«Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida» (Elledici) è il titolo dell'ultimo saggio di Massimo Introvigne. Direttore del prestigioso CESNUR (Centro studi sulle nuove religioni), Introvigne è tra i più lucidi analisti dell'estremismo religioso.
Professor Introvigne, come possiamo definire Hamas?
Hamas fa parte di una grande galassia internazionale che influenza milioni di persone, quella del fondamentalismo islamico. Hamas è una branca palestinese del maggiore movimento fondamentalista islamico, i Fratelli Musulmani, fondato in Egitto nel 1928 da Hassan al-Banna. Tra il 1940 e il 1950 la lotta palestinese è egemonizzata dai Fratelli Musulmani, però nel 1954 il presidente egiziano Nasser li mette fuori legge e li perseguita. Questo determina una profonda spaccatura interna. Da un lato abbiamo una corrente radicale che resta fedele alla formula "leninista" del colpo di Stato. Dall'altro una corrente neo-tradizionalista, che intende perseguire una islamizzazione dal basso. Una sorta di visione "gramsciana": se si vuole conquistare il potere, bisogna prima conquistare la società (fare il sindacato musulmano, fare le scuole musulmane, i giornali musulmani, etc.). Nel 1957 la direzione dei Fratelli Musulmani in Palestina si adegua alla posizione neo-tradizionalista, cessa ogni attività militare, non organizza attentati, ma si dedica a raddoppiare il numero delle moschee presenti nella striscia di Gaza e in Cisgiordania e a costruire una rete capillare di istituzioni fondamentaliste villaggio per villaggio e quartiere per quartiere.
Questo fino al 1987: poi che cosa succede?
Nel trentennio 1957-1987 in Palestina abbiamo un'attività armata e terroristica appaltata ai nazionalisti laici di Fatah, i quali deridono i fondamentalisti e li accusano di pregare e non di lottare. Però nel 1987 scoppia l'Intifada e la direzione dell'Olp si trova in un momento di debolezza. Ecco che allora i Fratelli Musulmani dichiarano che l'operazione neotradizionalista ha avuto successo. La rete islamica è forte ovunque in Palestina. Quindi fondano Hamas, una parola che significa «fervore» ed è insieme acronimo di «Movimento di resistenza Islamico».
Quindi è corretto definire Hamas un movimento religioso?
Spesso in Occidente si commette l'errore metodologico di considerare i fenomeni religiosi come sovrastrutturali. È un retaggio dell'analisi marxista. Chiaramente in tutti i fenomeni complessi le cause sono molteplici e si intrecciano motivi economici, politici e religiosi; però nel caso di Hamas la religione è elemento determinante. Se leggiamo lo Statuto di Hamas vediamo come questa organizzazione ha come obiettivo quello di trasformare la Palestina in uno Stato islamico, quindi retto dalla shari'a, nella prospettiva di una riunificazione di tutto il mondo musulmano nel Califfato. Però con una specificità, enunciata nell'art. 14: la lotta per la liberazione della Palestina è un obbligo per ogni musulmano in qualunque Paese viva.
Che differenza sussiste tra Hamas e al-Qaida?
E un po' la stessa che si determinò tra Stalin e Trotsky, il primo credeva nel comunismo in un unico Paese, il secondo predicava la rivoluzione permanente e internazionale. La questione palestinese per Hamas non è solo una questione nazionale, come la Cecenia o il Kashmir, ma presenta una essenziale componente religiosa: è lo scontro finale tra gli ebrei, protetti dai cristiani, e i musulmani. Gerusalemme è la terza città santa dell'Islam dopo la Mecca e Medina; è il luogo cui prima della Mecca si rivolgeva la preghiera dei credenti; è il punto di partenza per l'ascensione del Profeta. Per questo quella palestinese è una questione capace di mobilitare i musulmani dall'Indonesia al Marocco. Al-Qaida nega la centralità assoluta della questione palestinese. Infatti il maestro di bin Laden, lo shaykh Azzam, è un professore universitario palestinese esule in Arabia Saudita, che entra in contrasto con i Fratelli Musulmani quando scoppia il jihad in Afghanistan, iniziando a reclutare palestinesi per andare a combattere i sovietici. .
Perché nel 1993 Hamas fa la scelta del terrotismo suicida?
Credo che una parte di colpa ce l'abbia Israele, quando nel 1992 deporta 415 dirigenti palestinesi nel Sud del Libano, dove questi entrano in contatto con i guerriglieri sciiti di Hezbullah. La teologia che giustifica come "martirio" le operazioni suicide è elaborata in ambito sciita durante la guerra Iran-Iraq, quando i ragazzi iraniani imbottiti di esplosivo si lanciavano di corsa contro le linee irachene. .
Chi sono i terroristi suicidi?
Persone che si preparano secondo rituali tipicamente religiosi. Non hanno bisogno di un grande addestramento, devono solo nascondere una cintura esplosiva e premere un bottone. Quindi occorre che non abbiano paura. La preparazione è essenzialmente spirituale, insiste sulla preghiera, sulla recitazione di brani coranici. E una parte di questa preparazione è dedicata al superamento delle obiezioni secondo cui il suicidio sarebbe contrario all'Islam. Può essere sgradevole dire che il terrorista suicida palestinese è mosso dalla religione. Ma è così. È sbagliato considerarli dei manipolati o delle persone che nascondono motivazioni economiche. Unanalisi dei profili socioeconomici di coloro che hanno fatto la scelta del martirio, ci dice che il loro livello, sia di reddito sia di istruzione, è superiore alla media dei palestinesi e un paio di terroristi facevano parte della più alta borghesia. Per cui non si tratta certo dei disperati dei campi profughi.
Uno dei limiti delle analisi del conflitto Israele-Palestina non sta forse nella sottovalutazione dell'aspetto religioso?
Il problema è ancora più ampio, perché l'Occidente per decenni ha fatto una scommessa che si è rivelata una scommessa perduta: quella di puntare esclusivamente su un tipo di interlocutore laico. All'indomani della rivoluzione islamica in Iran si cominciò a credere che il modo migliore per contenere (l'espressione preferita da Kissinger) l'espansione del fondamentalismo fosse sostenere forze e leader "laici" che diffidano dalla religione e desiderano secolarizzare la società. È per questo che nella guerra Iraq-Iran l'Occidente sostenne Saddam Hussein, per questo si è sempre puntato tutto su Yassir Arafat. Dopo l'Iran, l'Algeria, la Turchia, l'Occidente comincia a rendersi conto che quel teorema non è più praticabile e che quindi non si può più ignorare forze politiche che hanno dimostrato di essere rappresentative di fasce molto consistenti della popolazione.
Hamas nell'art. 13 del suo Statuto nega ogni utilità delle iniziative di pace e delle conferenze internazionali. Ma allora si può dialogare con Hamas?
Se ci limitassimo allo Statuto no, però Hamas ha sempre saputo coniugare la poesia della retorica con la prosa della realtà, infatti in Hamas esistono oggi correnti più pragmatiche, soprattutto una parte della leadership interna alla Cisgiordania, che in questo si differenzia dagli esuli in Qatar. Non è forse un caso che gli israeliani non tocchino Yasin, nonostante che tutti sappiano dove si trova. Immaginare un processo di pace che consideri come unico interlocutore Fatah ed escluda completamente i partiti religiosi non è ragionevole. Una delle grandi sfide è proprio quella di trovare all'interno del mondo religioso degli interlocutori disponibili a un discorso, se non di pace, almeno di tregua.
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