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Un verdetto islamico sulla legittimità delle operazioni di martirio
Hawa Barayev: suicidio o martirio?

 

Pubblichiamo, per la prima volta in traduzione italiana, una fatwa pubblicata dopo che, il 9 giugno 2000, una giovane cecena, Hawa Barayev (1980-2000), aveva ucciso ventisette soldati russi in un attentato suicida ad Alkhan Kala. Non è chiaro chi sia l’autore della fatwa; è presentata come opera di “un gruppo di studiosi della penisola arabica” che mantengono prudentemente l’anonimato, e il suo interesse deriva dal fatto che è stata pubblicata con ampio risalto su una serie di siti Internet islamici tra i più frequentemente visitati, non tutti di area ultra-fondamentalista. Si tratta dunque di una delle più diffuse giustificazioni del terrorismo suicida, caratterizzata (come si può vedere) da salti logici evidenti, ma nonostante tutto ampiamente letta e citata.  È probabile che l’autore, o uno degli autori, probabili sia lo shaykh Hamud bin Uqla al-Shu‘aybi (?-2002), un influente wahabita ultra-tradizionalista, critico – negli ultimi anni della sua vita – nei confronti della monarchia saudita.

Introduzione

Ogni lode è dovuta ad Allah, che mantiene in esistenza l’Universo e ci informa nel Corano che la Terra cadrebbe nella corruzione se Allah, di tanto in tanto, non sconfiggesse un popolo per mezzo di un altro.

La più grande pace e benedizione siano sul Capo dei Profeti, il quale ha detto: «Per Allah, nelle cui mani è la mia anima! Ho sempre desiderato essere ucciso sulla strada di Allah, quindi risuscitato, ucciso di nuovo, ancora risuscitato e ancora ucciso!» (riferito da Bukhari, Muslim e altri). E che ha anche detto: «Agisci, e ogni azione sarà facilitata da Colui che l’ha veramente creata» (riferito da Bukhari, Muslim e altri).

Allah ci ha dato la legge del jihād per la dignità della sua ‘umma, sapendo che umanamente saremmo inclini a sfuggirla. Ma oggi la gente ha trascurato questo grande dovere, rivolgendosi alle cose che ama, pensando che il bene stia in queste cose e non comprendendo che il bene sta invece nella legge che c’è stata data da Allah.

Allah ci ha benedetti in Cecenia permettendoci di combattere la miscredenza rappresentata dall’esercito russo, e chiediamo ad Allah di rafforzarci e assisterci. Lodiamo Allah per averci permesso diverse vittorie contro il nemico. Alcuni di noi hanno mantenuto le loro promesse; altri attendono di mantenerle. Quanto ad Allah, ha certamente mantenuto la Sua promessa fatta a noi, e ci ha concesso la dignità tramite il jihād. I nostri fratelli martiri hanno scritto con il loro sangue una storia di cui possiamo essere orgogliosi. I loro sacrifici aumentano il vivo desiderio del nostro martirio, che ci permetterà di incontrare Allah e di risorgere con il Profeta (pace e benedizione su di lui), con i suoi compagni e con tutti gli altri profeti, martiri e uomini giusti.

La ‘umma è abituata a sentire raccontare le storie di uomini che sacrificano la loro vita per la religione, ma ha meno familiarità con donne che fanno la stessa cosa. La giovane donna che, per la grazia di Allah, ha subito il martirio, Hawa Barayev, è una delle poche donne il cui nome rimarrà veramente nella storia. Senza dubbio ci ha dato con il suo sacrificio il più meraviglioso degli esempi. Da oggi, i russi possono sentire la morte venire da ogni parte, che i loro cuori potranno essere pieni di giusto terrore a causa di donne come lei. Che ogni persona gelosa perisca nella sua rabbia! Che ogni pavido seppellisca la sua testa nella sporcizia! Hawa ha fatto quello che pochi uomini sono stati capaci di fare. Ogni sostenitore della verità deve essere preparato a comportarsi come lei. La ‘umma deve essere orgogliosa del fatto che un tale modello di virtù sia apparso al suo interno. Siamo certi che una ‘umma che comprende persone come lei non sarà mai, se Allah lo vuole, priva di buoni risultati.

Tuttavia, mentre stavamo gioendo per il sacrificio della nostra sorella, e stavamo ancora pregando perché ottenesse da Allah perdono e misericordia, abbiamo ricevuto messaggi che hanno offuscato la nostra gioia. Venivano non da nemici o da persone invidiose, ma da amici che pensavamo volessero offrire un contributo costruttivo. Tuttavia costoro sbagliavano, e accusavano la grande martire Hawa Barayev di avere commesso suicidio, affermando che non era legittimo per lei agire in questo modo. Né pensavano che fosse legittimo per noi menzionare il suo esempio nella nostra propaganda; piuttosto, avremmo dovuto criticarla. Citavano prove, per la verità piuttosto equivoche, a sostegno delle loro affermazioni. In questo studio, chiariremo che Hawa Barayev – e così pure ‘Abdur-Rahman Shishani, Qadi Mowladi, Khatam, suo fratello ‘Alî, ‘Abdul-Malik e gli altri martiri – sono, per la grazia di Allah, nei Giardini dell’Eternità, con tutti i piaceri che sono stati promessi. Così noi li consideriamo, anche se non consideriamo nessuno santo di fronte ad Allah.

Prima di avviarci a un esame dettagliato che ci porterà a una conclusione autenticamente islamica sulle operazioni di martirio, è opportuno presentare anzitutto alcune premesse.

Primo: Se non sapete, non potete almeno chiedere? Non è appropriato per qualcuno che non è a piena conoscenza delle fatawa saltare alla conclusione e accusare altri di avere sbagliato. Se quelli che ci criticano avessero studiato a fondo la questione, si sarebbero resi conto che, al massimo, si tratta di un oggetto di dibattito tra gli studiosi, e non ci avrebbero criticato per avere seguito precedenti legittimi.

Secondo: Domandiamo ai nostri rispettati fratelli che cercano la verità di non criticarci senza appoggiare le loro critiche alle sentenze di studiosi reputati, e senza fare riferimento alla comprensione dei compagni e successori immediati del Profeta.

Terzo: Cari fratelli e sorelle! Non ogni operazione di martirio è legittima, né ogni operazione di martirio è vietata. Piuttosto, il giudizio sarà diverso sulla base di fattori quali la condizione del nemico, la situazione della guerra, le circostanze personali del candidato al martirio, gli elementi dell’operazione stessa. Pertanto non si può dare un giudizio su queste operazioni senza una comprensione dell’attuale situazione, sulla base di informazioni ricevute dai combattenti per Allah e non dai miscredenti. Come, dunque, potete accusarci di ignoranza quando non conoscete la situazione, né in generale né nei dettagli specifici delle operazioni in questione?

Definizione delle operazioni di martirio e del loro effetto sul nemico

Le operazioni di martirio o di sacrificio di sé sono quelle compiute da una o più persone contro forze nemiche assolutamente preponderanti in termini di numero e di equipaggiamento, con la previa consapevolezza che le operazioni risulteranno in modo pressoché inevitabile nella morte dell’operatore.

La forma che queste operazioni oggi prendono normalmente consiste nell’imbottire il proprio corpo, ovvero una valigia o un veicolo, di esplosivo, quindi entrare in un luogo affollato di nemici, o nella loro base di operazioni, e farsi esplodere in modo da causare il massimo di perdite tra i nemici, sfruttando l’elemento sorpresa. Naturalmente, l’operatore sarà di norma il primo a morire.

Un’altra tecnica consiste, per il combattente armato, nell’entrare in una caserma o in un’area affollata di nemici e aprire il fuoco all’impazzata, senza aver preparato alcun piano di fuga né avere considerato la fuga come una possibilità. L’obiettivo è di uccidere il maggior numero possibile di nemici, quindi – certamente – morire.

Il nome di «operazioni suicide» usato da alcuni è impreciso, e in realtà questo nome è stato inventato dagli ebrei per scoraggiare la nostra gente dal compiere queste operazioni. Quanto grande è la differenza tra chi commette suicidio – a causa della sua infelicità, mancanza di pazienza, debolezza, mancanza di fede, tutte cose che conducono al fuoco dell’Inferno – e chi sacrifica se stesso in nome della forza della sua fede e della sua convinzione, per la vittoria dell’islam, e per l’esaltazione della Parola di Allah!

Quanto agli effetti di queste operazioni sul nemico abbiamo riscontrato, nel corso della nostra esperienza, che nessun’altra tecnica genera un così grande terrore nel suo cuore e turba così profondamente il suo spirito. È a causa della paura di queste tecniche che rinunciano a mescolarsi con la popolazione, e così non la disturbano, né la opprimono, né la derubano. Inoltre, le energie che consacrano a cercare di prevenire queste operazioni non saranno dedicate ad altre imprese per noi dannose. Lode ad Allah! Per quanto riguarda i russi, molti dei loro piani non sono andati a buon fine, e si è potuto creare anche un dissenso interno, con Putin che ha condannato i ministri dell’Interno e della Difesa e ha dato loro la colpa di quanto è accaduto, minacciando conseguenze. Le truppe che non sono impegnate a cercare di sventare le operazioni di martirio sono occupate a seppellire i corpi dei morti russi, a curare i feriti, a rimuovere le macerie. E questo influisce sul loro morale.

Dal punto di vista materiale, si deve considerare che queste operazioni infliggono al nemico le perdite più severe, mentre per noi sono le meno costose. Il costo del materiale è trascurabile se lo si paragona ai risultati: spesso gli esplosivi e i veicoli fanno parte del nostro bottino di guerra, e lo restituiamo al nemico in un nostro modo davvero speciale! Le perdite si riducono spesso a una singola vita – quella del martire eroe che avanza verso il Giardino dell’Eternità, così voglia Allah. Ma per il nemico le perdite sono massicce: con le ultime operazioni in Cecenia hanno avuto 1.600 tra morti e feriti, e un nucleo importante di forze russe in Cecenia è stato completamente distrutto.

Tutto questo è stato ottenuto grazie agli sforzi di soli quattro eroi. Siamo sicuri che i russi non rimarranno a lungo sulle nostre terre se queste operazioni continueranno. O si disperderanno, diventando obiettivi ancora più facili per i nostri attacchi, o si concentreranno in pochi luoghi per resistere all’assalto, e in questo caso poche operazioni di martirio saranno sufficienti – lo voglia Allah – a disperderli. Se volessero tenere la situazione sotto controllo avrebbero bisogno di oltre trecentomila uomini per ogni città, e questa non è un’esagerazione.

Possiamo vedere quanta paura le operazioni di martirio abbiano causato in Palestina, e come siano state un fattore cruciale per convincere gli ebrei a concedere l’autonomia ai palestinesi, nella speranza di controllarli meglio in questo modo. In Cecenia il danno che queste operazioni possono fare è molto maggiore che in Palestina, dal momento che le difese russe sono assai meno agguerrite di quelle degli ebrei.

Prove dell’argomento

Prima di arrivare a un giudizio sulle operazioni di martirio, citando le fatawa di studiosi autorevoli e risolvendo alcuni problemi difficili, è appropriato presentare alcune prove che derivano dalla sharī‘a, quindi procedere a una loro discussione e applicazione. Non analizzeremo la catena di trasmissione degli hadith caso per caso; consideriamo sufficiente che si trovino nelle collezioni di Bukhari e di Muslim, e che ogni trasmissione al di fuori di queste due raccolte sia confermata da loro.

1. «Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi» (Corano IX, 111). Pertanto, ogni scenario in cui il combattente paga il prezzo necessario a ottenere il risultato è legittimo, a meno che ci siano prove che mostrano quello scenario come esplicitamente proibito.

2. «Quante volte, con il permesso di Allah, un piccolo gruppo ha battuto un grande esercito! Allah è con coloro che perseverano» (Corano II, 249). Questo versetto indica che nella sharī‘a la misura del potere non è legata anzitutto a elementi materiali e mondani.

3. «Ma tra gli uomini ce n’è qualcuno che ha dato tutto se stesso alla ricerca del compiacimento di Allah. Allah è dolce con i Suoi servi» (Corano II, 207). Secondo la spiegazione di questo versetto data dai primi compagni del Profeta, chi sacrifica se stesso per la causa di Allah non commette suicidio, anche se si lancia senza armatura contro mille nemici.

4. Un hadith riferito da Muslim, contiene la storia del ragazzo e del re relativa all’episodio del fossato cui fa allusione la sura al-Burûj [LXXXV] del Corano. Leggiamo che il re miscredente cerca in vari modi di uccidere il ragazzo credente, sempre senza riuscirci. Alla fine il ragazzo gli dice: «Non riuscirai a uccidermi se non raduni la tua gente su un altopiano, mi leghi a una palma, prendi una freccia dalla mia faretra, la poni nell’arco dicendo: “In nome di Allah, il signore di questo ragazzo”, e mi colpisci». Il re fa così, e riesce a uccidere il ragazzo come questi gli aveva predetto, ma la gente che si è radunata lì attorno comincia a dire: «Crediamo in Allah, il Signore di questo ragazzo!». Il re ordina che siano scavati dei fossati, e che in questi siano accesi dei fuochi, e che gli astanti siano costretti a saltarci dentro se non rinunciano alla loro fede. Così è fatto, e alla fine una donna con il suo bambino in braccio è portata davanti al fuoco. Esita a saltare a causa del bambino, ma questo le dice: «O madre! Rimani salda perché sei nella verità». In questo hadith il ragazzo incita il re a ucciderlo nell’interesse della religione, e questo dimostra che un’azione simile è legittima e non è considerata suicidio.

5. Imām Ahmad ha riportato nel suo Musnad (1/310) (e una simile narrazione si trova in Ibh Majah, 4030) che Ibn Abbas riferisce che il Messaggero di Allah disse: «Nella notte in cui fui condotto nel mio viaggio celeste, mi trovai di fronte a un piacevole profumo, e chiesi: “O Gabriele! Che cos’è questo buon profumo?”. Egli disse: “È il profumo della parrucchiera della figlia del Faraone, e dei suoi bambini”. Io dissi: “Che cosa le è successo?”. Mi rispose: “Un giorno, mentre stava pettinando la figlia del Faraone, il pettine le cadde di mano ed ella esclamò: ‘In nome di Dio!’. La figlia del Faraone le chiese: ‘Parlando di Dio, intendi riferirti a mio padre il Faraone?’. La parrucchiera disse: ‘No, anzi il mio Signore, che è anche il Signore di tuo padre, è il vero Dio’. La figlia del Faraone le chiese: ‘Posso dirlo a mio padre?’. La parrucchiera rispose: ‘Certamente’”». L’hadith prosegue raccontando che un grosso calderone di metallo fu reso incandescente, e il Faraone ordinò che la parrucchiera e i suoi figli vi fossero gettati dentro. Ella chiese al Faraone – e la richiesta fu accettata – che le sue ossa e quelle dei figli fossero raccolte in un singolo sudario e seppellite. I suoi figli furono gettati nel calderone uno a uno davanti ai suoi occhi, finché si arrivò a un neonato ancora in allattamento. Quando la parrucchiera sembrò esitare a causa sua, il neonato miracolosamente disse: «O madre! Saltaci dentro, perché la tortura di questo mondo è ben più lieve della punizione nell’Aldilà». E così la parrucchiera saltò nel calderone. La catena che sostiene l’autenticità di questo hadith, nella versione di Imām Ahmad, è affidabile. Si può avere qualche dubbio su Abū ‘Umar al-Darir, che tuttavia al-Dhahabi e Abū Hatim al-Razi considerano veridico, e Ibn Hibban considera affidabile. Secondo questo hadith, un neonato parlò miracolosamente, così come un bambino aveva parlato nella precedente storia del fossato, invitando la madre a gettarsi nel fuoco, il che indica che si tratta di un atto virtuoso.

6. Abū Dawud (3/27) e Tirmidhi (4/280) hanno riferito (e Tirmidhi assicura che si tratta di una storia autentica) che Aslam ibn Imran raccontò che, mentre stavano attaccando un preponderante esercito di cristiani, un soldato dell’esercito musulmano si lanciò contro i ranghi cristiani da solo. La gente mormorava dicendo: «Per Allah! Si è gettato da solo nella perdizione». Ma Abū Ayyub al-Ansari si levò e disse: «O popolo! Date un’interpretazione sbagliata al versetto in cui fu rivelato che Allah ha dato onore all’islam, e molti sono diventati i suoi sostenitori, così che abbiamo cominciato segretamente a compiacerci della nostra ricchezza e a temere di perderla. Fu così che Allah rivelò al suo Profeta: “Siate generosi sul sentiero di Allah, non gettatevi da soli nella perdizione” (Corano II, 195), per metterlo in guardia. Ma la perdizione consiste nel compiacersi della propria ricchezza e nell’abbandonare il combattimento». Abū Ayyub rimase saldo finché fu ucciso, e fu seppellito a Roma.

Al-Hakim autentica questo hadith, affermando che si conforma ai criteri di Bukhari e Muslim, e Dhahabi conferma. Anche Nasa’i e Ibn Hibban lo riproducono. Bayhaqi lo include in un capitolo intitolato «Se sia permesso a uno o più combattenti battersi da soli in terra nemica», menzionandolo così come prova che è permesso lanciarsi contro forze preponderanti, anche quando il risultato più probabile è la morte.

In questo hadith, Abū Ayyub spiega che il versetto di Corano II, 195 non si applica a chi si lancia fra le file nemiche da solo, anche se sembra che si getti nella perdizione. Sahabah conferma almeno tacitamente questa spiegazione, perché non la contraddice.

7. Ibn abi Shaybah ha riferito nel suo Musannaf (5/338) che Mu’adh ibn ‘Afra’ chiese al Messaggero di Allah: «Che cosa induce Allah a sorridere al Suo servo?». La risposta: «Vedere il Suo servo che si lancia tra i nemici senza armatura». Mu’adh si tolse allora l’armatura, e combatté fino a quando non fu ucciso.

Questo hadith è una prova evidente della virtù delle operazioni di jihād in cui l’esito più probabile è la morte, e indica che il jihād ha regole speciali che permettono quanto normalmente è proibito.

8. Ibn Abi Shaybah ha riferito (5/289) (e così pure Tirmidhi, 2491 e 2492, che certifica l’affidabilità della narrazione, e anche Nasa’i, 1597 e 2523 e Ahmad – 20,393 – come pure Tabarani e Ibn al-Mubarak in Kitab al-Jihād, 1/84) che «Allah ama tre categorie di persone», e tra queste c’è «l’uomo che incontra un numero preponderante di nemici, e lotta con vigore fino alla morte o alla vittoria». Anche Al-Hakim riferisce questo hadith, e lo considera certo.

9. Ahmad riferisce nel suo Musnad (6/22), citando Ibn Mas’ud, che il Profeta disse: «Colui che ci sostiene ammira due tipi di uomo: il malato che si alza a fatica dal suo letto per pregare, e chi combatte sul sentiero di Allah, e i suoi compagni sono sconfitti, e si rende conto di quale sarà la sua sorte se ritorna a combattere, e tuttavia ritorna a combattere finché il suo sangue è versato. Allah dice: “Guarda il Mio servo che è tornato al combattimento pieno di speranza e di ardore per Me, finché il suo sangue è stato versato”».

Ahmad Shakir ci assicura che la catena di trasmissione di questo hadith è certa. Molti altri lo confermano: Ahmad e Abū Ya`la lo riferiscono, così come Tabarani, e la sua tradizione è veridica; Abū Dawud e Al-Hakim lo riportano in forma abbreviata, e Al-Hakim lo considera autentico. Ibn al-Nahhas afferma che, se anche questo fosse l’unico hadith autentico sul punto, sarebbe sufficiente come prova che è lecito lanciarsi da soli contro le fila nemiche.

10. Muslim riferisce, da Abū Hurayrah: «Tra coloro che vivono la migliore vita c’è l’uomo che scioglie la briglia del suo cavallo sulla strada di Allah, spronandolo e lanciandosi tra le fila nemiche, cercando con zelo la morte e l’occasione di essere ucciso».

Questo indica che cercare di essere ucciso e perseguire il martirio sono atti legittimi e meritori.

11. Bayhaqi ha narrato in Al-Sunan al-Kubra (9,100), con una catena di trasmissione autentica da Mujahid, che il Profeta inviò ‘Abdullah ibn Mas‘ud e Khabbab in una missione disperata, e così pure Dihyah.

Questo indica che, a prescindere dal livello di rischio, l’operazione di jihād rimane legittima; anzi, più grande è il rischio, più grande sarà la ricompensa.

12. Bukhari e Muslim hanno narrato che Talhah difese con il suo corpo il Profeta dalle frecce nella battaglia di Uhud, e la sua mano ne restò paralizzata.

13. Bukhari e Muslim riferiscono che Salamah ibn al-Akwa alla domanda: «Per che cosa hai promesso obbedienza al Profeta nel giorno della battaglia di Hudaybiyyah?». Rispose: «Per la morte».

14. Molti hanno riferito, sulla base di Muhammad ibn Thabit ibn Qays ibn Shimas, che, quando i musulmani esitavano nella battaglia di Yamamah, Salim – lo schiavo di Abū Hudhayfah che era stato liberato – disse: «Non questo è il modo in cui usavamo comportarci con il Messaggero di Allah». Detto questo, si scavò una trincea e rimase fermo innalzando la bandiera. Combatté finché fu ucciso come martire.

Questo episodio e il successivo mostrano che la perseveranza nella lotta è desiderabile, anche se conduce a morte certa, e che Salim riferiva questo tipo di azione ai giorni del Messaggero di Allah.

15. Tabari ha riferito nel suo Tarikh (2/151) che, nella battaglia di Mu‘tah, Ja‘far ibn Abi Talib levò alta la bandiera e combatté fino a immergersi completamente nella lotta. Quindi si volse al suo cavallo grigio e lo ferì (in modo da non poterlo più usare per fuggire) e combatté fino a essere ucciso. Pertanto Ja‘far fu il primo musulmano a ferire il suo cavallo in questo modo.

16. Muslim ha riferito che un uomo sentì dire mentre il nemico si avvicinava: «Il Messaggero di Allah disse: “Le porte del Paradiso sono all’ombra delle spade”». L’uomo, sentendo queste parole, chiese se l’hadith fosse autentico. Quando gli fu confermato, si rivolse ai suoi compagni, li salutò, spezzò e gettò via la guaina della sua spada e si lanciò con la spada levata verso i nemici, combattendo fino a essere ucciso.

Verdetti di autorevoli studiosi a proposito di chi attacca il nemico da solo

Dopo avere stabilito che è legittimo lanciarsi tra le fila nemiche e andare all’attacco da soli anche quando la morte è certa, procediamo e affermiamo che le operazioni di martirio derivano da questo principio, persuasi che la proibizione del suicidio si riferisce a casi di fede debole e assente. È vero, tuttavia, che le precedenti generazioni non conoscevano le operazioni di martirio così come si svolgono oggi, perché queste derivano dai cambiamenti nelle tecniche di guerra, e pertanto non potevano specificamente occuparsene. Ma è anche vero che hanno affrontato problemi simili, come quelli di attaccare il nemico da soli e di spaventarlo anche in casi in cui la morte del combattente è certa. Gli antichi hanno anche dedotto principi generali che si applicano alle operazioni di martirio, utilizzando argomenti come quelli che abbiamo citato nella sezione precedente. Ma c’è una differenza tra le operazioni di martirio e questi precedenti classici, cioè che nel nostro caso il combattente muore di sua propria mano, mentre nei casi che abbiamo citato è ucciso dal nemico. Spiegheremo come questa differenza non modifica il giudizio.

- A. Compagni e primi successori del Profeta

1. Ibn al-Mubarak e Ibn Abi Shaybah (5/303) riferiscono, tramite una catena di trasmissione autentica, che Mudrik ibn Awf al-Ahmasi disse: «Ero in presenza di ‘Umar quando il messaggero di Nu‘man ibn Muqrin venne a lui, e ‘Umar gli chiese dei combattenti, ricevendo come risposta: “Il tale e il tale sono stati colpiti, e anche altri che non conosco”. ‘Umar disse: “Ma Allah li conosce”. Il messaggero disse: “O capo dei credenti! C’è un uomo che ha offerto la sua vita”. E Mudrik disse: “Per Allah, si tratta di mio zio materno. O capo dei credenti! La gente dice che si è gettato nella perdizione”. ‘Umar disse: “Hanno mentito o si sono sbagliati. È piuttosto da annoverare fra quelli che si sono conquistati il Paradiso”». Bayhaqi riferisce che si trattava della battaglia di Nahawand.

2. Ibn Abi Sahybah ha riferito (5/322) che un battaglione di miscredenti avanzava, e un combattente li attaccò da soli, facendo strage nelle loro fila, e ripetendo l’azione due o tre volte. Sa`d ibn Hisham lo riferì ad Abū Hurayrah, che gli recitò il versetto secondo cui ci sono fra gli uomini coloro che sacrificano se stessi per piacere ad Allah.

3. Al-Hakim ha riferito nel libro detto Tafshir (2/275), e Ibn Abi Hatim (1/128) ha confermato la stessa narrazione sulla base di Ibn Asakir, che a Bara fu chiesto il significato del versetto «Siate generosi sul sentiero di Allah, non gettatevi da soli nella perdizione» (Corano II, 195). Può questo versetto riferirsi a un uomo che si lancia tra le fila nemiche e combatte fino a cadere ucciso? Egli disse: «No, si riferisce piuttosto a chi commette un peccato, e quindi afferma che Allah non lo perdonerà». Al-Hakim afferma che si tratta di una narrazione autentica secondo i criteri di Bukhari e Muslim. Questa spiegazione del verso è citata da Tabari nella sua esegesi (3/584) sulla base di Hudhayfah, Ibn ‘Abbas, ‘Ikrimah, Hasan Basri, ‘Ata’, Sa‘id ibn Jubayr, Dahhak, Suddi, Muqatil e altri.

- B. Il giudizio di autorevoli esegeti

1. Ibn al-`Arabi, nel suo Ahkam al-Qur‘an (1/116) (e vedi anche la versione di Qurtubi, 2/364), commentando lo stesso versetto «Siate generosi sul sentiero di Allah, non gettatevi da soli nella perdizione» afferma che «ci sono cinque interpretazioni sul significato di “perdizione”:

- non smettete di essere generosi (sul sentiero di Allah);

- non lanciatevi in imprese azzardate senza la necessaria preparazione;

- non abbandonate il jihād;

- non affrontate un nemico cui non avete possibilità di resistere;

- non disperate del perdono di Allah.

Tabari afferma che il versetto “è di portata generale, e non c’è contraddizione fra le diverse interpretazioni”. Ha ragione, tranne quando si tratta di lanciarsi contro forze nemiche preponderanti, perché su questo punto gli studiosi sono discordi. Qasim ibn Mukhaymirah, Qasim ibn Muhammad e ‘Abdul-Malik sono fra gli studiosi di scuola malekita i quali affermano che non è illecito che un uomo si lanci da solo contro un grande esercito, se è forte e se l’azione è compiuta sinceramente per Allah. Se non è forte, si tratta di auto-distruzione. È stato detto da alcuni che, se sta cercando il martirio e la sua intenzione è sincera, può lanciarsi all’attacco, perché il suo scopo è fare strage fra i nemici, e questo corrisponde al versetto “Ma fra gli uomini ce n’è qualcuno che ha dato tutto se stesso alla ricerca del compiacimento di Allah” (Corano II, 207). La conclusione corretta è che è permesso lanciarsi contro forze nemiche cui non è possibile resistere, perché l’azione contiene quattro obiettivi lodevoli:

- ricercare il martirio;

- infliggere perdite al nemico;

- incoraggiare i musulmani a lanciarsi all’attacco;

- demoralizzare il nemico mostrandogli che, se un uomo solo può fare questo, quanto più potranno fare molti!».

2. Qurtubi afferma nel suo Tafshir (2/364): «Muhammad ibn al-Hasan al-Shaybani, allievo di Abū Hanifah, disse: Se un uomo da solo attacca mille pagani non c’è nulla da obiettare se c’è speranza di ottenere un qualche successo, o di infliggere perdite significative al nemico; altrimenti, è un’azione disdicevole perché costui si espone alla morte senza benefici per i musulmani. Ma, se lo scopo dell’azione è spingere i musulmani a emulare il suo coraggio, non si può escludere che sia permesso, perché in qualche modo porta benefici ai musulmani. Se il suo intento è spaventare il nemico, e dimostrargli la forza della fede dei musulmani, non si può escludere che sia permesso. Se nell’azione c’è un beneficio per i musulmani, allora dare la vita per rafforzare la religione e indebolire i miscredenti è un gesto nobile, secondo il versetto “Fra gli uomini ce n’è qualcuno che ha dato tutto se stesso alla ricerca del compiacimento di Allah” e altri versetti».

3. Shawkani afferma nel Fath al-Qadir (1/297) a proposito del versetto sulla perdizione di Corano II, 195: «La realtà è che queste parole hanno una portata generale, e non sono specifiche alle circostanze in cui sono state rivelate, così che si riferiscono a qualunque evento che possa essere descritto come auto-distruzione in senso mondano o religioso, come confermato da al-Tabari. Tra le circostanze coperte da questo versetto c’è quella di un uomo che attacca un’intera armata nemica da solo senza speranza di successo, e senza che della sua azione scaturisca alcun effetto benefico per i musulmani». Questo significa che se, viceversa, ci si attende un effetto benefico per i musulmani allora l’azione è lecita.

- C. Testi delle scuole giuridiche

 

1. Hanafita

Ibn ‘Abidin afferma nel suo Hashiyah (4/303): «Non ci sono obiezioni se un uomo combattendo da solo, anche prevedendo di essere ucciso, affronta un esercito nemico, purché con il suo gesto ottenga un qualche obiettivo, per esempio uccida, ferisca o metta in fuga un certo numero di nemici, come è confermato da quanto è stato riferito a proposito della battaglia di Uhud e dell’atteggiamento tenuto in quel giorno dal Messaggero di Allah. Se tuttavia il combattente sa che il suo gesto non avrà alcun effetto sui nemici, allora non gli è lecito lanciarsi all’attacco, perché non contribuisce al rafforzamento della religione».

 

2. Malekita

Ibn Khuwayz-Mandad afferma – sulla base del Tafshir di Qurtubi (2/364) – che «per quanto riguarda il caso di un uomo che si lanci da solo contro cento o più soldati nemici, ci sono due scenari. Se è certo che ne ucciderà un certo numero, e riuscirà a salvarsi, fa bene a comportarsi così. Anche se è certo che sarà ucciso, ma dopo avere causato al nemico seri danni, o avere comunque generato un buon effetto per i musulmani, l’atto è comunque lecito». Sono citate affermazioni di Qurtubi e Ibn al-‘Arabi.

 

3. Shafi‘ita

Nella compilazione Al-Majmu’ (19/291) di al-Muti‘i troviamo scritto che «se il numero dei miscredenti è doppio rispetto al numero dei musulmani, ma non sono sicuri di essere sconfitti, è obbligatorio combattere. Se sono certi di essere sconfitti, ci sono due possibili teorie: (1) potrebbero ritirarsi, citando il versetto secondo cui non si deve “gettarsi da soli nella perdizione” (Corano II, 195); o (2) potrebbero non ritirarsi – e questa è la conclusione corretta – sulla base del versetto secondo cui anche quando un “piccolo gruppo” si scontra con un “grande esercito”, “Allah è con coloro che perseverano” (Corano II, 249); inoltre l’atteggiamento dei combattenti musulmani è interamente descritto dal versetto secondo cui “uccidono e sono uccisi” (Corano IX, 111). Se il numero dei miscredenti è più che doppio del numero dei musulmani, sono autorizzati a ritirarsi. Ma, se pensano di avere possibilità di successo, è meglio per loro resistere perché i musulmani non sperimentino una disfatta. Se pensano che saranno distrutti, ci sono due possibilità: secondo alcuni sono obbligati a ritirarsi, sulla base del versetto secondo cui non si deve “gettarsi da soli nella perdizione”; secondo altri è raccomandato e lodevole – ma non obbligatorio – continuare a combattere per essere uccisi e conseguire il martirio».

 

4. Hanbalita

Ibn Qudamah ha scritto nel suo Al-Mughni (9/309): «Se le forze nemiche sono più che doppie di quelle musulmane, ma i musulmani sono ragionevolmente certi della vittoria, è preferibile resistere, considerando i benefici di questa scelta, ma è anche permesso ritirarsi, perché le forze musulmane non sono immuni dalla distruzione. Se sono ragionevolmente certi della vittoria, è concepibile che siano obbligati a combattere, sulla base dei benefici che ne possono ricavare ma, se sono ragionevolmente certi della sconfitta, e pensano che ritirandosi si salveranno, allora è preferibile ritirarsi. Ma non è vietato, anzi è permesso, continuare a combattere anche in questo caso, con lo scopo di conseguire il martirio, cercando peraltro la vittoria. Se pensano di non sopravvivere anche ritirandosi, allora è meglio combattere, non ritirarsi ed entrare tra le fila dei martiri, sempre senza escludere la possibilità che la previsione sia sbagliata e che si possa uscire dallo scontro vittoriosi».

Ibn Taymiyyah afferma in Majmu`al-Fatawa (28/540): «Muslim ha riferito la storia del fossato, in cui il ragazzo in pratica ordina al re di ucciderlo in nome della sua religione, e pertanto i saggi hanno permesso a un musulmano di lanciarsi da solo fra le fila nemiche anche con la ragionevole certezza di essere ucciso, purché ne nasca qualche beneficio per i musulmani».

 

5. Zahirita

Ibn Hazm afferma in Al-Muhalla (7/294): «Né Abū Ayyub al-Ansari né Abū Musa al-Ash‘ari hanno criticato l’uomo che si lancia da solo contro un esercito nemico e continua a combattere finché è ucciso. È riportato da fonti degne di fede che un combattente chiese al Messaggero di Allah che cosa fa sì che Allah sorrida al Suo servo, e il Messaggero rispose: “Quando il servo si lancia fra le fila nemiche senza armatura”, inducendo l’uomo a togliersi l’armatura e lanciarsi fra i nemici combattendo fino alla morte».

- D. Elementi di analisi

L’hadith del ragazzo e del re costituisce la prova maggiore per il nostro argomento. L’hadith spiega che, quando il ragazzo si rende conto che farsi uccidere in un certo specifico modo diventerà un modo per diffondere la religione, spiega al re – da cui Allah lo aveva fino a quel momento protetto – come ucciderlo. Diffondere la religione e fare proseliti fra quella popolazione è più importante ai suoi occhi che rimanere vivo, e pertanto contribuisce direttamente alla propria morte. È vero che non si toglie la vita con le sue mani, ma le sue parole sono l’unica causa della sua uccisione. Si può paragonare l’azione del ragazzo al gesto dell’uomo che, sofferente a causa di dolorose ferite, chiede a qualcun altro di ucciderlo: è colpevole di suicidio così come se si fosse ucciso con le sue mani, perché ha chiesto lui di essere ucciso. Ma Allah loda coloro che credono nel Signore di quel ragazzo: coloro che sono costretti a saltare nel fossati pieni di fuoco per non rinunciare alla loro fede. Perfino un bambino prende la parola e incoraggia sua madre ad avanzare quando esita di fronte al fuoco. Nella sura al-Burûj (Corano LXXXV) questi martiri sono lodati, e si dice di loro che «avranno i Giardini dove scorrono i ruscelli» (Corano LXXXV,11), e sono chiamati vittoriosi. La storia della parrucchiera della figlia del Faraone è simile. Abbiamo citato prove dalla sharī‘a che corroborano questi due hadith, e non abbiamo trovato nulla che contraddica l’opinione secondo cui è lodevole sacrificare la propria vita per innalzare la parola di Allah. Concludiamo che il contenuto di questi due hadith è parte della nostra sharī‘a secondo la maggioranza degli studiosi.

In effetti vediamo che questo tipo di operazioni furono praticate in battaglia alla presenza personale del Profeta, e dopo di lui dei suoi compagni, più di una volta. Inoltre la protezione della religione è il più gran servizio che un combattente può compiere, e i testi non lasciano alcun dubbio sul fatto che un combattente possa sacrificare la sua vita per la religione. Talhah protesse il Profeta con la sua mano, e questo supporta la legittimità per una persona di sacrificarsi per altre nell’interesse della religione.

- E. Sommario

È emerso che i più autorevoli studiosi danno alla questione se sia lecito lanciarsi da soli contro le fila nemiche, con la ragionevole certezza di essere uccisi, la stessa risposta riferita a casi in cui la morte è certa; chi giudica legittimo il secondo comportamento giustifica anche il primo. Inoltre la maggioranza degli studiosi cita quattro condizioni perché il gesto sia legittimo:

1. l’intenzione;

2. infliggere perdite al nemico;

3. spaventarlo;

4. rafforzare i cuori dei musulmani.

Qurtubi e ibn Qudamah considerano lecito lanciarsi tra le fila nemiche alla sola condizione dell’intenzione sincera, anche se mancano le altre condizioni, perché cercare il martirio è comunque legittimo. Dal momento che le fonti non richiedono esplicitamente che si verifichino tutte le condizioni, questa soluzione appare preferibile. La maggioranza deduce le condizioni dai criteri generali della sharī‘a, ma quello che è generale non deve essere ristretto allo specifico. Certo, anche noi pensiamo che se non ci sono benefici per i musulmani o per i combattenti, l’azione non deve essere compiuta, e che non si tratta della migliore pratica, ma la questione è diversa da quella che riguarda la legittimità originaria dell’atto. Condannare, senza ragioni molto serie, chi cerca il martirio è un’ingiustizia.

La questione dell’uso dei prigionieri come scudi umani

La questione dell’uccisione di prigionieri musulmani che il nemico usa come scudi umani assomiglia al problema precedente, ma c’è una differenza. La somiglianza è che si tratta sempre di sacrificare vite musulmane nell’interesse della religione. La differenza è che uccidere coloro che sono usati come scudi umani è stato considerato legittimo dagli studiosi sulla base di un criterio di necessità. Non esiste nessun testo che permetta di togliere la vita a persone innocenti, a meno che questo derivi da un interesse collettivo, che è superiore all’interesse individuale. Pertanto uccidere prigionieri usati come scudi umani è autorizzato sulla base di una regola di necessità che permette l’illecito, o autorizza a scegliere il minore dei due mali quando uno dei due deve essere comunque scelto. Quanto alle operazioni di martirio, non è questa la regola che ha bisogno di essere applicata, perché abbiamo testi chiarissimi che incoraggiano a lanciarsi da soli contro le fila nemiche anche quando è certo che si sarà uccisi, e non ci si trova in uno stato di necessità.

Uccidere un’altra persona innocente è un peccato più grave che uccidere se stessi: Qurtubi cita nel suo Tafshir (10/183) il consenso degli studiosi secondo cui chiunque sia costretto a uccidere un innocente dovrebbe rifiutarsi di farlo. Pertanto chi ammette che sia lecito uccidere un altro musulmano – in assenza di prove contrarie nei testi – per un beneficio religioso superiore, deve evidentemente permettere che si uccida se stessi per il medesimo beneficio superiore, perché sacrificare la propria vita è meno grave che sacrificare la vita innocente di un altro. Sarebbe così anche se non avessimo testi che supportano da un altro punto di vista le operazioni di martirio, mentre abbiamo visto che questi testi esistono.

A un esercito musulmano è normalmente proibito non solo uccidere musulmani, ma anche dhimmi (cioè appartenenti a certe categorie di miscredenti protette dallo Stato musulmano), così come vecchi, donne e bambini anche miscredenti. Se i miscredenti usano come scudi umani prigionieri di guerra musulmani non è permesso sparare nella loro direzione, tranne in casi di manifesta necessità. Nel caso delle donne e bambini miscredenti, tuttavia, si può sparare contro di loro per una necessità di guerra anche se non si tratta di una necessità assoluta, perché la guerra può richiedere questa azione: ma l’intenzione non deve essere specificamente quella di uccidere i civili. Al Profeta (pace e benedizione su di lui e sulla sua casa) fu chiesto un parere su un’imboscata notturna tesa ai pagani, in cui erano morte anche donne e bambini; rispose: «Fanno parte della loro gente» (riferito da Bukhari e Muslim). Nel caso di musulmani usati come scudo umano, tuttavia, sparare è permesso solo se il non farlo porterebbe a un danno maggiore – per esempio, a un maggiore numero di musulmani uccisi in totale – o alla sconfitta dei musulmani e all’invasione della loro terra. In questo caso, ogni musulmano ucciso sarà ricompensato secondo le sue intenzioni.

La maggioranza delle autorità considera obbligatorio attaccare il nemico in caso di necessità, anche se l’attacco causerà la morte di un certo numero di scudi umani (cfr. Shawkani, Fath al-Qadir, 5/447, Mughni al-Muhtaj, 4/244, Hashiyat al-Dusuqi, 2/178; Ibn Qudamah, al-Mughni, 10/505). L’autore del Mughni al-Muhtaj cita due condizioni che devono essere soddisfatte:

1. che i combattenti facciano del loro meglio per evitare di colpire deliberatamente gli scudi umani;

2. che non abbiano l’intenzione di uccidere le persone usate come scudi umani.

Ibn Taymiyyah ha scritto: «Se i miscredenti usano musulmani come scudi umani, e i miscredenti non possono essere sconfitti senza uccidere questi musulmani, allora l’esercito musulmano può colpirli, perché in questo modo il male e l’afflizione possono colpire colui che non li merita nell’Aldilà, e sarà tenuto conto di questa circostanza e sarà ricompensato. Alcuni in questo caso affermano: “Chi uccide è un combattente, e chi è ucciso è un martire”».

La maggioranza dei giuristi di scuola hanafita e malekita, così come Imām Sufyan al-Thawri, permette l’attacco quando il nemico usa musulmani come scudi umani, anche quando non è certo che rinunciare all’attacco porterà alla disfatta, argomentando che diversamente il jihād non potrebbe mai essere portato a termine (cfr. Fath al-Qadir, 5/448, Jassas’ Ahkam al-Qur’an, 5/273, Minah al-Jalil, 3/151). La debolezza di queste posizioni è chiara, perché la santità di una vita musulmana è grande e non si deve permettere di sacrificarla senza una prova chiara. Inoltre, la tecnica degli scudi umani non è usata universalmente, e il jihād può quindi proseguire qualunque soluzione si dia al problema.

Nel caso di donne, bambini e vecchi miscredenti utilizzati come scudi umani, la maggioranza dei giuristi hanafiti, shafi’iti e hanbaliti ha permesso l’attacco anche in casi che esulano dalla stretta necessità (cfr. Al-Siyar al-Kabir, 4/1554, Mughni al-Muhtaj, 4/224, Al-Mughni, 10/504). I malekiti hanno un’opinione diversa, che per brevità non esaminiamo in questa sede (cfr. Dardir, Al-Sharh al-Kabir, 2/178, Minah al-Jalil, 3/150).

L’opinione maggioritaria su chi partecipa indirettamente a un’uccisione

Lanciarsi tra le fila nemiche senza speranza di salvezza è il più gran modo in cui un combattente contribuisce alla sua morte, e contribuire alla propria morte è proprio simile a uccidersi, così come chi causa deliberatamente la morte di qualcuno è nella stessa posizione di chi lo uccide. La maggioranza degli studiosi di scuola malekita, shafi‘ita e hanbalita ha ammesso che chi causa deliberatamente la morte di un terzo può essere ucciso per vendetta nelle stesse circostanze in cui può esserlo chi uccide direttamente.

Tra le basi testuali per questa conclusione c’è il testo di Bukhari, il quale riferisce che un ragazzo fu assassinato e ‘Umar disse: «Se tutti gli abitanti di San’aa hanno partecipato a questa uccisione, li ucciderò tutti». Da un punto di vista razionale, se la punizione in casi simili fosse ristretta all’esecutore materiale, l’omicidio sarebbe incoraggiato, perché gli assassini userebbero semplicemente un sicario senza paura di essere giustiziati per il loro crimine. Il compenso monetario, il cosiddetto prezzo del sangue, non scoraggerebbe tutti gli assassini, specialmente quelli ricchi. Pertanto è giusto che tutti i colpevoli, compresi quelli indiretti, siano giustiziati, ed è nello stesso spirito che il Corano descrive chi uccide un uomo come qualcuno che ha ucciso tutta l’umanità (cfr. Al-Sayl al-Jarrar, 4/397; Tafshir al-Qurtubi, 28/251; Majmu`Fatawa Ibn Taymiyyah, 20/382; Al-Bahr al-Ra’iq, 8/354; Sam`ani, Qawati` al-Adillah, 2/243).

Pertanto, se chi causa la propria morte lanciandosi contro le linee nemiche è lodato, la lode deve essergli applicata indipendentemente dall’arma e dal modo in cui sacrifica la sua vita. Abbiamo già citato casi simili avvenuti alla presenza del Profeta (pace e benedizione su di lui), senza che egli li abbia disapprovati. Quindi, se lasciarsi uccidere dal nemico è permesso quando è nell’interesse dei musulmani, allora anche uccidersi nello stesso interesse deve essere permesso, e in questo caso il combattente è esonerato dal conformarsi ai testi generali che proibiscono di togliersi la vita.

 

Definizione di shahid

Nawawi ha elencato (in Sharh Sahih Muslim, 1/515, e Al-Majmu’, 1/277) sette spiegazioni del perché il martire è chiamato shahid:

1) perché Allah e il Profeta hanno testimoniato che entrerà in Paradiso;

2) perché è vivo di fronte al Signore;

3) perché gli angeli della misericordia assistono la sua anima nel transito;

4) perché sarà fra coloro che testimonieranno di fronte alle nazioni nel Giorno della Resurrezione;

4) perché la sua fede e la sua buona morte hanno dato testimonianza ad altri;

 5) perché ha un testimone della sua morte, il suo sangue;

6) perché la sua anima testimonia immediatamente in Paradiso.

Ibn Hajar ha elencato quattordici mezzi attraverso i quali una persona può acquisire il titolo di shahid, alcuni dei quali direttamente relativi all’essere uccisi sulla via di Allah, altri no (cfr. Fath al-Bari, 6/43).

I giuristi hanno dato diverse definizioni tecniche del martirio.

Secondo gli hanafiti:

«Chi è ucciso dai pagani, o è ritrovato ucciso in battaglia con il segno di una ferita esterna e interna – per esempio, sangue che esce dall’orbita di un occhio o simili» (Al-`Inayah, pubblicato in margine a Fath al-Qadir, 2/142 e Hashiyat Ibn `Abidin, 2/268).

«Chiunque è ucciso mentre combatte pagani, ribelli o briganti, a causa di un’azione del nemico – diretta o indiretta – è shahid, mentre chiunque è ucciso da cause non direttamente attribuibili all’azione del nemico non è considerato shahid» (Zayla`i, Tabyin al-Haqa’iq, 1/247; cfr. pure Al-Bahr al-Ra’iq, 2/211).

Secondo i malekiti:

«Soltanto chi è ucciso mentre combatte in battaglia i miscredenti è shahid, anche se è ucciso in terra islamica quando il nemico attacca i musulmani, pur non avendo combattuto in quanto inconsapevole o addormentato, e anche se è ucciso da un musulmano che lo scambia per un miscredente, o travolto da un cavallo, o ucciso per disgrazia dalla sua stessa spada o freccia, o se cade in un pozzo o in un precipizio durante la battaglia» (Dardir, Al-Sharh al-Kabir, 1/425).

Secondo gli shafi‘iti:

«Chi è ucciso mentre combatte i miscredenti, combattendo a viso aperto senza ritirarsi, per innalzare la Parola di Allah (…) e non per motivi puramente umani» (Mughni al-Muhtaj, 1/350; e cfr. Fath al-Bari, 6/129).

Secondo gli hanbaliti:

«Chi muore in battaglia contro i miscredenti, che si tratti di uomo o donna, di adulto o non adulto, ucciso dai miscredenti o per errore dalla sua stessa arma, o se cade da cavallo, o se è ritrovato morto anche senza segni di ferite, purché sia sincero» (Kash-shaf al-Qina`, 2/113; cfr. pure Al-Mughni, 2/206).

Da quanto precede emerge che la maggioranza – con l’eccezione degli hanafiti – non considera l’identità dell’uccisore un fattore determinante per attribuire alla vittima il titolo di shahid. La conclusione della maggioranza si basa su:

i. un hadith riferito da Bukhari (4196) nel quale ‘Aamir, mentre cerca di uccidere un nemico durante la battaglia di Khaybar, per un incidente uccide se stesso. Qualcuno ritiene che abbia così vanificato le sue opere buone, ma il Profeta commenta: «Chi dice questo mente o si inganna. In realtà ha le sue due ricompense – e mostra due delle sue dita –: è un combattente ed è un martire»;

ii. un hadith riferito da Abū Dawud (2539) su un combattente che si uccide per errore con la sua stessa spada. La gente domanda: «È uno shahid?», e il Profeta risponde: «Sì, e gliene rendo testimonianza».

Alcuni possono esitare sulla liceità delle operazioni di martirio perché il combattente uccide se stesso. Per chiarire questa confusione, dobbiamo ricordare che la sharī‘a spesso raggiunge conclusioni diverse su due azioni che esternamente sembrano uguali, ma differiscono per l’intenzione. Esempi:

- sposare una donna ripudiata è permesso, ma farlo con la sola intenzione di permettere al suo primo marito di risposarla in seguito [il che non gli sarebbe lecito se la donna non fosse passata da un altro matrimonio] è proibito;

- ripagare un prestito restituendo più di quanto è stato prestato è permesso, ma non se questo era stato previsto da un contratto, perché in tal caso si tratta di usura;

- chi va al jihād per innalzare la parola di Allah è un combattente, ma chi combatte per vantarsi delle sue capacità umane è tra i primi ad andare all’Inferno;

- colpirsi in via accidentale con la propria arma permette (secondo la maggioranza) di diventare shahid, ma uccidersi deliberatamente per sfuggire al dolore delle ferite rende meritevoli dell’Inferno.

Tutti questi esempi si basano sullo hadith secondo cui «in verità le azioni si giudicano secondo le intenzioni», e sostengono chiaramente la conclusione secondo cui il giudizio sullo shahid non è diverso secondo l’identità dell’uccisore, purché l’intenzione sia pura. Così, uno che ha una cattiva intenzione ed è ucciso dal nemico merita il Fuoco Eterno, e lo stesso vale per chi si suicida per sfuggire al dolore. Ma chi ha un’intenzione sincera andrà in Paradiso, sia che sia ucciso dal nemico, sia che si uccida per errore. E chi collabora alla sua uccisione per il bene della religione andrà in Paradiso, come – per volontà di Allah – il ragazzo della storia del re.

Definizione del suicidio

«Suicidio» si riferisce qui all’uccidere se stessi a causa di rabbia, dolore, o altri motivi umani. Gli studiosi sono unanimi nel concludere che è vietato ed è un peccato grave, che rende il colpevole meritevole dell’Inferno – eternamente, se pretende di considerare l’atto legittimo, o per un tempo determinato (se non pretende di considerarlo legittimo, e muore da buon musulmano). «O voi che credete (…) non uccidetevi da voi stessi. Allah è misericordioso verso di voi. Chi commette questi peccati iniquamente e senza ragione sarà gettato nel Fuoco; ciò è facile per Allah» (Corano, IV, 29-30; cfr. Qurtubi, Tashir, 5/156).

«Tra i vostri c’era un uomo ferito, che soffriva molto, così prese un coltello e si tagliò i polsi in modo da morire dissanguato. Allah disse: “Il mio servo ha affrettato la fine della sua vita, e io gli ho chiuso le porte del Paradiso”» (riferito da Bukhari e Muslim).

«Chi si impicca si impiccherà in eterno nel Fuoco, e chi si pugnala si pugnalerà in eterno nel Fuoco» (riferito da Bukhari e Muslim).

Gli hadith autentici su questo tema sono molti. In effetti, ci è stato comandato di non desiderare neppure la morte.

«Che nessuno di voi desideri la morte a causa della sfortuna che lo ha colpito. Piuttosto preghi: “O Allah! Mantienimi in vita finché vivere è meglio per me, e fammi morire quando la morte è migliore per me”» (riferito da Bukhari e Muslim).

Tutti questi testi che proibiscono il suicidio si riferiscono a chi uccide se stesso per motivi mondani come il dolore, l’angoscia, e la mancanza di sopportazione; certamente non a chi desidera innalzare la Parola di Allah. Abbiamo già citato le prove che permettono a un combattente di lanciarsi da solo senza armatura tra i ranghi nemici, e queste esonerano il combattente dalla portata generale dei testi sul suicidio.

Possiamo dire che chi uccide se stesso per innalzare la Parola di Allah, per infliggere perdite al nemico, per spaventarlo, e con una sincera intenzione, sta commettendo suicidio? Questa è una grave calunnia. Affermiamo che la proibizione del suicidio deriva dall’intenzione riscontrata nella debolezza o dalla mancanza di fede, mentre il combattente in un’operazione di martirio uccide se stesso proprio a causa della forza della sua fede. Il ragazzo nell’episodio dei fossati riferito nella sura al-Burûj, in effetti, «uccide se stesso» per questa ragione, e il suo gesto è giudicato degno di lode. Così il Profeta si augurò di morire sul sentiero di Allah non una volta sola ma tre, e questo era legittimo perché il desiderio non derivava da un danno o una sfortuna che gli fosse capitata, ma dalla sua forte fede. Così, quando diventa chiara la ragione per cui il suicidio è proibito, si arriva alla conclusione che le operazioni di martirio sono permesse e lodevoli quando sono compiute perché ne derivi un beneficio religioso.

 

Sommario

Siamo arrivati alla conclusione che le operazioni di martirio sono permesse, e che anzi il combattente che è ucciso in queste operazioni è migliore di chi è ucciso in combattimento regolare, perché c’è una gerarchia anche tra i martiri, che corrisponde al loro ruolo, allo sforzo nell’azione e ai rischi incorsi. Abbiamo spiegato come le operazioni di martirio sono gli atti di guerra meno costosi per i combattenti musulmani e più dannosi per il nemico. Abbiamo sentito dire – e dovreste averlo sentito dire anche voi – che la maggioranza degli studiosi più autorevoli oggi permette queste operazioni; conosciamo almeno trenta fatawa che vanno in questa direzione. Abbiamo spiegato il rapporto fra questa questione e quella di chi si lancia da solo contro forze nemiche preponderanti: un gesto considerato lodevole dai giuristi. Abbiamo anche spiegato che preferiamo l’opinione secondo cui questa azione è permessa anche se il martirio ne è l’unico scopo, benché non si tratti della migliore azione possibile. Le operazioni di martirio non devono essere intraprese a meno che si verifichino le circostanze seguenti:

1. L’intenzione deve essere sincera e pura: innalzare la Parola di Allah.

2. Si deve essere ragionevolmente sicuri che l’effetto desiderato non potrebbe essere ottenuto con altri mezzi che garantiscano la preservazione della vita del combattente.

3. Si deve essere ragionevolmente sicuri di ottenere uno di questi risultati: infliggere serie perdite al nemico, terrorizzarlo, rafforzare il coraggio dei musulmani.

4. È necessario consultarsi con esperti di strategia militare, e particolarmente con chi dirige quella specifica campagna, per essere sicuri di non turbare i suoi piani e di non fornire involontariamente informazioni al nemico sulla presenza di forze musulmane nella zona.

Se manca la prima condizione, l’atto è privo di valore. Se la prima condizione è soddisfatta e le altre mancano, l’atto non è ottimale ma non si può immediatamente concludere che il combattente non è uno shahid.

Abbiamo anche spiegato come causare la morte di qualcuno equivale a ucciderlo personalmente. Così chi si lancia senza armatura fra le fila nemiche, certo della morte, è nella stessa situazione di chi compie un’operazione di martirio, causando direttamente la propria morte. Entrambi sono degni di lode sulla base delle circostanze e dell’intenzione, ed entrambi non sono colpevoli del peccato di suicidio. Abbiamo anche chiarito che, secondo la maggioranza degli studiosi, l’identità dell’uccisore non ha un effetto sull’attribuzione al combattente del titolo di shahid. Questo dovrebbe dissipare la confusione che nasce dal fatto che nel nostro caso è il combattente a togliersi la vita. Pertanto, a queste operazioni si può applicare ciascuno dei cinque giudizi della sharī‘a a seconda delle intenzioni e delle circostanze. Infine, dobbiamo chiarire che togliersi la vita non è sempre biasimevole; tutto dipende dai motivi. Concludiamo che chi uccide se stesso a causa della sua solida fede e per amore di Allah e del Profeta, e nell’interesse della religione, è degno di lode.

Conclusione

Infine, sottolineiamo pure che questo argomento abbisogna di uno studio più approfondito. Per il momento, siamo grati ad Allah per averci permesso di completare questo lavoro. Se abbiamo ragione, è merito di Allah; se abbiamo sbagliato, ricordiamo che tutti gli uomini sono inclini all’errore. Infine, invitiamo gli studiosi e i cercatori di conoscenza a prendere contatto con noi per manifestarci le loro reazioni a questo testo e il loro consiglio, perché abbiamo bisogno di questo aiuto. Che essi si assumano questa responsabilità verso di noi nel timore di Allah.

E pace e benedizione siano sul Messaggero di Allah, che ha militato con giustizia sul Sentiero di Allah fino a quando ha lasciato questo mondo, sulla sua Casa, sui suoi Compagni, e su coloro che li seguono sulla via del bene fino al Giorno del Giudizio.

E la nostra parola finale è che sia lode ad Allah, Signore dei Mondi.

 

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