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(Ri)costruire la nazione in Iraq. Lezioni dall'esperienza inglese degli anni 1918-1932
Una recensione di Inventing Iraq di Toby Dodge

di Massimo Introvigne

Il conto dei morti occidentali in Iraq si è fatto pesante. L'opinione pubblica del paese che paga il più forte tributo di sangue è in fermento. Nonostante le istituzioni internazionali abbiano incoraggiato una lunga permanenza di un numero adeguato di soldati occidentali in Iraq, si fa strada l'idea di ridurre le truppe e di ritirarle entro pochi anni. Il piano di cui si sussurra – ritiro in tre anni, accompagnato dalla pubblica dichiarazione secondo cui il governo iracheno è ormai in grado di cavarsela da solo – è popolare, ma potenzialmente disastroso. Tra tre anni l'Iraq non sarà affatto pronto a fare a meno dei soldati occidentali: rischierà di allearsi con i nemici di quello stesso Occidente che lo ha abbandonato, e di cadere nuovamente preda di una serie di regimi totalitari uno peggiore dell'altro.

Washington 2005? No: Londra 1929. Un rapporto preparato dal professor Toby Dodge per il Centro Studi sulla Globalizzazione dell'Università di Warwick e l'Istituto Reale di Affari Internazionali di Londra, pubblicato in volume dalla Columbia University Press di New York [1] , sottolinea le analogie fra i due scenari.

Dopo una Prefazione (pp. IX-XIX) che mette a fuoco appunto analogie e differenze fra gli anni 1920 e la situazione attuale, il volume è organizzato in ordine non cronologico ma tematico, e comprende capitoli su Comprendere il Mandato in Iraq (pp. 2- 4), seguito da Il sistema del Mandato, la fine dell'imperialismo e la nascita dello Stato iracheno (pp. 5-41); su Come gli inglesi vedevano l'Iraq ottomano (pp. 45-61); sull'opposizione nell'immaginario britannico fra Iraq Rurale e urbano (pp. 63-81); su Usare gli Shaykh. L'imposizione razionale di una figura romantica (pp. 83-100); su Il significato sociale della terra (pp. 101-129); su L'imposizione dell'ordine: la percezione sociale e il potere «dispotico» degli aeroplani (pp. 131-156); e infine una Conclusione: il passato dell'Iraq e i possibili futuri iracheni (pp. 156-171), seguita da Note (pp. 173-226), Bibliografia (pp. 227-247), Ringraziamenti (pp. 249-251) e Indice dei nomi (pp. 253-260).

È opportuno avvertire che l'opera si rivolge a un pubblico specialistico, e dà quindi per scontata una conoscenza preliminare delle grandi linee della storia irachena [2] e della situazione attuale del paese medio-orientale. Il punto di partenza, richiamato dal titolo, è l'«invenzione» dell'Iraq, Stato artificiale creato a tavolino dalla Gran Bretagna dopo la Prima guerra mondiale mettendo insieme tre province dell'Impero Ottomano smembrato dai trattati di pace, diverse per etnia (curdi al nord, arabi al centro e al sud) e religione (sunniti nel centro-nord, sciiti – maggioritari nell'Iraq in generale – nel centro-sud). Durante la Prima guerra mondiale i piani inglesi prevedevano la costituzione di una colonia, quanto meno limitata alla provincia meridionale di Bassora. Tuttavia la guerra segna la fine dell'egemonia economica e politica della Gran Bretagna, sostituita come massima potenza mondiale dagli Stati Uniti d'America, il cui presidente Woodrow Wilson (1856-1924) impone l'ideologia della decolonizzazione e della fine degli Imperi (ritenuti responsabili di tutte le guerre), al cui servizio si pone la Società delle Nazioni, fondata nel 1919. Prima della guerra, secondo idee del politologo canadese Robert H. Jackson, ampiamente riprese e applicate nel testo di Dodge, in base a un sistema che risaliva alla pace di Westfalia del 1648 «(…) occorreva guadagnarsi la sovranità. Per ottenere una personalità di diritto internazionale uno Stato doveva provare di essere effettivamente sovrano, di essere capace di controllare in modo stabile uno specifico territorio, di fornire beni politici ai suoi cittadini, e di interagire internazionalmente con gli altri Stati su una base di uguaglianza e reciprocità» [3] . Con la Prima guerra mondiale, l'ideologia di Woodrow Wilson, e la nascita insieme dell'egemonia americana e della Società delle Nazioni, il sistema che aveva retto il mondo dalla pace di Westfalia al 1918 cambia: «(…) la nozione di Stato sovrano diventa universalmente applicabile anche a quelle regioni e a quei popoli le cui storie erano sempre state vissute fuori dalla cornice statuale» [4] . Non occorre più «guadagnarsi» la sovranità, che diventa un diritto per qualunque popolo, il che segna in teoria – anche se non ancora in pratica – la fine del colonialismo.

Peraltro, lo stesso Wilson e la Società delle Nazioni distinguono fra diritto alla sovranità e possibilità concreta del suo esercizio. Le nazioni che non hanno (ancora) conosciuto lo Stato moderno – e tanto più le nazioni artificiali come l'Iraq, «inventate» tracciando linee su qualche carta geografica – hanno anch'esse diritto (sempre secondo la cosiddetta dottrina Wilson) alla sovranità. Tuttavia non sono ancora in grado di esercitarla e devono essere, per così dire, accompagnate passo dopo passo verso un'effettiva capacità di esercizio. Nasce qui – non, come spesso si crede, dopo la fine della Seconda guerra mondiale né dopo la fine dell'impero comunista sovietico – l'espressione nation building, «costruzione della nazione». Lo strumento che la Società delle Nazioni inventa per realizzare il nation building è il Mandato: un incarico, limitato nel tempo, affidato a uno Stato di provata solidità istituzionale perché accompagni una nazione ancora «immatura» guidandola a diventare uno Stato moderno.

L'Iraq diventa uno dei principali terreni di applicazione della dottrina Wilson. Dopo avere cercato di mantenere l'idea della colonia, poi del protettorato, nel 1920 la Gran Bretagna si arrende alla nuova realtà internazionale e accetta dalla Società delle Nazioni il Mandato per l'Iraq, originariamente privo di limiti temporali. Il Mandato crea, di fatto, una doppia struttura: vi è un governo iracheno sotto forma di monarchia costituzionale il cui re Feisal I (1883-1933) è un arabo sunnita «straniero», figlio dello sharif della Mecca, da sempre alleato della Gran Bretagna; lo stesso re nomina il primo ministro e gli altri componenti del Consiglio dei ministri. Tuttavia, finché è in vigore il Mandatom gli atti del re e del governo devono essere approvati da un Alto Commissario britannico; e gli atti di ogni singolo ministero da un «Consigliere» (Advisor) pure nominato dalla Gran Bretagna. Vi è un esercito iracheno, addestrato da ufficiali inglesi, ma la sicurezza dell'Iraq è garantita anzitutto dalla presenza di truppe britanniche.

Fin dall'inizio del Mandato la Gran Bretagna si trova di fronte a due problemi: una serie di rivolte sanguinose (la prima scoppia all'annuncio del Mandato, nel 1920) organizzate da diverse fazioni e con diverse motivazioni, che impongono un altro tributo di morti all'esercito britannico; e il costo del nation building, che pesa interamente sui contribuenti inglesi. Tanto più dopo la Prima guerra mondiale, morti e tasse non sono precisamente quanto l'opinione pubblica britannica apprezza di più: nasce così un movimento trasversale, sostenuto principalmente dal Partito Laburista ma anche da correnti del Partito Conservatore, e da gran parte della stampa, che invita ad andarsene dall'Iraq al più presto possibile.

Peraltro, lo stesso lavoro di Dodge elenca una serie di specifici errori commessi dalla Gran Bretagna negli anni del mandato: cercare di governare basandosi esclusivamente sulle autorità tribali in campagna (gli shaykh, considerati uomini d'onore per definizione sulla base di un'immagine letteraria e romantica spesso smentita dalla realtà) e sugli uomini d'affari in città, controllare il territorio non con una presenza capillare di truppe e polizia ma con i raid dell'aviazione intesi a bombardare e punire i villaggi ribelli (pensando di risparmiare così truppe e denaro), non conservare nulla del sistema di amministrazione ottomano, certo difettoso ma che una visione nata dalla propaganda di guerra considerava a torto sempre e solo oppressivo e corrotto, concedere tutto il potere ai sunniti e ignorare il clero sciita. Curiosamente, nota Dodge, l'ultimo fatale errore derivava dai pregiudizi anti-cattolici di Gertrude Bell (1868-1926), la principale ispiratrice della politica araba britannica negli anni 1920, e dalla sua opinione che gli sciiti stessero all'islam come i cattolici al cristianesimo: per lei gli sciiti (che, a differenza dei sunniti, hanno un clero e una gerarchia) erano «(…) il diavolo stesso» e i loro ayatollah «papi (…) ancora attaccati al potere temporale» [5] .

 La Società delle Nazioni, con un rapporto approvato dalla sua assemblea nel 1926, aveva concluso che per costruire una stabile democrazia in Irak consistenti truppe inglesi avrebbero dovuto rimanere nel paese per altri venticinque anni, cioè fino al 1951. Tanto sarebbe occorso per costruire le basi di ogni possibile governo – un'anagrafe, un catasto, un sistema politico –, reprimere le bande sediziose, sedare le tensioni interetniche. Ma le rivolte e i morti inglesi erano ormai troppo frequenti. Così nel 1929 il nuovo governo laburista, che ha prevalso, giocando sul pacifismo di elettori che non vogliono più mandare i loro figli a «morire per Baghdad», in elezioni assai incerte (tanto che il suo leader James Ramsay MacDonald, 1866-1937, deve costituire un governo di minoranza sostenuto di volta in volta da voti conservatori), fa votare dal Parlamento – venendo meno alle precise indicazioni della stessa Società delle Nazioni – un piano di ritiro in tre anni. Dal 1932 il re Feisal deve fare da solo. Le conseguenze saranno catastrofiche: i ministri del re Ghazi (1912-1939), succeduto a Feisal I nel 1933, poi del reggente Al-Amir Abd al-Ilah (1913-1958), tutore fino al 1953 di suo nipote, il re minorenne Feisal II (1935-1958), e pure personalmente «(…) fortemente filo-britannico» [6] , – in particolare il più volte primo ministro ed entusiasta ammiratore di Adolf Hitler (1889-1945), Rashid Ali al-Gaylani (1892-1965) [7] – si alleeranno con la Germania nazional-socialista, costringendo gli Alleati a riaprire nel 1941 un fronte irakeno. Dopo la guerra, caos e disordini porteranno alla caduta della monarchia e al massacro dell'intera famiglia reale nel 1958, e a una serie di regimi totalitari sempre più feroci, fino a quello di Saddam Hussein.

Dodge sostiene che, benché un'ampia letteratura accademica abbia messo ripetutamente in luce gli errori compiuti dal governo britannico all'epoca del Mandato, alcuni sono stati ripetuti nel 2003 dagli stessi comandanti militari britannici in Iraq, che in parte sono partiti dalla medesima letteratura «romantica» sul paese medio-orientale che aveva ispirato i loro predecessori degli anni 1920. Così, secondo lo studioso inglese, si è accordata eccessiva fiducia agli shaykh tribali e agli uomini d'affari nelle città, esattamente come ottant'anni prima, senza considerare tra l'altro che il totalitarismo di Saddam Hussein era ben altra cosa dal governo ottomano: i capi tribali e i cosiddetti imprenditori iracheni, dopo ventiquattro anni di Saddam, o erano legati a filo triplo al regime oppure erano finiti al cimitero. Questi difetti sembrano comunque minori a Dodge rispetto al rischio di ripetere l'errore catastrofico del 1929, ritenendo ancora una volta che due o tre anni e l'impiego di truppe relativamente ridotte bastino per un nation building in grado di resistere nel tempo.

Se l'idea di ignorare i grandi ayatollah sciiti come Ali Sistani a favore di politicanti laicisti ma senza seguito, un tempo coltivata da alcuni consiglieri dell'attuale amministrazione americana a Washington, sembra ora felicemente superata, la tentazione britannica del 1929 si ripresenta infatti nel 2005: dichiarare frettolosamente che il governo iracheno è in grado di camminare da solo dopo le elezioni. Dodge, che non risparmia critiche forse in parte ingiuste ai consiglieri neo-conservatori americani del presidente George W. Bush, ritiene che la partita irachena possa ancora essere vinta dall'Occidente. Purché si comprenda che «la rimozione di Saddam Hussein è stata l'inizio, non la fine, di un processo di riforma molto lungo e incerto» [8] . «Se avrà successo, questo processo potrà risultare in un modello coerente per le relazioni internazionali del dopo-Guerra fredda nel mondo intero» [9] . Se fallirà, potrebbe rappresentare per lo studioso inglese addirittura la fine dell'egemonia occidentale sul resto del mondo. Come nel 1929, occorrono però più – non meno – truppe, e una loro permanenza in Irak più lunga, non più breve, di quanto inizialmente previsto. Ci sarà certo, purtroppo, un prezzo da pagare in morti, non solo in denaro. Ma il messaggio dello studio di Dodge è che se la Gran Bretagna non avesse abbandonato l'Iraq nel 1932 avrebbe certo avuto ancora vittime in attentati negli anni successivi: ma i caduti, anche solo da parte britannica, sarebbero stati di meno rispetto a quelli morti per sottrarre l'Iraq all'influenza nazional-socialista nel 1941, per non parlare della Guerra del Golfo del 1991 e di quella del 2003 con i suoi postumi. Resistere ai calcoli miopi di un'opinione pubblica agitata dalla propaganda pacifista è così oggi, per i governanti dell'Occidente, la vera «resistenza» che può salvare l'Iraq: e, forse, non solo l'Iraq.

 



[1] Toby Dodge, Inventing Iraq. The Failure of Nation Building and a History Denied, Columbia University Press, New York 2003.

[2] Sulla storia dell'Iraq fino alla caduta della monarchia, l'opera di riferimento è quella di Pierre-Jean Luizard, La Formation de l'Irak contemporain. Le rôle politique des ulémas chiites à la fin de la domination ottomane et au moment de la construction de l'État irakien, CNRS, Parigi 2002 ; dello stesso autore, arriva fino al 2002 uno studio di carattere più divulgativo: Idem, La Question irakienne, Fayard, Parigi 2002 (trad. it. La questione irachena, Feltrinelli, Milano 2003).

[3] T. Dodge, op. cit., p. XIII, che sostanzialmente riassume la tesi principale di Robert H. Jackson, Quasi-States. Sovereignty, International Relations, and the Third World, Cambridge University Press, Cambridge 1993.

[4] T. Dodge, op. cit., p. XIII.

[5] Gertrude Bell, appunti e lettere cit. ibid., pp. 68-69.

[6] Così Edmund A. Ghareeb, Historical Dictionary of Iraq, The Scarecrow Press, Lanham (Maryland) – Oxford 2004, p. 103.

[7] Sulle perplessità del regime fascista italiano a proposito di al-Gaylani, sostenuto invece senza riserve dalla diplomazia nazional-socialista tedesca, resta un punto di riferimento essenziale l'opera dello storico italiano Renzo De Felice (1929-1996), Il fascismo e l'Oriente: arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988. Non è privo di significato che un convinto filo-nazista come al-Gaylani, esiliato poco dopo il colpo di Stato repubblicano per la sua adesione alle idee del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (1918-1970), considerato ostile al partito Ba'th al potere in Iraq, sia stato riabilitato e ammesso a tornare nel paese d'origine dal suo esilio libanese da Saddam Hussein (cfr. E. A. Ghareeb, op. cit., p. 132).

[8] T. Dodge, op. cit., p. XIX.

[9] Ibid.

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