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Le Filippine ingrate con l’America

di Massimo Introvigne (il Giornale, 11 luglio 2004)

Se le dichiarazioni del ministro degli Esteri filippino Delia Albert alla televisione araba al-Jazzira sono attendibili, le Filippine saranno il primo paese in Irak a cedere al ricatto dei terroristi e a ritirare le loro truppe purché l’ostaggio filippino in mano ai tagliatori di teste di al-Zarqawi sia liberato. Se partono i cinquanta soldati filippini la situazione militare sul terreno irakeno non cambierà gran che. Cambia invece, a favore del terrorismo, la situazione politica. I terroristi non operano in modo scriteriato, e non tagliano le teste in diretta televisiva per il gusto di tagliarle. Sono incoraggiati a continuare con gli attentati e con i rapimenti perché, dal loro punto di vista, funzionano. L’attentato di Madrid ha portato alla vittoria di Zapatero e alla fuga spagnola dall’Irak. Ora un rapimento fa scappare anche i filippini. Questo significa, con assoluta certezza, che ci saranno altri rapiti, altre bombe, altre teste tagliate. I terroristi operano secondo una rigorosa logica di costi e benefici: se una strategia funziona, perché dovrebbero cambiarla?
È paradossale che il primo a cedere ai rapimenti-ricatto sia proprio il governo filippino. “La vita di un nostro connazionale – ha detto il ministro degli Esteri – viene prima degli interessi degli Stati Uniti”. Ma in verità le Filippine non sono in Irak per gli “interessi degli Stati Uniti”. Ci stanno per gli interessi propri, perché in Irak sono stati arrestati terroristi filippini, che verosimilmente non si limitano a “lavorare” in loco ma si preparano anche a tornare in patria per rilanciare l’attività terroristica nell’arcipelago asiatico. A differenza di quanto avviene per l’Italia, per le Filippine quella al terrorismo non è una guerra preventiva per scongiurare attentati futuri. È una guerra già in corso, dove Al Qaida si è inserita su vecchie rivendicazioni separatiste delle isole di Mindanao e di Sulu a maggioranza musulmana.
Il governo della presidente Gloria Arroyo può affermare di avere lanciato con un certo successo una nuova strategia, promettendo autonomia e federalismo e portando le più grandi organizzazioni separatiste musulmane al tavolo delle trattative. Ma questo è potuto avvenire solo perché il movimento più direttamente legato (in modo strettissimo e ampiamente dimostrato) ad Al Qaida, il gruppo Abu Sayyaf, è stato sconfitto sul piano militare e oggi è ridotto a un’organizzazione puramente criminale, con scarsissimo seguito, dedita principalmente a rapimenti di occidentali a scopo di estorsione.
E la sconfitta del gruppo Abu Sayyaf è avvenuta con il decisivo contributo delle truppe americane. Dopo l’11 settembre l’amministrazione Bush ha inviato oltre seicento soldati e cento milioni di dollari di aiuti militari nelle Filippine. Una decina di militari americani, oltre a diversi funzionari di organizzazioni umanitarie e missionari partiti dagli Stati Uniti, sono tornati in patria in una bara avvolta in una bandiera.
Ma gli Stati Uniti non si sono ritirati dalle Filippine, anzi ci sono ancora. Ora, incoraggiato dalla fuga filippina dall’Irak, il gruppo Abu Sayyaf potrebbe riorganizzarsi. Inoltre il Fronte Islamico di Liberazione Moro – che, a differenza del più moderato Fronte Nazionale di Liberazione Moro, con il governo filippino non ha firmato una pace ma solo una tregua, e mantiene le sue milizie in armi – potrebbe alzare il prezzo o riprendere la lotta armata. La gratitudine non è di questo mondo, ma cedere ai ricattatori di rado porta fortuna.

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