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Via al dopo Arafat. Tre scenari per la nuova Palestina

di Massimo Introvigne (il Giornale, 1 novembre 2004)

Arafat ci ha abituato a numerose resurrezioni politiche ma quella in cui sperano stavolta i suoi sostenitori è una resurrezione fisica, forse al di là delle sue possibilità. Anche i più tenaci sostenitori del vecchio terrorista diventato statista devono dunque cominciare a immaginare un futuro senza di lui.
Si possono immaginare tre scenari. Il primo è quello del caos e di una lunga lotta per bande. Se ne sono avute avvisaglie negli ultimi mesi quando tre servizi segreti, in teoria tutti riconducibili ad Arafat e al suo partito laico-nazionalista Fatah, si sono affrontati per le strade di Gaza con morti e feriti, mentre gli ultra-fondamentalisti islamici di Hamas rimanevano alla finestra, convinti che gli scontri sarebbero andati comunque a loro vantaggio. Nel breve periodo, il caos confermerebbe la tesi di Sharon secondo cui non è possibile trattare con l'Autorità Palestinese perché questa non ha alla sua testa interlocutori rappresentativi, così che Israele può solo prendere decisioni unilaterali o trattare con Egitto e Giordania. Ma c'è anche un rovescio di medaglia, perché nel torbido del caos pescherebbero più facilmente i terroristi.
Il secondo scenario è quello di Fatah che ritrova miracolosamente la sua concordia e designa un erede di Arafat. Può trattarsi di una persona - un vecchio politicante come Abu Ala o Abu Mazen, o un militante con trascorsi terroristici come Mohammed Dahlan o Marwan Barghouti (forse il più popolare nei Territori, ma attualmente in prigione in Israele) - o di una trojka con due o tre membri. L'Unione Europea e le Nazioni Unite - se non gli Stati Uniti - riconoscerebbero immediatamente il nuovo governo e inizierebbero a premere su Israele perché, rimosso l'ostacolo Arafat, avvii immediate trattative con la nuova dirigenza rinunciando all'unilateralismo di Sharon. Abu Ala e Abu Mazen godono di una certa credibilità internazionale ma non hanno milizie capaci di domare la prevedibile opposizione interna; Dahlan e Barghouti hanno le milizie ma non la credibilità. Inoltre, nessuno di questi leader, che comunque vengono tutti dalla matrice laico-nazionalista, sarebbe accettato da Hamas e dal “popolo delle moschee” ampiamente influenzato dal fondamentalismo.
Il terzo scenario - appoggiato esplicitamente solo dagli Stati Uniti - è quello delle elezioni. Quietamente, Hamas e Fatah hanno collaborato in un censimento elettorale che le permetterebbe a breve termine. L'Europa teme il “teorema algerino”, diffuso dai generali che nel 1992 bloccarono con un colpo di Stato la vittoria elettorale dei fondamentalisti in Algeria, secondo cui nei paesi arabi non conviene andare ad elezioni perché le vince il fondamentalismo. Certo, le elezioni non sono acque lustrali che trasformano i lupi in agnelli, ma dove sono entrati nei parlamenti per via elettorale - dalla Turchia all'Indonesia e alla Giordania - i fondamentalisti sono stati aggrediti dalla realtà e hanno dovuto confrontarsi con concreti problemi di governo (l'acqua, le scuole, i bilanci) che li hanno in qualche modo addomesticati. Inoltre è probabile che in Palestina né Hamas né Fatah conquistino una maggioranza tale da permettere un governo monocolore, il che richiederebbe compromessi e alleanze. Se ne parla da tempo, e i rischi non mancano: ma forse per i Territori sta davvero per suonare l'ora delle elezioni che, se condotte senza brogli, produrrebbero la prima dirigenza palestinese riconosciuta in patria e all'estero come veramente rappresentativa.

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