L'annuncio secondo cui Pakistan e India dopo lo storico incontro a Islamabad tra il presidente pakistano Pervez Musharraf e il premier indiano Atal Behari Vaypajee inizieranno in febbraio colloqui a tutto campo, senza escludere l'argomento finora tabù del Kashmir, fa seguito al secondo attentato, in dicembre, contro il presidente. La sua posizione è cruciale per la pace nella regione, ma precaria. Il generale Musharraf sta, letteralmente, seduto su una polveriera, dove il primo problema è l'eterna tensione etnica e sociale fra i mohajir gli immigrati dall'India al momento della partizione del 1947 , in genere più poveri e discriminati nell'accesso alle cariche politiche (ma Musharraf è un mohajir), e gli antichi abitanti delle regioni pachistane, soprattutto punjabi, che formano l'élite politico-economica del Paese.
Su questo problema etnico e sull'eterno conflitto con l'India, la cui bandiera è la questione del Kashmir e che fonda la decisione pachistana di diventare potenza nucleare si insericono tutta una serie di questioni religiose, che non solo dividono la maggioranza sunnita (75%) dalle varie correnti sciite (23%), ma anche i sunniti al loro interno. In Pakistan più forte che altrove è un modernismo islamico che ha preso la strada del socialismo, propugnato da Zulfikar Ali Bhutto (1928-1979), premier sciita destituito nel 1977 con un colpo di Stato militare e impiccato nel 1979, e dalla figlia Benazir, due volte primo ministro fra il 1988 e il 1996 e oggi in esilio in Inghilterra.
Il partito dei Bhutto, il Ppp, è la versione pachistana del Partito del Congresso indiano: socialista, dominato da una singola famiglia, laico, ma anche periodicamente travolto da accuse di corruzione. Un islam moderatamente conservatore è tradizionalmente quello della classe dirigente della Lega musulmana (dove però non mancano modernisti), il partito del fondatore della nazione Muhammad Ali Jinnah (1876-1948), a sua volta uno sciita ismailita. Ma l'egemonia della Lega è insidiata dal fondamentalismo, molto forte in Pakistan, dove ha vissuto fino alla morte uno dei suoi maggiori leader internazionali, Abu l-Al'a Mawdudi (1903-1979), fondatore della Jama'at at-i-Islami. Nonostante il suo radicalismo, i suoi successori sono molto cauti e oggi prendono le distanze dal terrorismo.
Semmai, il sostegno ad al Qaida viene da alcune delle numerose fazioni in cui si è divisa la Jama'at-ul Ulama-i Islam, il partito politico ispirato dalla puritana corrente deobandi, che conta oggi diecimila scuole coraniche, dall'Indonesia all'Afghanistan. Tutti i capi dei talebani afghani erano stati allievi di scuole deobandi in Pakistan. Il tradizionalismo deobandi che si distingue dal fondamentalismo per un maggiore rispetto delle autorità costituite e dei professionisti del sacro, gli ulama è affine a quello wahabita dell'Arabia Saudita. È quindi duramente antisciita, e ostile alle pratiche mistiche del sufismo, popolarissime tra i musulmani indopachistani, molte delle quali sono denunciate come superstiziose. Legati al sufismo sono, invece, i membri di un'altra scuola tradizionalista, i barelwi, che si esprimono nel partito Jama'at-ul-Ulama-i Pakistan. Né si devono dimenticare i tabligh, membri di un movimento missionario internazionale di ispirazione deobandi, che si tiene in disparte dalla politica, ma è in grado di mobilitare milioni di persone intorno a cause come la repressione delle minoranze religiose o la difesa della moralità pubblica.
Il generale Musharraf al potere dal 1999, quando ha destituito un primo ministro della Lega musulmana, Nawaz Sharif continua la tradizione dell'esercito pachistano avviata durante la dittatura del generale Muhammad Zia ul-Haq (1924-1988): riunire intorno a un regime autoritario tutte le componenti islamiche, chiamate a superare le loro divergenze, in nome della lotta contro il socialismo di Benazir Bhutto, l'immoralità e le minoranze (sciiti, cristiani e altri non musulmani continuano a essere discriminati o perseguitati).
A differenza di Zia, un pio fondamentalista, Musharraf è però un pragmatico che non ha esitato a incarcerare gli esponenti islamici più ostili ai suoi alleati statunitensi e a muovere gli ultimi decisi passi in direzione di un dialogo con l'India. La sua dittatura che egli presenta come temporanea, promettendo una transizione graduale verso la democazia impedisce alla polveriera di esplodere. Una caduta di Musharraf lascerebbe il campo, in un Paese che ha la bomba atomica (come l'India), a una pericolosissima guerra di tutti contro tutti: musulmani contro minoranze, mohajir contro punjabi, sciiti contro sunniti, fondamentalisti contro tradizionalisti, sufi contro puritani. Un caos di cui profitterebbe immediatamente il terrorismo internazionale.
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