dei campi profughi. Lo stesso vale per altre forme di terrorismo come le Brigate Rosse, composte non solo da operai, ma da borghesi e intellettuali. Giangiacomo Feltrinelli non era precisamente un poveraccio. È evidente come nel terrorismo islamico le motivazioni non siano economiche, ma ideologiche, e l'ideologia in questo caso è un'ideologia religiosa. Come possiamo pensare che i martiri e i candidati al martirio mentano tutti spudoratamente quando si richiamano alla religione? Dobbiamo guardare in faccia le cose anche quando non ci piacciono. Queste persone dicono la verità e la loro interpretazione dell'islam li porta ad usare l'arma del terrorismo.
Perché anche sui media si continua a definire i kamikaze come dei disperati?
Direi che le vecchie teorie sociologiche persistono ancora nei media e nell'opinione pubblica. È l'idea di origine marxista secondo cui ideologia e religione sono solo maschere di una realtà economica. Quindi la disperazione ideologica o religiosa deve essere maschera di una disperazione economica. Non è così. Anche in Cecenia, dove una certa propaganda russa dipinge le terroriste come donne, contadine, violentate da piccole ed escluse dal mercato matrimoniale, ci troviamo di fronte a biografie ben diverse. Zarina Alikhanova, che il 12 maggio 2003 provocò la morte di 60 persone, due anni prima ballava come protagonista in Romeo e Giulietta al Teatro dell'Opera di Alma Ata e aveva studiato al liceo tedesco del Kazakhistan, la scuola per i super-ricchi dell'Asia centrale. Quindi esistono forme di disperazione politica e religiosa che non vanno confuse con il piano economico. Poi c'è una forma di ritrosia, che ci deriva dal cristianesimo, a collegare la religione ad atti violenti, però è giocoforza, di fronte a questi fenomeni, accettare la verità scandalosa che nel terrorismo suicida quella religiosa è una componente molto importante, anche se non l'unica.
I terroristi suicidi sono schegge impazzite, oppure nel mondo islamico godono di un consenso diffuso?
C'è una via di mezzo. Quella ultrafondamentalista è una nicchia di minoranza, anche perché in una situazione normale molte organizzazioni nascono come ultrafondamentaliste, poi, aggredite dalla realtà, passano alla nicchia fondamentalista, se non a quella conservatrice. Perché questo sembra non verificarsi nei Paesi Islamici? Talvolta per un effetto mediatico, visto che i media dedicano più spazio ai movimenti terroristici che non a quelli conservatori e moderati. In Turchia esiste un movimento, il Nur (Luce), che conta sei milioni di aderenti, che con l'attuale governo ha relazioni molto complesse (il loro leader non è ancora rientrato dall'esilio), però non viene mai citato. Sempre in Turchia troviamo partiti religiosi di tipo democratico, che faticosamente percorrono un itinerario simile a quello che fu della Democrazia cristiana.
Dunque è sbagliato considerare il terrorismo islamico come una reazione alle malefatte dell'Occidente?
La prima reazione dell'ultrafondamentalismo è contro le malefatte dei governanti dei Paesi a maggioranza islamica. La grande questione nel mondo islamico, ci insegna Bernard Lewis, inizia nel 1683, dopo il fallimento del secondo assedio di Vienna, perché da lì inizia la fase del ritorno indietro dell'islam. Con la spedizione napoleonica in Egitto, quasi tutti i Paesi a maggioranza islamica sono colonizzati dagli occidentali, ma sono colonizzati perché erano caduti in una condizione di colonizzabilità. Una prima ondata di riformismo dice che questo è successo perché noi musulmani non siamo andati al passo con l'Occidente, quindi dobbiamo diventare più occidentali. Questo è il nazionalismo che va al potere con Atatürk in Turchia, poi, dopo la Seconda guerra mondiale, con il partito Baath in Siria e Iraq, con Nasser in Egitto, Ben Bella in Algeria e Bourghiba in Tunisia.
Costoro sono tendenzialmente dei laici
Sì, ma non mantengono le loro promesse, affondano in un oceano di corruzione, di non rispetto dei diritti umani, di sconfitte militari, e così prende vigore un'altra risposta: noi musulmani sbagliamo, non perché siamo distanti dall'Occidente, ma perché siamo troppo vicini. Ci siamo allontanati dalla via salafita dei pii antenati, abbiamo importato usanze, leggi e vizi occidentali. Bisogna tornare ai tempi del Profeta. La crisi dei regimi nazionalisti, che non hanno mantenuto le loro promesse, favoriscono un'ondata fondamentalista, che non è un semplice tradizionalismo, ma è un curioso movimento insieme moderno e antimoderno, che mette insieme il mito del ritorno all'età dell'oro dei primi secoli dell'islam, e una modernità rivoluzionaria che si ispira al marxismo e a un uso spregiudicato di tutti i mezzi moderni, non solo militari. I fondamentalisti nel mondo islamico dominano Internet e sono molto presenti all'interno di al-Jazeera. Quindi, al contrario dei conservatori wahhabiti sauditi, che dicono di non guidare l'auto, di non guardare la tv, di non usare Internet, i fondamentalisti sono ultramoderni da un punto di vista organizzativo.
Lei scrive: Il vero problema non è chiedere ai musulmani se condannano l'11 settembre, ma se condannano il terrorismo suicida senza se e senza ma
In una indagine sociologica in Marocco emerge come la maggioranza dei marocchini condannino gli attentati dell'11 settembre 2001 e al-Qaeda, mentre approvano gli attentati di Hamas. Un complesso antisionista nel mondo islamico impedisce la condanna del terrorismo tout court. Il problema non è contrapporre agli attentati di Hamas le ingiustizie di Israele, ma distinguere tra mezzi e fini. Il mezzo terroristico, intendendo per terrorismo l'uccisione a fini politici di civili non combattenti, è un mezzo che deve essere sempre condannato, perché è sempre illecito, anche se al servizio di una giusta causa. Se per protestare contro Hitler, causa giusta, qualcuno, una domenica pomeriggio, avesse fatto saltare in aria un ristorante bavarese pieno di pacifiche famigliole con bambini, non avrebbe compiuto un atto legittimo di resistenza. Un atto da condannare sul piano morale, nonché su quello politico, perché avrebbe finito per favorire il regime. Se si apre una porta per un'eccezione, la porta finisce per rimanere aperta per tutti.
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