Stefano Dambruoso, per otto anni Sostituto Procuratore della Repubblica a Milano dove si è occupato in particolare di inchieste sul terrorismo di matrice islamica e oggi Esperto giuridico presso la Rappresentanza permanente italiana alle Nazioni Unite di Vienna, con Guido Olimpio, il giornalista che con molta attenzione ha seguito le stesse vicende dalle colonne del Corriere della Sera, sono gli autori del volume Milano Bagdad, che nasce dalla loro collaborazione.
Senza mezzi termini, l'esordio ci dà la percezione del clima teso in cui viviamo in questi tempi in cui analisti ed osservatori della scena socio-politica internazionale parlano, anziché di fase post-bellica in relazione alla sola situazione irachena, di una più ampia e generalizzata «Quarta Guerra mondiale», essendo quello attuale un confitto che segue le due grandi Guerre storiche e quella che - in maniera eufemistica - è evocata come «Guerra fredda». Il conflitto attuale è, di fatto, una «guerra islamica globalizzata», dal momento che nasce e si sviluppa prima e innanzitutto all'interno del mondo islamico quale lotta condotta dalle organizzazioni ultra-fondamentaliste e radicali, che adottano come loro modus operandi il terrorismo suicida e la violenza, contro i paesi islamici «empi» - ovvero accusati di non applicare in maniera integrale la legge islamica (shari'a) -, che sono oltretutto sorretti dal braccio occidentale, braccio su cui battere - ancora, attraverso il terrorismo e l'azione violenta - affinché ceda e lasci cadere pure i regimi islamici «empi» che sostiene. Da questo punto di vista, se volessimo indicare un motto caratterizzante l'azione delle organizzazioni terroristiche attive in questo quarto conflitto mondiale potremmo ritenere che esso sia «Colpire in Occidente per conquistare il potere in Oriente».
In questa «guerra islamica globalizzata» Milano e la Lombardia rientrano (purtroppo) a pieno titolo. Leggiamo infatti nel volume di Dambruoso e Olimpio: «[Milano e la Lombardia sono] una base avanzata del radicalismo islamico, una rete di supporto logistico al terrorismo di Al Qaeda trasformatasi in un apparato operativo in grado di compiere attentati» (p. 3). Come mostra la strage di Madrid dell'11 marzo 2004, «l'Europa non è più solo retrovia, ma è anche zona d'operazioni dove cellule che in apparenza fanno della pura propaganda islamica diventano punte d'attacco letali» (p. 6). E l'Italia tutta, vuoi per il suo ruolo sulla scena internazionale, vuoi per la sua posizione geografica, occupa attualmente una posizione tanto importante quanto rischiosa.
Il volume non segue un percorso cronologico, ma è soprattutto un diario che riporta gli anni di lavoro e inchieste condotte da Dambruoso e finalizzate a sgominare il terrorismo di matrice islamica ultra-fondamentalista. Si parte dall'inchiesta che, nel marzo 2003, porta alla scoperta dell'esistenza di un'ampia rete terroristica internazionale legata a personaggi attivi nella nota moschea ultra-fondamentalista di Viale Jenner a Milano, in contatto con Al Qaeda e pronti a compiere attentati in diversi paesi europei.
La seconda inchiesta di cui si dà conto nel volume riguarda un siciliano convertito all'islam, preso poco sul serio quando, nel 2002, accompagnati da teli bianchi riportanti la scritta «Allah è grande», lascia rudimentali ordigni a gas presso il Tempio di Minerva nella Valle dei Templi di Agrigento e davanti al carcere della stessa città, ma è arrestato quando deposita una bomba dello nella metropolitana di Milano. La vicenda di questo singolo personaggio dimostra peraltro che può sussistere anche un «fai da te» del terrorismo, non per questo meno pericoloso, il quale si ispira in maniera grezza all'ideologia ultra-fondamentalista, che vede in Osama bin Laden il più insigne maestro.
Il volume prosegue dando conto delle diverse indagini, che non sempre sono coronate dal successo: per esempio, nel 1999 Abdelkader Es Sayed, stretto collaboratore dell'ideologo di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri, venuto in Italia per organizzare la rete del movimento di Osama bin Laden nel nostro paese, sfugge agli investigatori milanesi. Notano gli autori del testo a questo proposito che sono «La buona sorte e un certo formalismo della legge italiana» (p. 66) ad aiutare il terrorista a fuggire.
A proposito del «formalismo» della legge occidentale, anche se Dambruoso evita una critica aperta ai suoi colleghi magistrati, non può non chiedersi se una legge che consente l'arresto solo a reato compiuto, o almeno quando è evidente che sarà commesso, sia adeguata per debellare il terrorismo ultra-fondamentalista islamico. D'altronde, «se la mattina del 10 [settembre 2001] la polizia americana avesse fermato Mohammed Atta e gli altri diciotto kamikaze, che cosa avrebbe trovato? Nulla o quasi. Un manuale di volo, qualche testo religioso, dei taglierini e forse dello spray al pepe per la difesa personale» (p. 126).
A proposito della situazione irachena Dambruoso non ha dubbi: in base agli elementi da lui raccolti, conferma che nell'Irak di Saddam Hussein venivano addestrati i terroristi dell'organizzazione ultra-fondamentalista Ansar al-Islam, nata in Kurdistan e ora diffusa a livello internazionale (che recluta terroristi anche in Italia).
Una considerazione franca da parte degli autori è quella per cui si afferma che «L'Italia da retrovia è diventato terreno di jihad» (p. 127). Proprio per questo motivo, il reclutamento dei terroristi non avviene solo fra gli immigrati algerini, marocchini, tunisini, pakistani, egiziani e curdi, ma anche fra i convertiti europei. Emblematica da questo punto di vista la trascrizione di un'intercettazione telefonica in cui un leader della rete terroristica risponde ad Abu Omar, un dirigente ultra-fondamentalista egiziano attivo in Italia (poi scomparso in circostanze misteriose), il quale gli chiede se sia opportuno reclutare «stranieri». Eloquente la risposta, che fra l'altro smentisce la vulgata tanto diffusa quanto falsa che vorrebbe i terroristi alla ricerca di reclute povere ed emarginate: «Non è importante. Abbiamo bisogno anche di stranieri, abbiamo albanesi, svizzeri, inglesi
basta che siano di alto livello culturale» e, ancora, «colti, preparati, convinti» (p. 22).
La società intera, il famoso «teatrino della politica», tutti senza eccezione si dovrebbero allora rendere conto che, vivacemente vestiti con i colori dell'arcobaleno, stiamo allegramente ballando su una polveriera, la qual cosa richiede invece risposte serie, ferme e convinte e certamente un adeguamento delle nostre leggi e della nostra politica al grave rischio che corriamo.
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