Forse la stampa israeliana esagera quando descrive la situazione a Gaza in termini poco meno che apocalittici, ma di sicuro le cose non vanno bene. In previsione del ritiro unilaterale israeliano - che a questo punto non è del tutto certo - si è scatenata a Gaza una guerra fra le diverse fazioni palestinesi, che vogliono tutte trovarsi in pole position per il controllo del territorio.
A lungo si è creduto che queste fazioni siano due: gli ultra-fondamentalisti di Hamas e i nazionalisti laici di Arafat. Si scopre ora che le cose sono più complicate. Gli scontri e i rapimenti di questi giorni a Gaza vedono Hamas alla finestra, e due gruppi dissidenti del partito di Arafat, Fatah - le Brigate dei Martiri di Jenin e il Battaglione del Martire Ahmed Abu al-Rish - coinvolti nei disordini peggiori. A Gaza e negli ambienti di intelligence israeliani si pensa che dietro costoro ci sia Mohammed Dahlan, l'ex-ministro degli interni palestinese cacciato da Arafat e ora suo rivale. Dahlan è un militare ruvido e senza scrupoli, ma è anche l'unico dirigente palestinese con cui almeno una parte dell'amministrazione americana e di quella israeliana continuino ad avere contatti.
Il problema centrale continua a essere Arafat. Il vecchio leader non è sostenuto, come provano ormai numerosi sondaggi, dalla maggioranza dei palestinesi e neppure dalla maggioranza dei membri del suo partito. A Gaza, come altrove, Arafat è in contatto con la malavita organizzata e non ha nessuna intenzione di farsi sfuggire i lucrosi proventi del contrabbando che ha nella Striscia di Gaza un suo snodo centrale. L'intreccio di malavita e denaro sporco che circonda Arafat è sempre più evidente, ed è stato prontamente sfruttato dai dissidenti di Fatah. Al primo errore - farsi cogliere con le mani nel sacco della corruzione - Arafat ne ha aggiunto un altro: cedere alle domande dei gruppi dissidenti sacrificando il suo fidato responsabile della Sicurezza Nazionale, Abd al-Razek Mujaida. Ha continuato con un terzo errore, nominando al posto di Mujaida suo nipore Musa Arafat: una nomina che per i dissidenti ha il sapore di una beffa, da cui le nuove violenze a Gaza.
Quello che preoccupa i servizi israeliani è il silenzio di Hamas. L'organizzazione terroristica attende che le due correnti di Fatah si dilanino fra loro (e che gli israeliani si ritirino) per scendere in campo, sconfiggere la fazione nazionalista vincente e impadronirsi di Gaza, dove le sue forze sono del resto preponderanti. Nessuno, in Israele, vuole che Gaza si trasformi in una Tortuga del terrorismo palestinese in mano ad Hamas. L'alternativa è che vinca, rapidamente, Dahlan: un uomo con la mano un po' pesante, ma in grado di mantenere una parvenza di ordine. Se questo non avviene è perché Arafat - come certi pupazzi - oscilla paurosamente ma rimane sempre in piedi. E Arafat sta in piedi perché è sostenuto dall'Unione Europea, che da una parte lo copre di denaro, dall'altra strilla e strepita ogni volta che qualcuno in Israele, o tra gli stessi palestinesi, propone di eliminarlo politicamente, se non fisicamente. Così la sequela di errori a Gaza, che avrebbe mandato a casa qualunque leader politico, non è ancora sufficiente per liquidare Arafat. È necessario che l'Europa, Francia in testa, si convinca che il vecchio guerrigliero ha ormai esaurito anche la sua funzione di simbolo di un anti-americanismo di maniera: la sua presenza è dannosa per tutti, a cominciare dagli stessi palestinesi.
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