Gli arresti di un buon numero di pakistani, sospettati di far parte di Al Qaida, in Gran Bretagna fanno seguito ad analoghe operazioni del mese scorso, e indicano che è ormai giunto il momento di porsi una domanda di notevole peso culturale e politico. Il modello inglese di integrazione e controllo della minoranza musulmana, creazione e vanto del Partito Laburista britannico, funziona ed è ancora attuale oppure è in crisi?
Nel modello detto multiculturalista ciascuna identità etnico-religiosa è riconosciuta come tale ed è ammessa a gestire, con un certo grado di autonomia interna, la sua vita quotidiana. Per i suoi sostenitori non si tratta del ghetto o dell'apartheid, ma del suo contrario, perché lo Stato non solo non discrimina, ma protegge e finanzia le minoranze semi-autonome. Nella pratica inglese, questo significa che interi quartieri abitati prevalentemente da pakistani, da indiani o da nigeriani sono di fatto ampiamente governati dalle rispettive associazioni etniche o religiose, finanziate con denaro pubblico. La stessa polizia lascia ampio margine alle associazioni.
La fatwa iraniana del 1988 che condannava a morte lo scrittore Salman Rushdie per il libro I versi satanici - appoggiata da esponenti di primo piano delle associazioni islamiche inglesi - aveva già costituito un primo momento di crisi del modello. Ne era nata una spinta alla costituzione di organizzazioni non più di quartiere o di etnia ma nazionali, capaci di candidarsi a rappresentare l'islam britannico di fronte alle istituzioni nazionali: prima l'UKACIA (United Kingdom Action Committee on Islamic Affairs), fondato appunto nel 1988, quindi - dopo vari altri tentativi - il MCB (Muslim Council of Britain), lanciato alla fine del 1997. Tuttavia queste associazioni nazionali non sono mai riuscite né a rappresentare tutti i musulmani britannici, né a scalzare le potentissime organizzazioni di quartiere. Dopo l'11 settembre 2001, l'intero modello multiculturalista è stato percepito come lassista nei confronti delle attività di ultra-fondamentalisti più o meno vicini a bin Laden, lasciati interamente liberi di organizzare una propaganda mondiale a partire da Londra, o meglio dal Londonistan come è chiamato scherzosamente dagli stessi musulmani.
Fino a qualche anno fa - prima che l'intervento in Irak rendesse Tony Blair meno popolare presso gli ulivisti nostrani - il multiculturalismo laburista era esaltato come un modello per l'Italia da tutta la nostra sinistra, da Prodi a Veltroni. Quello che succede in questi mesi nel Londonistan mostra che si tratta di un modello in crisi nel suo stesso paese di origine. Comunità islamiche separate, ampiamente gestite in autonomia dalle loro associazioni e organizzazioni (come sogna in Italia l'UCOII, la più grande organizzazione islamica italiana, legata ai Fratelli Musulmani) diventano incontrollabili e facilmente infiltrabili dai terroristi.
Il nostro ministro degli Interni Pisanu ha giustamente preso le distanze dal modello britannico, lanciando invece l'ipotesi di quello che chiama un patto con l'islam all'italiana, che non si rivolga principalmente alle associazioni ma proponga sul terreno della mediazione politica un'offerta di integrazione diretta anzitutto ai singoli musulmani. L'integrazione dei singoli, non l'autonomia di Londonistan separati, appare la via più adeguata a isolare i violenti e i terroristi.
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