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La Somalia, un Paese che l'Italia non ha dimenticato

di Massimo Introvigne (il Giornale, 24 agosto 2004)

La battaglia di Najaf non si combatte solo sul piano militare. C'è anche una guerra di fatwa emanate da diverse autorità sciite. In Occidente si tende a confondere la fatwa con l'equivalente musulmano di un pronunciamento del magistero pontificio cattolico, come tale vincolante per tutti i fedeli. In realtà, la fatwa è l'opinione di uno o più giuristi e tecnicamente è vincolante solo per i loro discepoli diretti. È tanto autorevole quanto lo sono coloro che la firmano. Certo, rispetto al mondo sunnita dove su molti argomenti una guerra di fatwa contrapposte si combatte ogni giorno anche su Internet, le cose dovrebbero essere più chiare nel mondo sciita, che ha un clero con una gerarchia precisa. Tuttavia il sistema sciita funziona sulla base del primato fra le varie autorità del marja e-taqlid (“fonte di emulazione”), e una buona ventina di candidati nel mondo rivendicano questo titolo. In Irak la grande maggioranza della popolazione considera il grande ayatollah Sistani, attualmente in ospedale a Londra per problemi cardiaci, come la “fonte di emulazione” più autorevole, ma altri parlano a nome di marja che risiedono all'estero, principalmente in Iran.
Sulla situazione di Najaf circolano almeno sette fatwa. La più importante, firmata da Londra da Sistani, chiede a Moqtada al-Sadr di consegnare ai rappresentanti del grande ayatollah le chiavi della moschea dell'imam Alì, loda gli sforzi del governo irakeno e gli chiede di restaurare “la legge, l'ordine e la sicurezza”. Una fatwa dell'ayatollah Abdulaziz Hakim, leader del partito Sciri che cerca di mantenere buoni rapporti sia con gli Stati Uniti sia con l'Iran, chiede anch'essa al governo irakeno di restaurare l'ordine a Najaf, pur senza condannare esplicitamente al-Sadr. L'ayatollah Kahazam Kahiri - che è legato agli ambienti più radicali in Iran e sostiene apertamente al-Sadr -dichiara che è illecito per truppe non musulmane avvicinarsi alla moschea dell'imam Alì, critica l'“arroganza americana” e auspica che gli Stati Uniti lascino l'Irak al più presto possibile. Altri quattro documenti si limitano a chiedere che ogni sforzo sia compiuto per evitare danni alla moschea, benché con sfumature diverse.
Sullo sfondo si combattono tre battaglie non meno importanti di quelle militari. La prima concerne la riaffermazione del primato di Sistani su tutto il mondo sciita irakeno. La seconda corrisponde all'ambizione dello stesso Sistani di farsi riconoscere come massima autorità del mondo sciita internazionale, contrastata dagli ambienti religiosi iraniani. La terza battaglia è in corso a Teheran, fra i radicali che sostengono al-Sadr e la prospettiva di uno scontro dai toni apocalittici contro l'Occidente, e i pragmatisti che appoggiano il governo irakeno e lo Sciri. Se Sistani vince, e i radicali di Teheran perdono, la guerra di al-Sadr è finita.
Una mano alla pace in Irak potrebbe darla il calcio. Il Paese segue con enorme entusiasmo l'inattesa cavalcata trionfale della nazionale irakena alle Olimpiadi che, dopo avere rifilato quattro gol al Portogallo e battuto l'Australia nei quarti di finale, è approdata alle semifinali. Il 24 agosto l'Irak si fermerà per la partita decisiva contro il Paraguay. Dovesse vincere l'Irak (ma anche perdendo si giocherà la medaglia di bronzo il 27, contro Italia o Argentina) le urla dei tifosi sovrasterebbero i proclami rivoluzionari di al-Sadr. Non sarebbe la prima volta che il calcio unifica un Paese drammaticamente diviso.

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