L'imam di Carmagnola? «Per i servizi di intelligence americani è uomo legato ad Al Qaida. Lui nega, loro ne sono certi».
Quello di Porta Palazzo? «Un musulmano radicale che presenta più duna ambiguità sulla condanna della violenza».
La moschea di via Chivasso? «È li che si riuniscono alcuni islamici fondamentalisti».
Per definire i personaggi e i luoghi più conosciuti e discussi dell'islam torinese possono bastare poche parole, ma proprio chi le pronuncia mette subito in guardia: «Del mondo islamico dobbiamo scoprire ancora moltissimo». Massimo Introvigne, direttore del «Centro studi sulle nuove religioni», uno dei maggiori esperti internazionali del settore e autore di moltissime pubblicazioni, non usa tinte tenui per rappresentare Torino nel grande scenario del terrorismo internazionale, oggetto del convegno promosso dallUnicri (l'istituto di ricerca dell'Onu sulla criminalità e la giustizia che ha sede in città) e dall'Europol.
Professor Introvigne, lei sostiene che del mondo islamico si conosce poco.Un problema in più per combattere il terrorismo, è così?
«Senza dubbio. Cìè un grande corpo ancora insondabile. Ancora non sappiamo che cosa pensi realmente una quantità enorme di musulmani. E soprattutto non conosciamo quale sia il loro pensiero sul terrorismo, il loro rapporto con questo fenomeno».
Ma quando si parla di fondamentalismo già non si spiega molto?
«Dipende. Quando io mi riferisco ai musulmani fondamentalisti turchi dico che è un fondamentalismo da presidente di squadra di calcio. Tant'è che proprio con i turchi, credo possa esserci più che con ogni altro gruppo musulmano una possibilità di dialogo».
Con altri, invece?
«Bisogna cercarlo, ma noi occidentali dobbiamo convincerci di una cosa: il terrorismo islamico è un terrorismo religioso e fino a che guarderemo a questo fenomeno, anche in ambiti più ristretti come può accadere per una città come Torino, con gli occhiali del laico difficilmente potremo sconfiggerlo. Gli esempi non mancano. Pensi, che nel manuale di istruzione per i terroristi che compirono la strage dell'undici settembre c'erano moltissime prescrizioni religiose. Sembravano esercizi spirituali».
Torino è stato e forse è ancora un centro importante d'appoggio per alcune cellule terroristiche. C'è un motivo particolare?
«La posizione della città e, soprattutto, la comunità islamica sempre più importante e numerosa. In maggioranza la sua dirigenza è neotradizionalista, persegue il proselitismo ma ripudia la lotta armata. Però ci sono sempre le eccezioni».
Dopo l'undici settembre un imam della città, quello di Porta Palazzo fu protagonista di accese polemiche. In base alla sua suddivisione lui cos'è, un fondamentalista pacifico, radicale o terrorista?
«Direi senz'altro un radicale. E molto ambiguo nella sua visione della violenza. Credo non abbia rapporti strettissimi col suo paese d'origine, Il Marocco. Ma continua a fare proseliti. È ancora molto influente».
Fadl Allah Mamour l'imam di Carmagnola ha accusato il governo e gli Usa di avergli bloccato miliardi destinati a costruire la cittadella islamica. Lei che ne pensa?
«Che sono un sacco di soldi. E che i servizi segreti americani ritengono che questo imam sia legato alle centrali di Al Qaida. Lui è un personaggio che pare sempre un po' sopra le righe, ma dei suoi legami l'intelligence ne sembra convinta».
Il dialogo, in certi casi, sembra un'utopia: o no?
«Occorre attenzione. Gli islamici della moschea di via Chivasso hanno chiesto al sindaco interventi nel segno della democrazia, si pongono come la parte più aperta. In realtà sono oppositori del regime marocchino, ma non certo per spirito democratico, bensì per il loro spiccato fondamentalismo. Il loro gruppo 'Giustizia e beneficenza' in Marocco è considerato tutt'altro che moderato»
I campi di addestramento di Al Qaida, verso i quali in passato più di un islamico è partito anche da Torino, non servono soltanto ad insegnare luso di armi ed esplosivi.
Come ha spiegato il pm Stefano Dambruoso, il magistrato che conduce linchiesta sulle cellule del terrorismo islamico a Milano, intervenendo alla giornata di studi sul tema Terrorismo internazionale world governance «Hanno la capacità di far acquisire uno spiccato spirito di appartenenza ad ununica associazione a persone di etnie diverse».
Ma tra queste ce nè una che ancora sembra sfuggire a unanalisi completa circa possibili alleanze con le centrali del terrore. La gran parte degli albanesi, popolazione pure questa in crescita nel nostro paese grazie soprattutto allimmigrazione clandestina, si professa musulmana. Ma la loro è una religiosità, come spiegano gli esperti, del tutto particolare che sembra assai distante da quelle che invece uniscono nel segno di Allah e (nellaspetto deteriore e criminale) in quello di Bin Laden, numerosi islamici di differenti nazionalità.
«Al momento non ci sarebbero interventi importanti - spiegano gli esperti dellantiterrorismo - in Albania da parte dei reclutatori di Bin Laden, quelli che chiamiamo i missionari di Al Qaida». Il rischio, semmai, riguarda un possibile patto, anche a livelli più bassi, tra il terrorismo islamico ed elementi della malavita albanese. Anche se questipotesi verrebbe contrastata dal punto di forza delle cellule islamiche, ovvero limpenetrabile compartimentazione. Anche su questo fronte, tuttavia, viene intensificato il lavoro di intelligence, rispondendo di fatto a quanto ribadito ancora ieri a Torino dal sottosegretario alla Giustizia Michele Vietti. «Tutti nel nostro paese devono farsi carico del problema terrorismo - ha detto Vietti - e si devono attrezzarsi a fronteggiarlo in maniera determinata».
Un allarme su un possibile contatto tra terroristi islamici e neoterroristi italiani viene, invece, dallisraeliano Ely Karmon, ricercatore presso listituto di studi contro il terrorismo di Herzliya.
Karmon, autore in passato di un saggio sul rapporto tra Brigate Rosse e Organizzazione per la Liberazione della Palestina, pone in evidenza come «esiste già una forte solidarietà tra il terrorismo islamico e i neobrigatisti rossi come confermano alcuni passi, per esempio, della rivendicazione dellomicidio DAntona». Inoltre, per lesperto israeliano «Anche la parte estrema del movimento no global ha più volte espresso una spiccata vicinanza. Per fortuna, credo non ci siano le condizioni per un vero patto, una strategia comune».
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