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Perché il terrorismo colpisce in Turchia

Massimo Introvigne

imgPerché la Turchia è particolarmente bersagliata dal terrorismo internazionale? Una risposta a questa domanda implica un’analisi storica e sociologica del caso turco, la cui rilevanza investe questioni di grande importanza per la guerra contro il terrorismo in generale. Si può dire che la Turchia è un esempio da manuale di come una teoria sociologica rivelatasi fallace abbia informato la politica di un intero grande paese per parecchi decenni. Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), il creatore della Turchia moderna, ispirava consapevolmente la sua politica al positivismo di Auguste Comte (1798-1857), di cui era grande ammiratore. Secondo Comte la storia dell’umanità procede linearmente dallo stadio religioso a quello scientifico: a mano a mano che la scienza avanza, la religione è fatalmente condannata a recedere, e la resistenza religiosa alla scienza rappresenta un fenomeno di retroguardia e un ostacolo al progresso. Comte è all’origine delle teorie classiche della secolarizzazione – certo assai più elaborate rispetto al suo schema originario – secondo cui i processi di modernizzazione conducono inevitabilmente al declino sia delle credenze sia delle pratiche religiose.

Benché Atatürk abbia personalmente attraversato fasi diverse nella sua relazione privata con la religione, negli ultimi anni del suo governo il processo per instaurare il “laicismo” (laiklik, parola appositamente importata dalla Francia, cui si guarda come modello da imitare) assume caratteri virulenti sul piano sia giuridico, sia pratico. L’organizzazione tradizionale dell’islam turco, articolata nella rete delle moschee e nell’autorità della classe dotta degli ulema, ne riceve colpi durissimi. Ma – dal momento che la teoria classica della secolarizzazione (come dimostra l’esempio degli Stati Uniti) è insostenibile, e che spesso i processi di modernizzazione generano il risveglio e non la scomparsa della religione – l’islam turco, cacciato dalla sfera pubblica, sopravvive e prospera da una parte nelle confraternite sufi, particolarmente nelle varie branche della Naqshbandiyya, dall’altra nel movimento riformista Nur (“Luce”) fondato da Said Nursi (1876-1960). Benché non manchino scontri con il regime kemalista, entrambe le correnti resistono affermando di occupare spazi diversi da quello pubblico vietato alla religione: le confraternite la sfera privata, personale e familiare; il movimento Nur il campo della cultura attraverso circoli di lettura delle Epistole della Luce, il best seller del fondatore (a sua volta influenzato dal sufismo).

Questo complesso movimento islamico comprende in sé varie tendenze – dalle più conservatrici alle riformiste – ma ha in comune un riferimento positivo al passato ottomano (che il regime tende a sostituire con l’appello, scarsamente popolare, alla Turchia pre-islamica e perfino agli Hittiti), la valorizzazione dell’islam turco rispetto a quello arabo, l’idea che il buon musulmano debba portare la sua moralità negli affari e che il successo economico sia una prova visibile dell’aiuto di Dio. Quest’ultimo accostamento – che non manca di ricordare il rapporto fra alcune denominazioni protestanti e il capitalismo prospettato da Max Weber (1864-1920) – si afferma in particolare nella branca della confraternita Naqshbandiyya detta Gümüshanevi raccolta intorno al carismatico shayk Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) e alla moschea Iskanderpasha di Istanbul. Della cerchia di Kotku – che coesiste con altre confraternite che contano milioni di seguaci, tra cui quella più tradizionalista dei Suleymanci – fanno parte tre futuri primi ministri: Turgut Ozal (1927-1993), Necmettin Erbakan e l’attuale premier Recep Tayyip Erdogan.

Benché la Turchia kemalista sia una democrazia anomala, in cui il Consiglio per la Sicurezza Nazionale composto dagli alti vertici militari, custode del laicismo, ha il potere costituzionalmente riconosciuto di interferire pesantemente sul governo civile, negli anni della Guerra fredda si verifica un allentamento delle politiche anti-religiose: non senza qualche suggerimento statunitense, i generali si convincono che la religione è un antidoto necessario al comunismo che si infiltra pericolosamente nel paese. Di fronte all’incapacità di governi civili laicisti ma ampiamente corrotti di fronteggiare il terrorismo di matrice comunista e separatista curda, il colpo di Stato del 1980 apre la strada a un governo “suggerito” dai generali ma guidato da una personalità religiosa di ambiente sufi, Turgut Ozal, che gode di ampio consenso. Tra l’altro, l’appello alla comune fede musulmana sunnita sembra l’unica via verso una soluzione del problema curdo. La prematura scomparsa di Ozal apre la strada a un nuovo periodo di instabilità, in cui emerge il partito Refah (“Benessere”) di un altro discepolo dello shayk Kotku, Erbakan. Per la prima volta nel 1995 a un partito religioso è consentito nel 1995 di vincere le elezioni. Ma Erbakan, a differenza del prudente Ozal, sfida i militari sul terreno del giudizio storico sul kemalismo e lascia intendere pericolose svolte in politica estera, allontanandosi dai tradizionali alleati Stati Uniti e Israele e avvicinandosi ai Fratelli Musulmani, esponenti di un islam politico arabo assai diverso da quello turco. I militari – a loro volta chiusi in un kemalismo definito da uno studioso a loro non ostile con i tre aggettivi “giacobino”, “militante” e “anti-religioso” – reagiscono con il colpo di Stato “soffice” del 28 febbraio 1997 in cui lo stesso Erbakan è convinto a promulgare nuove leggi anti-religiose che porteranno alla messa al bando del suo partito Refah.

La campagna anti-religiosa che ne segue – nel corso della quale anche un riformista moderato come Fethullah Gülen, dirigente della principale branca in cui si è frammentato il movimento Nur, è incriminato come “fondamentalista” e indotto a trasferirsi, ufficialmente per motivi di salute, negli Stati Uniti – non suscita consensi nella popolazione, né i governi “laici” danno particolare buona prova sul terreno economico. Il successore immediato del Refah, il partito Fazilet (“Virtù”), è a sua volta tempestivamente messo al bando, ma nel movimento islamico si manifesta una divisione fra i “vecchi” – legati a Erbakan e ai suoi tentativi di contatto con il fondamentalismo arabo e iraniano – e i “giovani”, raccolti intorno al carismatico sindaco di Istanbul, Erdogan (anch’egli, peraltro, messo al bando dal potere giudiziario controllato dai militari in quanto accusato di voler sovvertire il laicismo).

Benché né Erbakan né Erdogan possano ufficialmente candidarsi, il movimento islamico riesce a presentare alle elezioni del 2002 due partiti, l’erbakaniano Saadet (“Felicità”) e l’erdoganiano Adalet ve Kalkinma (AKP, “Giustizia e Sviluppo”), che presenta un programma in cui la legge islamica, la shari’a, è indicata come orizzonte ideale piuttosto che come insieme di precetti fissi e immutabili, e in cui la politica estera è saldamente ancorata all’alleanza statunitense e alla richiesta di ingresso nell’Unione Europea. Gli elettori danno la maggioranza relativa (34,2%) dei voti e quella assoluta dei seggi all’AKP, mentre il partito Saadet si ferma al 2,46% e non raggiunge neppure il quorum, e il Partito Repubblicano kemalista registra con il 19,39% un’evidente sconfitta. L’AKP vittorioso mette in atto una serie di modifiche legislative che permettono al suo leader Erdogan di ritornare alla vita politica e diventare primo ministro. La delicata transizione si compie nel febbraio 2003, proprio nei giorni in cui il Parlamento deve votare sulla richiesta degli Stati Uniti che chiedono il passaggio dalla Turchia di truppe dirette in Iraq. Benché l’AKP (e i militari) suggeriscano ai parlamentari di votare a favore della richiesta americana, molti deputati tengono conto dei timori e delle riserve dell’opinione pubblica (nonché delle pressioni franco-tedesche, che minacciano ulteriori ostacoli all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea) così che la proposta ottiene la maggioranza relativa ma manca per soli tre voti la maggioranza assoluta necessaria. Qualche giorno dopo il voto Erdogan si insedia come primo ministro, concede agli Stati Uniti almeno lo spazio aereo e inizia a ricucire i rapporti con Washington. E’ peraltro assai significativo che i militari non siano intervenuti né per impedire l’insediamento di Erdogan né per imporre al Parlamento il voto a favore della richiesta statunitense.

La storia della Turchia è una prova empirica della fallacia della teoria classica della secolarizzazione. La modernizzazione – neppure in presenza di un imponente sforzo di laicizzazione tramite la scuola e i mezzi di comunicazione, saldamente sotto controllo kemalista – non ha generato scomparsa, ma piuttosto risveglio della religione. Se è vero che le grandi società commerciali spesso legate agli interessi stranieri, federate nell’organizzazione confindustriale TUSIAD, sono considerate un pilastro del kemalismo, le cosiddette “tigri dell’Anatolia”, le medie imprese della zona asiatica che hanno gran parte nel boom economico recente, hanno costituito un’organizzazione alternativa, MUSIAD, la cui dirigenza si ispira a principi di tipo religioso e sostiene l’AKP. Quest’ultimo partito costituisce un interessante esperimento – i cui risultati sono, evidentemente, da verificare – di movimento radicato nell’islam politico (turco e di ispirazione sufi, assai diverso da molte forme dell’islam politico arabo) che tuttavia si presenta come democratico, economicamente liberista, e filo-occidentale. Certo, l’AKP si trova di fronte a problemi assai complessi: se può affrontare (ma la soluzione è ben lontana) quello curdo con un richiamo alla comune appartenenza di turchi e curdi alla umma musulmana sunnita, rimangono sul tavolo i difficili rapporti con la Grecia per la questione di Cipro e i difficili rapporti con oltre dieci milioni di Alevi, una minoranza con radici nell’islam sciita e in forme di eterodossia islamica che da decenni si è alleata con il kemalismo per fronteggiare la maggioranza sunnita e si esprime oggi in forme sia religiose sia post-religiose e perfino atee.

Ma, in generale, l’esperimento turco costituisce, dal punto di vista del terrorismo internazionale, il peggiore esempio possibile, e si comprende la volontà di stroncarlo, se possibile creando a colpi di bombe un clima di insicurezza che induca i militari a porre fine a questo esperimento come già ad altri precedenti con l’ennesimo colpo di Stato. Il terrorismo e il fondamentalismo islamico radicale non hanno mai avuto molto da temere dal modello kemalista, che è certamente in grado di mettere in prigione e giustiziare i militanti radicali che passano per la Turchia, ma non costituisce un modello alternativo attraente per l’opinione pubblica religiosamente orientata dei paesi a maggioranza islamica. Il “modello Erdogan”, che coniuga islam politico, liberismo e politica estera filo-occidentale, rischia invece di fare proseliti anche fuori della Turchia. Per questo, i terroristi si augurano l’insuccesso dell’esperimento Erdogan, e lanciano avvertimenti mafiosi con riferimenti nelle rivendicazioni degli attentati al “Grande Oriente” (Buyuk Dogu), un concetto – e il titolo di un giornale fondato nel 1943 da Necip Fazil (1904-1983) – che nell’immaginario politico turco coincide con il primato politico dell’islam (che sarebbe il “vero” Grande Oriente, in contrapposizione al Grande Oriente massonico così influente sui kemalisti) e con l’eredità di un ampio movimento culturale e letterario di rinascita islamica in cui tutta la cultura non kemalista si riconosce e che i terroristi accusano Erdogan di tradire.

L’Occidente, invece, dovrebbe augurarsi il successo dell’esperimento che l’attuale governo turco ha messo in atto. Senza rilasciargli cambiali in bianco, allo stato certamente premature, senza trarre conclusioni definitive sulla questione della partecipazione all’Unione Europea, senza immaginare che i governi civili abbiano sempre ragione e i militari sempre torto (storicamente in Turchia non è stato così, e la strada per la stabilità passa semmai per una riconciliazione fra movimento islamico e ambienti militari capaci di sottrarsi al più rigido dogmatismo kemalista, già avviata negli anni di Turgut Ozal che molti oggi considerano esemplari). Ma anche senza rimpiangere (come si fa senza vergogna in Francia) il kemalismo anti-religioso “duro e puro”, senza protestare (come accade in alcuni ambienti governativi tedeschi quando si tratta delle tendenze politiche degli immigrati turchi in Germania) perché il destino cinico e baro non ha mantenuto le promesse di trasformare ogni turco un po’ più ricco (o meno povero) in un laico entusiasta e irreligioso, e senza accomunare nell’etichetta “fondamentalismo” ogni forma di islam politico, da Erdogan a bin Laden, con un’operazione non solo politicamente ambigua ma anche concettualmente infondata.


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