CESNUR - center for studies on new religions

«Dio è tornato»: lo stato della religione in Italia e in Europa

di Andrea Menegotto
Pubblicato in 3 parti in Il Settimanale di Padre Pio, anno III, n. 2 (11 gennaio 2004, pp. 21-22), n. 3 (18 gennaio 2004, pp. 21-22), n. 4 (25 gennaio 2004, pp. 23-24)

Un importante studio di Stark e Introvigne sfata alcuni luoghi comuni e pone ampie basi per riflettere sul futuro della religione in Occidente, fornendo pure utili spunti e indicazioni alla pastorale e all’opera di Nuova Evangelizzazione della Chiesa cattolica

Rodney Stark e Massimo Introvigne, fra i maggiori esperti mondiali del pluralismo religioso contemporaneo, sono autori del volume Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2003, 160 pp., € 9,90), uno studio rigoroso dal punto di vista della sociologia delle religioni, ma caratterizzato da uno stile scorrevole e discorsivo che lo rende di facile lettura anche per chi non è un sociologo o un lettore assiduo di testi di sociologia .

Nell’Introduzione (pp. 5-13) gli autori dichiarano il loro intento: «[…] impostare il quesito sul futuro della religione in Europa e in Italia» (p. 12), avviandosi così verso il primo capitolo (Genesi: il ritorno della religione, pp. 15-57), nel quale è affrontata e risolta una grossa questione che ha dato vita ad un intenso dibattito fra gli studiosi di scienze umane durante il XX secolo, ed è in una certa misura ancora presente. «Generazioni di accademici - affermano gli autori - hanno abbracciato una strana e contraddittoria dottrina. Da una parte, danno alla religione la colpa di un gran numero di mali sociali. Dall’altra, […] negano che la religione possa avere reali conseguenze sociali» (p. 15). La posta in gioco di questa controversia è alta: la religione può essere interpretata e spiegata secondo criteri religiosi oppure è semplicemente la facciata di «qualcosa d’altro» che in realtà è economico, politico o comunque «materiale»? Ovvero: la religione, secondo la nota formula marxista, è semplicemente una sovrastruttura rispetto all’unica vera struttura, quella economico-materiale?

Per offrire una soluzione a questi quesiti, i due autori insistono anzitutto sul fatto che, per capire la religione, i fenomeni religiosi debbano essere considerati prima e innanzitutto in quanto religiosi. A questo punto, Stark e Introvigne argomentano a favore della loro tesi innanzitutto rintracciando alcune linee storiografiche di una «[…] lunga tradizione culturale di liquidazione degli effetti religiosi in quanto religiosi» (p. 18) per poi passare a sostenere la loro idea basandola su una lettura sociologica di testi prodotti da storici. Nel primo capitolo sono così analizzate e criticate interpretazioni distorte fondate su pregiudizi materialisti riguardanti le Crociate (pp. 18-28), le eresie cristiane (pp. 28-31), forme del messianismo (pp. 31-33), i «Grandi Risvegli» nell’America del Nord (pp. 33-35), il movimento per l’abolizione della schiavitù (pp. 36-39), i «mistici anni 1960» (pp. 39-40), l’esplosione delle nuove religioni giapponesi (pp. 40-44) e il rapporto fra epidemie e dottrine religiose (pp. 44-50).

A idee come quella secondo cui «[…] ben lungi dall’essere motivate dalla pietà religiosa o da preoccupazioni per la sicurezza dei pellegrini cristiani e dei luoghi sacri di Gerusalemme, le Crociate sono solo il primo sanguinoso episodio nella lunga storia del brutale colonialismo europeo» (p. 19), si oppone il fatto che, in realtà, «[…] le Crociate sono causate da provocazioni musulmane, e sostenute dalla pietà religiosa occidentale» (p. 20); a spiegazioni che postulano un improvviso bisogno generalizzato, imputato a cause soggiacenti, di una religione più intensa per giustificare l’ondata «[…] di entusiasmo religioso pubblico [che] contagia varie città americane tra il 1739 e il 1741 […] [e] in seguito, all’inizio del XIX secolo» (p. 33), si contrappone un’interpretazione recente «molto più plausibile» (p. 34) che imputa «i Risvegli a innovazioni e strategie religiose organizzate» (ibidem); all’enorme «[…] quantità di scritti [che] attribuisce “l’esplosiva crescita” di nuovi movimenti religiosi, negli Stati Uniti nei tardi anni 1960 e nei primi anni 1970, a profonde cause sociali» (p. 39), si controargomenta con un’affermazione della sociologa inglese Eileen Barker: «Coloro che conoscono un po’ la sociologia potrebbero restare perplessi nel constatare che non tutti i giovani adulti dell’epoca sono diventati membri [di nuovi movimenti religiosi], tanto esagerate sono alcune spiegazioni del fenomeno» (cit. ibid., pp. 39-40).

Il dato finale ricavabile della tesi sostenuta dagli autori è che, in realtà, le dottrine religiose sono causa di comportamenti e che, alla prova della storia, le dottrine - per quanto in maniera varia quanto alle loro conseguenze sociali - sono efficaci nella loro capacità di generare impegno e azione: «[…] i sociologi alla fine non potranno più nascondersi dietro il relativismo culturale nei confronti delle dottrine religiose. Una volta ammesso che le dottrine contano, avremo alla fine “bisogno di verificare la possibilità che alcune teologie siano intrinsecamente più plausibili, comunicabili in modo più semplice ed efficace, capaci, più di altre, di soddisfare bisogni profondamente sentiti di un gran numero di persone”» (pp. 50-51). Precisando, a scanso d’equivoci, che «[…] non ci stiamo spostando dalla sociologia alla teologia» (p. 51), Stark e Introvigne si chiedono dunque «che cosa renda una dottrina socialmente efficace» (ibidem), ovvero persuasiva, credibile e produttiva di risultati sociali, identificando alcuni pilastri di tale discorso nella «plausibilità» (p. 54), nella «chiarezza» (p. 52) e «motivazione sufficientemente insita nella dottrina» (ibidem), nella «portata delle richieste» (ibidem) e nel «valore delle ricompense e la severità delle punizioni» (p. 53), in «qualche livello di ricompensa terrena in cambio dell’obbedienza ai loro [delle fedi] precetti» (ibidem); infine, «[…] le dottrine possono essere efficaci solo nella misura in cui possono presentarsi come autorevoli» (p. 54).

Il secondo capitolo (Esodo: quanto è secolarizzata l’Europa?, pp. 58-108) affronta un’ulteriore grande controversia: quella relativa alla secolarizzazione, facendo anzitutto stato del fatto che sull’argomento esistono due distinti paradigmi, di cui il primo (e più antico) afferma che, «[…] a mano a mano che la conoscenza scientifica avanza, la società si secolarizza e la domanda religiosa viene meno. La modernità implica anche il riconoscimento della libertà di coscienza, che in numerosi paesi determina la nascita di un pluralismo religioso. Quest’ultimo è a sua volta estremamente dannoso per le religioni, perché la presenza di religioni diverse mette in dubbio la plausibilità e la credibilità di ciascuna di esse» (p. 8). Sulla scia di questa (classica) rappresentazione della «teoria della secolarizzazione», l’opinione comune dominante si è fondata, per decenni, sul basso tasso di pratica religiosa in molte nazioni europee, sull’ipotesi che in tali contesti geografici il credere fosse in declino e così pure il potere e la presenza della religione nella vita pubblica, al punto che «[…] non solo la secolarizzazione è stata giudicata inevitabile, l’opinione dominante è stata che la secolarizzazione sia una condizione pervasiva, che una volta raggiunta è irreversibile e istilla immunità dal misticismo» (pp. 58-59).

Tuttavia, il grande vigore religioso negli Stati Uniti - dove, nonostante l’immensa popolarità della scienza e l’alto livello d’istruzione, la religione non mostra alcun segno di declino - ha da sempre costituito una grande difficoltà all’applicazione della «teoria della secolarizzazione», e un’approfondita analisi dei dati statistici e delle conseguenti implicazioni teoriche pone in rilievo come non si possa liquidare la problematica parlando semplicemente di un’«eccezione americana», ma essa di per sé porta a «[…] contrastare l’affermazione che le nazioni dell’Europa Occidentale siano tutte e davvero secolarizzate» (p. 60). La riflessione che ne consegue discute quindi i dati statistici proponendo innanzitutto Una teoria della mobilitazione religiosa (pp. 62-72), formulata sulla base del secondo paradigma in tema di secolarizzazione, ovvero la «teoria dell’economia religiosa», la quale esamina il fenomeno religioso secondo i criteri propri dei mercati di beni e servizi, postula che la domanda religiosa tende a rimanere costante nel tempo e si pone nella visuale dell’offerta, concludendo che la presenza più o meno intensa della religione nelle società dipende - a meno che non si verifichino interventi da parte dello Stato, che finiscono per distorcere il «mercato» - «[…] dalla capacità e dallo zelo delle religioni nel proporre offerte attraenti per i potenziali fedeli» (p. 9).

Già nella sesta tesi della «teoria della mobilitazione religiosa», in cui si precisa che «[…] nella misura in cui in un’economia religiosa in passato altamente regolata dallo Stato si verifica una deregulation, la società si “desacralizza”» (p. 67), ovvero «[…] dove vi è una pluralità di imprese religiose, nessuna di esse è sufficientemente potente da mantenere la sacralizzazione» (ibidem), gli autori segnalano una possibile consonanza fra i concetti di «desacralizzazione» e «secolarizzazione», per quanto l’apparente finalità puramente tecnica di questa distinzione terminologica serva a fare da ponte a un più consistente approccio critico del concetto di «secolarizzazione». Se per secolarizzazione s’intende un processo qualitativo che porta a una minore influenza della religione sulle scelte che la società compie (cioè un mutamento della qualità della religione), «[…] in questo senso la secolarizzazione, da un certo punto di vista, coincide con quella che noi chiamiamo “desacralizzazione”» (p. 72). Tuttavia, il significato comunemente attribuito al termine «secolarizzazione» intende questo fenomeno in senso quantitativo, e in quanto tale suscettibile di verifiche empiriche. Alla prova dei fatti, però, il risultato si rivela essere inadeguato e non veritiero.

Sulla scorta di queste premesse teoriche - in cui, occorre ribadirlo - a essere messa in discussione non è una semplice teoria, ma il paradigma centrale di quasi tutta la sociologia della religione contemporanea che ha costituito di fatto il fondamento ideologico della comune e diffusa vulgata in tema di religione - Stark e Introvigne esaminano alcune Prove preliminari della teoria (pp. 79-84). Così, per esempio, «una […] verifica della teoria [dell’economia religiosa], offerta nel 1992, si concentra sul cattolicesimo […]. Basato su quarantacinque nazioni in cui la Chiesa cattolica è attiva, lo studio esamina la tesi secondo cui il livello di impegno del cattolico medio varia in misura inversa alla proporzione di cattolici tra la popolazione. La Chiesa cattolica risulta più efficace nel mobilitare i suoi membri dove essa si confronta con economie religiose pluralistiche o con semi-monopoli protestanti, e meno efficace dove essa stessa si avvicina a una posizione di monopolio» (p. 80).

Svolte preliminarmente (pp. 61-62) le opportune distinzioni fra appartenenze e credenze, cioè comportamento religioso organizzato e atteggiamenti religiosi soggettivi e fra affiliazione e pratica religiosa, una parte importante del secondo capitolo (Religione soggettiva e domanda potenziale, pp. 94-99) è dedicata a evidenziare le ambiguità intrinseche della «teoria della secolarizzazione» (qualora essa non sia intesa come processo qualitativo) anche quando applicate all’Europa contemporanea. Un esempio i tanti riguarda l’analisi dell’Islanda, spesso presentata come una delle nazioni più secolarizzate del mondo, in quanto solo il 2% della popolazione frequenta settimanalmente una chiesa e poiché caratterizzata da una certa rilassatezza dei costumi sessuali. Tuttavia, e al contrario di quanto ci si aspetterebbe di verificare nella società «più secolarizzata del mondo», nella stessa Islanda si rilevano «[…] alti livelli di devozione religiosa individuale […], preghiera personale, e alti tassi di battesimo; inoltre, […] quasi tutti i matrimoni si svolgono in chiesa e […] “la credenza nell’immortalità dell’anima è diffusa”» (p. 95); il 74% degli islandesi si dichiara religioso, l’82% prega almeno occasionalmente «[…] e solo il 2% si proclama ateo. Ovviamente questo non è quanto nel linguaggio comune si intende per secolarizzazione» (p. 96).

A conferma delle linee di tendenza anticipate dall’Inchiesta Mondiale sui Valori del 1990-1991 (discussa nel secondo capitolo), nel 1999 si sono aggiunti i risultati dell’Inchiesta Europea sui Valori (discussa, con altre fonti, nel terzo capitolo; Numeri: pluralismo e risveglio religioso in Italia, pp. 109-132). In effetti, come l’America del Nord è risultata essere la «pietra d’inciampo» della «teoria della secolarizzazione», l’Europa potrebbe costituire il banco di prova fallimentare della «teoria dell’economia religiosa»? Se la risposta a tale quesito fosse affermativa aveva ragione uno dei padri della «teoria della secolarizzazione», Peter L. Berger, il quale però, riconoscendo nel 1997 di avere sbagliato a proposito della secolarizzazione, si chiedeva tuttavia: «Una delle domande più interessanti per la sociologia della religione oggi non è: “Come spiegare il fondamentalismo in Iran?”, ma: “Perché l’Europa Occidentale è diversa dal resto del mondo?”» (cit., p. 110).

Ciò che molti osservatori hanno notato analizzando la situazione religiosa europea è la grande differenza fra livello di credenza e livello di pratica. Questo ha spinto, per esempio, la sociologa Grace Davie «[…] a caratterizzare la religiosità degli europei come un “credere senza appartenere” (believing without belonging (p. 111). Per interpretare i bassi livelli di affiliazione religiosa in Europa, i sostenitori della «teoria dell’economia religiosa» affermano che non si debba fare ricorso al rapporto secolarizzazione/modernità o alla presunta non plausibilità della fede, ma che tale situazione sia l’effetto «di mercati religiosi altamente regolati e monopolistici» (p. 110) che hanno come risultato il «[…] prevenire una sana concorrenza: Chiese protette e sostenute dallo Stato tendono a diventare inefficienti; come risultato, ne soffre la religiosità in generale» (ibidem). Per Stark e Introvigne, la riluttanza a esprimere le proprie credenze in maniera attiva che caratterizza l’Europa muove da una logica in cui a essere messe in causa sono le Chiese maggioritarie, che si sono date poco da fare per attirare i fedeli: «In realtà, se c’è un gruppo umano in Europa in cui la secolarizzazione è davvero penetrata in profondità, questo è il clero delle Chiese monopolistiche, che in gran parte non solo non è stato capace, ma non ha voluto svolgere attività missionaria» (ibidem).

Per esemplificare ulteriormente su un terreno concreto gli elementi essenziali della «teoria dell’economia religiosa» - la regolamentazione statale dei mercati religiosi sopprime la concorrenza e i gruppo religiosi «protetti» fanno pochi sforzi per attirare fedeli, incentivando le prospettive carrieriste, alimentando una diffusa apatia religiosa e favorendo un indebolimento delle credenze; mentre la deregulation produce risveglio religioso, con conseguente crescita delle attività religiose organizzate e maggiore incisività e socializzazione delle credenze -, Stark e Introvigne mettono alla prova le loro ipotesi sul caso dell’Italia, che negli ultimi decenni è stata «[…] fiduciosamente inclusa fra le nazioni europee che stavano inevitabilmente scivolando verso una situazione di piena secolarizzazione» (p. 113). Alla luce di un esame degli sviluppi storici dell’economia religiosa italiana «fra controllo e deregulation» (pp. 114-119) - dallo Statuto Albertino al Concordato del 1929, dalla Costituzione repubblicana al nuovo Concordato del 1984, dalla prima Intesa (sempre del 1984, con la Chiesa valdese) alla stipula di un’ulteriore Intesa, non ancora ratificata, del 2000, con i testimoni di Geova - e di un’attenta osservazione del pluralismo religioso nel nostro Paese (pp. 119-126), gli autori dimostrano, cifre alla mano, che «[…] il recente rapido sviluppo di un’economia religiosa italiana caratterizzato dalla concorrenza è stato tra le cause di un sostanziale risveglio religioso; la pratica religiosa è risalita, e così pure le credenze religiose, fra cui alcune tipicamente cristiane» (p. 114).

I dati di questo risveglio religioso in Italia (pp. 126-130) mostrano quindi che, anche nel contesto europeo - e, più precisamente, in una nazione europea come l’Italia, a proposito della quale il sociologo belga Karel Dobbelaere affermava «[…] con sicurezza che “la fine della religione era vicina”» (p. 113) —, nonostante la pigrizia delle Chiese monopolistiche sia la causa principale di un basso tasso di religiosità, la deregulation del mercato religioso produce prima o poi forme di risveglio religioso: «Ed è successo proprio così, per quanto la percezione pubblica del fenomeno rimanga modesta» (p. 127). I dati statistici a sostegno di queste osservazioni parlano in un certo senso da soli: dal 1981 al 1999 la percentuale di giovani che afferma di credere in Dio è cresciuta dall’83% al 94%, la frequenza settimanale alle cerimonie religiose è passata dal 35% al 40%, la credenza in una vita futura è aumentata dal 47% al 61%, i giovani che credono all’esistenza dell’Inferno sono passati dal 21% al 45%, coloro che si dichiarano cattolici praticanti sono cresciuti dal 33% al 38%, mentre la popolazione che non considera importante la credenza in Dio è scesa dal 19% al 5%.

Certamente, se paragonata agli Stati Uniti, la deregulation del mercato religioso in Italia è un fatto piuttosto recente, limitato e caratterizzato da livelli modesti di concorrenza e sebbene vada riconosciuto che nel nostro Paese e nella maggior parte delle nazioni cattoliche europee, la Chiesa cattolica «[…] non è uscita così malridotta dal trovarsi in una situazione di monopolio come è avvenuto alle Chiese di Stato protestanti in altri paesi» (p. 130), non è mai stata sottoposta a un controllo asfissiante dello Stato e «[…] ha potuto beneficiare di un alto livello di concorrenza interna, che ha bilanciato l’assenza di concorrenza esterna» (ibidem), rimane vero il fatto che si assiste a un fenomeno di risveglio non effimero, come sembrerebbero testimoniare anzitutto i dati relativi al mondo giovanile.

D’altro canto, come Stark e Introvigne ben puntualizzano, il reale è naturalmente più complesso delle formule, dei dati, delle statistiche e delle teorie, e ne deriva la possibilità che a molta religiosità soggettiva non corrisponda una buona qualità del fatto religioso contemporaneo, per cui certamente si ha «[…] poca influenza della religione sulla vita culturale, sociale e politica» (p. 13). Si potrà quindi, ragionevolmente, ma in quest’ottica, ancora argomentare sul declino della religione o sulla «scristianizzazione» dell’Occidente, senza dimenticare però che il futuro della religione «appare tutt’altro che precario» (p. 132), con buona pace dei teorici della secolarizzazione e con un po’ di sana inquietudine che auguriamo ai missionari auto-pensionatisi.

 

img
Rodney Stark - Massimo Introvigne
Dio è tornato

Piemme, Casale Monferrato (AL) 2003

ordina questo libro

[Home Page] [Cos'è il CESNUR] [Biblioteca del CESNUR] [Testi e documenti] [Libri] [Convegni]

[Home Page] [About CESNUR] [CESNUR Library] [Texts & Documents] [Book Reviews] [Conferences]