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Al-Qa’ida e Osama bin Laden: un’opera "definitiva" senza "soluzioni finali"

di Massimo Introvigne

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Rohan Gunaratna, docente presso la University of St. Andrew’s, in Scozia, considerato uno dei maggiori studiosi del terrorismo internazionale, ha prodotto con Inside Al Qaeda. Global Network of Terror ("Dentro al-Qa’ida. Una rete globale del terrore", Columbia University Press, New York 2002), un’opera presentata nel risvolto di copertina come "definitiva". La pretesa - se ci si riferisce alla descrizione del fenomeno - non è eccessiva, e Gunaratna, che è consulente di diversi governi e delle Nazioni Unite, ha avuto accesso a un gran numero di fascicoli riservati che riguardano al-Qa’ida, partecipando anche personalmente all’interrogatorio di membri dell’organizzazione detenuti in vari paesi, prima e dopo l’11 settembre 2001. Utilizza inoltre pubblicazioni clandestine di al-Qa’ida cui non molti studiosi hanno avuto accesso, come l’Enciclopedia del Jihad Afghano, un testo di circa settemila pagine, e il volume di riflessioni (in arabo) pubblicato (clandestinamente) a Londra dall’editore Al-Sharq al-Awsat nel dicembre 2001 con il titolo Cavalieri sotto la bandiera del Profeta. Meditazioni sul movimento jihadista, che contiene le riflessioni del medico egiziano Ayman al-Zawahiri, numero due di al-Qa’ida, sul futuro del movimento dopo l’11 settembre 2001.

Il quadro che ne emerge non è confortante. Al Qa’ida, secondo Gunaratna, rappresenta un movimento qualitativamente e quantitativamente diverso da tutti i gruppi terroristici che la storia recente ha conosciuto. Ben lungi dall’essere quella realtà marginale che alcuni studiosi del fondamentalismo islamico (desiderosi soprattutto di contestare la posizione sul punto della CIA e dell’amministrazione statunitense) avevano creduto di poter descrivere negli anni 1990, al Qa’ida emerge come la maggiore organizzazione terroristica che la storia abbia conosciuto, con un numero di agenti (diverse decine di migliaia, per quanto le stime siano oggetto di controversie), armi e disponibilità finanziarie paragonabile non tanto alle cifre di movimenti terroristici del passato quanto alle possibilità di un piccolo (ma bene armato) Stato contemporaneo. Mentre il passato ha conosciuto gruppi terroristici controllati da Stati, al-Qa’ida aspira - ed è riuscita, nel caso dell’Afghanistan - a essere un gruppo terroristico che controlla Stati. Quanto al suo leader, "tra i capi terroristi contemporanei, Osama bin Laden non ha eguali (…). Anzitutto, è il solo leader ad aver costruito un gruppo terroristico veramente multinazionale, che può colpire ovunque nel mondo (…). In secondo luogo, si è costruito un seguito popolare nel mondo islamico, ed è oggetto quasi di venerazione in ambienti musulmani dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente, e tra gli emigranti di prima e seconda generazione in America, Europa e Australia" (p. 53): Gunaratna riferisce, per esempio, che il settanta per cento dei bambini nati nella popolosa città nigeriana di Kano tra l’11 settembre 2001 e la fine dello stesso anno sono stati chiamati "Osama", e che indagini demoscopiche rivelano in tutto il mondo islamico una popolarità di bin Laden superiore a quella dei leader politici locali (cfr, p. 52). Questa popolarità si traduce in un continuo afflusso di finanziamenti, i quali si aggiungono agli importanti contributi di organizzazioni caritative internazionali islamiche i cui vertici simpatizzano per al-Qa’ida o ne sono (assai spesso) infiltrati, così che la fortuna personale di bin Laden contribuisce solo per una parte minoritaria alla solidità finanziaria dell’organizzazione (che peraltro riposa anche su un sistema internazionale di frodi alle società di carte di credito, mentre sembrerebbe che bin Laden, a differenza dei talebani afghani, abbia sempre rifiutato un coinvolgimento nel traffico di droga).

La storia di al-Qa’ida è in gran parte nota, e la ricostruzione di Gunaratna è così dettagliata e attenta al particolare - fornisce, per esempio, il numero del telefono satellitare usato per anni da bin Laden e i nomi degli alberghi dove hanno pernottato i principali agenti di al-Qa’ida nei loro viaggi - da risultare talora di difficile lettura, anche perché alcuni dei protagonisti utilizzano uno straordinario numero di nomi falsi (oltre quaranta nel caso di Ramzi Ahmed Yousef), riuscendo a confondere - se non i servizi segreti che danno loro la caccia - almeno il medio lettore del volume. Alcuni particolari sono peraltro degni di nota. Per esempio, Gunaratna considera probabile che il quarto obiettivo (mancato) dell’operazione dell’11 settembre 2001 fosse la Casa Bianca, e certo che lo stesso giorno solo la chiusura dell’aeroporto londinese di Heathrow con qualche ora di anticipo rispetto alle previsioni di al-Qa’ida, dopo gli eventi di New York e Washington, abbia impedito a un gruppo di terroristi, già pronti a imbarcarsi sul volo Londra-Manchester, di dirottare l’aereo e farlo schiantare contro il Parlamento britannico. Dal volume emerge che i fatti dell’11 settembre sono ormai stati ricostruiti nei particolari, e che al-Qa’ida ha imparato dai suoi errori precedenti. In effetti, l’organizzazione di bin Laden non è infallibile, e i suoi nemici non sono sprovveduti: se al-Qa’ida è riuscita negli anni 1990 a mettere a segno alcuni attentati spettacolari, altri che sarebbero stati assai più letali sono stati sventati. In particolare, Gunaratna attira l’attenzione sul cosiddetto Oplan Bojinka, un piano che avrebbe dovuto essere realizzato nel 1995 e che prevedeva l’esplosione in volo, lo stesso giorno, di undici aerei di linee aeree statunitensi e il contemporaneo assassinio del presidente degli Stati Uniti William Jefferson "Bill" Clinton e del pontefice Giovanni Paolo II; e sull’attentato che avrebbe dovuto colpire l’aeroporto internazionale di Los Angeles in occasione delle celebrazioni del 31 dicembre 1999. Entrambi furono sventati con gli arresti di alcuni fra i candidati esecutori suicidi prima che mettessero in atto i loro propositi, determinati - secondo Gunaratna - dal fatto che si trattava di attivisti piuttosto visibili (quindi sorvegliabili) del fondamentalismo islamico radicale, molti dei quali con precedenti penali specifici. Nel caso dell’11 settembre, invece, la maggioranza degli attentatori non aveva precedenti penali, ed era stato loro raccomandato di non frequentare gruppi fondamentalisti, né moschee, né - ancora - di leggere il Corano o pregare in pubblico. Il capo dell’operazione dell’11 settembre, Mohammed Atta (1968-2001), figlio di un noto avvocato egiziano, era piuttosto noto come uno studente che si era laureato nel 1999 a pieni voti in urbanistica ad Amburgo con una tesi sul recupero del centro storico di Aleppo e si avviava a una brillante carriera (cfr. p. 105). D’altro canto, sembra che al-Qa’ida tenga costantemente pronti un centinaio di diversi progetti terroristici, realizzandone soltanto tre o quattro all’anno con decisioni prese rapidamente da una piccola "cupola" di capi (bin Laden, l’ideologo del movimento al-Zawahiri, nonché il responsabile dell’organizzazione, il palestinese Abu Zubaydah, e il comandante militare, l’ex-poliziotto egiziano Muhammad Atef, 1944-2001; tuttavia Zubaydah è stato catturato dai servizi statunitensi in Pakistan il 28 marzo 2002, e Atef è stato ucciso in Afghanistan, in entrambi i casi arrecando seri danni ad al-Qa’ida).

Sul piano dell’ideologia, Gunaratna propone alcune interessanti riflessioni sul carattere insieme utopico e concreto delle tesi elaborate da bin Laden e al-Zawahiri. Da una parte, l’obiettivo dichiarato è la restaurazione di un unico califfato per l’intera umma musulmana; questo scopo presuppone l’abbattimento dei regimi corrotti che non applicano o applicano parzialmente la shari’a nei paesi a maggioranza islamica, il che è possibile solo facendo venire meno la protezione loro garantita dagli Stati Uniti, i quali dovrebbero essere indotti a ritirarsi da questi paesi dalla minaccia di un terrorismo che li insegue fino nel cuore dell’America. A chi obietta che l’obiettivo è utopico, al-Qa’ida risponde che "tutto avviene secondo la volontà di Dio" (p. 229); anche l’operazione dell’11 settembre, afferma al-Zawahiri, "è riuscita grazie all’aiuto di Dio, non alla nostra efficienza o potere" (ibid.). D’altro canto, il macro-progetto del califfato è continuamente micro-tradotto in una serie di obiettivi intermedi che, per quanto di difficile realizzazione, non sono politicamente impossibili e in parte sono già stati conseguiti: rovesciamento di specifici regimi, creazione di enclave controllate da al-Qa’ida e dai suoi alleati in zone remote del Pakistan (dove secondo Gunaratna si troverebbe tuttora bin Laden), dell’Indonesia e delle Filippine, e così via. Il successo di al-Qa’ida è anche assicurato dall’universalismo pan-islamico di bin Laden, che contro nemici comuni è riuscito a far collaborare musulmani fondamentalisti e tradizionalisti, e anche sunniti e sciiti (peraltro, non senza che questo costituisse un elemento di frizione con i talebani, radicalmente anti-sciiti: una dialettica che secondo Gunaratna avrebbe potuto essere meglio sfruttata dai nemici del terrorista di origine saudita). Anzi, sostiene Gunaratna, il principale sostegno militare e di intelligence al sunnita bin Laden viene oggi dall’Iran sciita (non dall’Iraq, per cui una politica statunitense che privilegiasse l’attacco all’Iraq sarebbe secondo lo studioso del tutto inadeguata).

Rimane comunque confermato che, contrariamente a una diffusa opinione popolare, gli scopi di al-Qa’ida così come sono percepiti dai suoi dirigenti e dai suoi membri sono di natura religiosa: "Osama non ha mai interpretato l’islam come se fosse al servizio di uno scopo politico specifico. E’ l’islam il suo scopo politico (…)" (p. 87); per quanto, visti dall’esterno, "Osama e Zawahiri non sono uomini di Dio ma politici assetati di potere" (p. 238): la distinzione fra l’elemento religioso e quello politico non ha senso all’interni di al-Qa’ida ma Gunaratna propone di utilizzarla in una propaganda esterna che ne metta in discussione il mito (operazione il cui successo nei paesi islamici è peraltro tutt’altro che scontato). Lo studioso smentisce anche l’esistenza, per la grande maggioranza dei militanti di al-Qa’ida, di moventi economici: in gran parte i terroristi vengono da famiglie agiate e hanno ricevuto una buona istruzione (esemplare il caso di Omar Sheikh, il terrorista responsabile dell’assassinio del giornalista del Wall Street Journal Daniel Pearl, 1963-2002, figlio di imprenditori emigrati in Inghilterra e già studente alla London School of Economics), e in al-Qa’ida ricevono "stipendi" modestissimi.

Secondo Gunaratna, i movimenti fondamentalisti islamici (che preferisce chiamare "islamisti") si dividono in quattro tipi: rivoluzionari, ideologici, utopici e apocalittici. I primi (i "rivoluzionari", il cui tipo è Hamas) praticano la violenza al servizio di scopi precisi politicamente raggiungibili; i secondi (gli "ideologici") giustificano la violenza sistematica con un discorso ideologico coerente che ne esalta il valore pedagogico e religioso, secondo un’ideologia che sarebbe tipica del teorico fondamentalista sudanese Hassan Turabi e sarebbe praticata dagli Hezbollah in Libano; i terzi (gli "utopici") intendono rovesciare l’ordine mondiale esistente per sostituirlo con un nuovo ordine islamico (i talebani, al-Qa’ida stessa in una sua prima fase di sviluppo); gli "apocalittici" infine credono nel valore della violenza globale che dovrebbe condurre a un’apocalisse islamica, sola condizione per la restaurazione del califfato (cfr. pp. 92-94). Solo due gruppi - al Qa’ida e il GIA (Gruppo Islamico Armato) algerino - sarebbero in questo senso "apocalittici", benché Gunaratna precisi che l’aggettivo non è usato nel senso comune nella sociologia delle religioni per indicare una vera e propria attesa della fine del mondo, un elemento la cui presenza in al-Qa’ida rimane oggetto di dibattiti e quesiti cui lo studioso tende a dare una risposta negativa. Quanto al GIA, lo stesso bin Laden ha denunciato la sua violenza gratuita contro interi villaggi musulmani (esprimendosi in termini particolarmente severi contro i ripetuti episodi di violenza carnale) e ha favorito nel 1998 la scissione del GSPC (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento), che oggi è il rappresentante del network di al-Qa’ida in Algeria ed è anche presente clandestinamente in Francia e in Italia.

Che fare contro al-Qa’ida? Nel breve periodo la risposta, secondo Gunaratna, può essere soltanto militare e di intelligence. Non si devono sottovalutare i successi conseguiti dai servizi occidentali nello sventare operazioni di al-Qa’ida (che dunque non è invincibile), e favorire anche una migliore cooperazione fra servizi di paesi diversi. Per esempio, il dirottamento di aerei di linea perché si schiantino contro edifici-simbolo avrebbe potuto essere previsto, secondo lo studioso, attraverso una migliore collaborazione fra servizi francesi e statunitensi, dal momento che ai primi era noto che l’obiettivo dei terroristi del GIA che nella notte di Natale del 1994 avevano dirottato un aereo della Air France partito da Algeri era quello di farlo schiantare contro la Torre Eiffel (durante uno scalo per rifornimento a Marsiglia, il piano fu sventato da reparti speciali della Gendarmeria francese, che assaltarono l’aereo uccidendo tutti i terroristi). Nel medio periodo, secondo Gunaratna, sconfiggere al-Qa’ida significa spezzare la rete di simpatia e di complicità di cui gode nel mondo islamico in generale e fondamentalista in particolare. A differenza di molti sociologi, Gunaratna non distingue particolarmente fra fondamentalismo "neo-tradizionalista" (che non usa in genere mezzi violenti) e "radicale", non solo perché lo scopo del suo libro non è l’analisi del fondamentalismo ma perché dalla sua documentazione emergono continuamente contatti fra al-Qa’ida ed esponenti di gruppi che altri chiamerebbero "neo-tradizionaliti", primi fra tutti i Fratelli Musulmani. "La domanda - scrive Gunaratna - deve essere posta: al-Qa’ida è coranica o eretica?" (p. 234); lo studioso pensa evidentemente che la risposta vada nel senso dell’eresia, anche se la sua argomentazione rimane sommaria. Il problema che Gunaratna ha in mente non è teologico ma strategico: come vincere la guerra contro al-Qa’ida (se non contro il fondamentalismo islamico in generale) utilizzando insieme strumenti militari e "ideologici" (ibid.), come a suo avviso fu fatto con successo nei confronti del comunismo durante la Guerra fredda. Lo studioso auspica che si manifestino, nel medio termine, "autorevoli religiosi" (p. 238) dell’islam in grado di pronunciarsi autorevolmente almeno contro il terrorismo. Gunaratna ammette che finora non si sono trovati "(…) precedenti tradizionali, garanzie di sicurezza o incentivi" per favorire simili pronunciamenti (ibid.), ma non dispera che si trovino in futuro (mentre considera inutili le dichiarazioni di veri o presunti esperti occidentali dell’islam, puntualmente ridicolizzate nei paesi a maggioranza islamica). Questo lo spinge a guardare, oltre il medio, al lungo periodo, in cui per favorire l’emergere di un consesso internazionale islamico che appaia autorevole alle masse musulmane e condanni il terrorismo l’Occidente dovrebbe fare la sua parte per risolvere nodi irrisolti come quelli della Palestina e del Kashmir.

Si tratta certo, in gran parte, di considerazioni di buon senso, ma nello stesso tempo di una problematica enorme che forse non spetta agli esperti di anti-terrorismo risolvere: per esempio, chi potrebbe avere l’autorità per dichiarare al-Qa’ida "eretica" in una religione come l’islam? Chi potrebbe convocare un concilio di "autorevoli religiosi", e come sceglierli? Se questa, come sostiene Gunaratna, è l’unica vera soluzione finale del problema al-Qa’ida, non resta che concentrarsi per il momento sulle soluzioni intermedie e rafforzare le misure di prevenzione militari e di intelligence, certi che al-Qa’ida in questo momento già si prepara a colpire ancora.



Dal fondamentalismo islamico a Osama bin Laden
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