PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATO BRUNO
La seduta comincia alle 10,40.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione di monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, e di Venerando Marano, direttore dell'Osservatorio giuridico della Conferenza episcopale italiana (CEI).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la libertà religiosa, l'audizione di monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, e del dottor Venerando Marano, direttore dell'Osservatorio giuridico della Conferenza episcopale italiana. Nel ringraziarli a nome mio e dei membri di questa Commissione, do subito la parola a monsignor Betori perché ci illustri la sua relazione.
GIUSEPPE BETORI, Segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Desidero esprimere anzitutto al presidente della Commissione affari costituzionali, onorevole Donato Bruno, e al relatore, onorevole Bondi, un ringraziamento per
il cortese invito rivolto alla Conferenza episcopale italiana a presentare osservazioni circa il disegno di legge C. n. 2531 recante «Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi».
Si tratta di un'iniziativa cui aderiamo volentieri, in quanto rivolta a favorire, in una materia di particolare rilievo e delicatezza, una forma di partecipazione democratica al processo legislativo che appare sicuramente opportuna.
Il contributo della CEI sarà rivolto anzitutto a valutare l'opportunità dell'intervento legislativo, per poi svilupparsi con qualche considerazione sull'impostazione e sui contenuti del disegno di legge in esame. In ordine all'opportunità dell'intervento legislativo in merito, ricordo che la Chiesa cattolica ha mantenuto in questi anni un atteggiamento di attenzione e apprezzamento riguardo alla ipotesi di un intervento legislativo organico in materia di libertà religiosa e per l'abrogazione della legislazione de1 1929-1930 sui cosiddetti «culti ammessi». In particolare, la CEI aveva espresso una valutazione favorevole sullo schema di disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 13 settembre 1990 (ma poi non presentato in Parlamento ), che costituisce in qualche misura, come lo stesso relatore ha sottolineato, sebbene con alcune modifiche non tutte marginali, il precedente del disegno di legge in esame.
Anche oggi, l'ipotesi di un intervento legislativo suscita di per sé una valutazione non negativa, nell'auspicio che possa contribuire a realizzare più compiutamente il sistema costituzionale che disciplina il fenomeno religioso, nel rispetto di alcuni principi ed esigenze che possono schematicamente riassumersi in quattro aspetti essenziali.
Primariamente vi è la necessità di superare la legislazione sui «culti ammessi» degli anni 1929-1930, che, per quanto
emendata negli aspetti più negativi dagli interventi della Corte costituzionale, esprime un'impostazione ispirata più a una concessione sospettosa e avara che al pieno riconoscimento dei diritti originari delle persone e delle comunità religiose. La stessa nozione di «culto ammesso» risulta stridente sia con i principi costituzionali, sia con i limpidi indirizzi della dichiarazione conciliare «Dignitatis humanae» e del successivo magistero della Chiesa cattolica, dai quali emerge nettamente l'esigenza di non limitarsi alla dimensione della mera tolleranza e di procedere a un pieno riconoscimento della libertà religiosa in tutte le sue dimensioni.
Parimenti essenziale è dare attuazione alla chiara disposizione del primo comma dell'articolo 8 della Costituzione - vero caposaldo, insieme al principio della bilateralità pattizia, della disciplina costituzionale del fenomeno religioso - da cui discende per lo Stato democratico la necessità di garantire a tutte le confessioni una effettiva parità nel godimento dei diritti di libertà.
Inoltre è essenziale non alterare i caratteri costitutivi del sistema costituzionale di disciplina del fenomeno religioso, mantenendo chiara la garanzia complementare ma distinta offerta, rispettivamente per la Chiesa cattolica e per le confessioni diverse dalla cattolica, dagli articoli 7 e 8 della Costituzione.
Infine, occorre che la garanzia della «uguaglianza nella libertà» per tutte le confessioni non si traduca nella rivendicazione della «uguaglianza nel trattamento» e conseguentemente, fra l'altro, di un presunto «diritto all'intesa». Tale rivendicazione da un lato non trova fondamento nel nostro sistema costituzionale e, dall'altro, potrebbe comportare una
proliferazione delle intese e uno snaturamento della loro stessa specificità e funzione quale prevista dal terzo comma dell'articolo 8 della Costituzione.
Circa la valutazione del disegno di legge, è nostra intenzione formulare talune osservazioni e proposte. La valutazione complessiva rimane sostanzialmente positiva, sia pure con una speciale attenzione per alcuni nodi problematici che sembrano richiedere qualche ulteriore e prudente ponderazione. Per molti aspetti il testo in discussione riprende i contenuti dei precedenti disegni di legge in materia, sia quello del 1990 sopra richiamato, sia quello del 1997 (C. 3947).
Ne deriva un'impostazione rivolta a disciplinare la materia in forma tendenzialmente completa e organica, che apporta concrete precisazioni e integrazioni, prevede alcune forme comuni di agevolazione, offre chiarezza e certezza di riferimenti, pur lasciando necessariamente alla sensibilità culturale e all'interpretazione giurisprudenziale taluni ulteriori sviluppi, pur sempre da collocare, peraltro, nel quadro dei grandi principi e indirizzi costituzionali. Anche la previsione di determinazioni procedurali relative alla elaborazione e alla stipulazione delle intese è da apprezzare, perché risulta elemento di chiarezza e garanzia di legittimità, così come sono importanti le disposizioni finali: sia quelle che prevedono l'abrogazione della legislazione sui culti ammessi, sia quelle che ribadiscono la vigenza degli accordi in atto tra la Repubblica e la Santa Sede (concordato) e tra lo Stato e talune confessioni religiose (intese). Occorre considerare, peraltro, che in questi anni il quadro ordinamentale e sociale in parte è mutato rispetto ai primi anni '90, quando l'elaborazione del disegno di legge sulla libertà religiosa interveniva in qualche modo a completamento e a chiusura della cosiddetta «stagione delle intese» iniziata nel 1984.
Oggi, pertanto, si avverte l'opportunità di qualche ulteriore precisazione dell'articolato all'esame del Parlamento, proprio per evitare il rischio che, quasi per una sorta di eterogenesi dei fini, la legge sulla libertà religiosa - originariamente ideata anche per arginare la frammentazione del quadro normativo che deriverebbe da una ingiustificata proliferazione delle intese - paradossalmente finisca per favorire un simile esito e, attraverso di esso, un indebito riconoscimento di realtà che poco o nulla hanno in comune con le confessioni religiose quali riconosciute e valorizzate nel vigente sistema costituzionale.
Quest'ultima considerazione merita qualche ulteriore precisazione. Nel quadro attuale di evoluzione legislativa, infatti, è diffusamente avvertito il rischio che alcuni gruppi religiosi, sebbene di consistenza e rilievo incerti o assai modesti, per sottrarsi ai limiti e ai vincoli della normativa del 1929-1930 chiedano di stipulare un'intesa, in base al falso presupposto che da parte dello Stato l'intesa sia una sorta di «atto dovuto» e con la conseguenza di favorire la moltiplicazione delle intese e delle «intesine».
A nostro avviso, invece, nel vigente ordinamento costituzionale non è previsto alcun «diritto all'intesa», poiché l'intesa è cosa diversa dalla piena eguaglianza nella libertà e non può ritenersi necessitata da quest'ultima, come risulta chiaramente da una corretta lettura dei commi primo e terzo del richiamato articolo 8 della Costituzione. La garanzia della piena libertà è dovuta a tutti, e a tutti deve esser offerto il quadro legislativo entro il quale tale libertà possa esplicarsi in modo certo e sereno; l'intesa, invece, è frutto di una valutazione correttamente discrezionale dello Stato, il quale può decidere di stipulare o di non stipulare (salva sempre, poi, la decisione del Parlamento di approvare o non approvare con legge l'intesa
così stipulata). Ovviamente, perché la discrezionalità non divenga arbitraria occorre che lo Stato si attenga - al di là di ogni pretesa autoqualificazione da parte dei gruppi religiosi - ad alcuni parametri oggettivi e ragionevoli, fra i quali possono richiamarsi, a titolo esemplificativo, non solo il non contrasto degli statuti (del gruppo che chiede l'intesa) con l'ordinamento giuridico italiano, espressamente previsto dal comma secondo dell'articolo 8 della Costituzione, ma anche il rispetto dei diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione repubblicana e, più in generale, la non contrarietà del messaggio di cui la confessione è portatrice ad alcuni valori che esprimono l'identità profonda della nazione e ispirano il suo quadro costituzionale. Si dovrà inoltre verificare la sua relazione con il quadro socio-culturale e la tradizione storica del Paese, l'apprezzamento della consistenza numerica della confessione richiedente, ed altri ulteriori aspetti. A questo riguardo, si possono segnalare alcune soluzioni adottate nel panorama giuridico contemporaneo della cultura europea, e in particolare nella recentissima legge del Portogallo sulla libertà religiosa (legge 22 giugno 2001, n. 16), in cui fra l'altro si afferma che «le Chiese e le comunità religiose sono comunità sociali organizzate e stabili...» (articolo 20). Nel caso in cui alcuni di questi elementi mancassero o fossero insufficienti, non verrebbe meno il diritto di una confessione alla libertà e la possibilità del riconoscimento della personalità giuridica civile (a ciò osterebbe soltanto il «contrasto con l'ordinamento giuridico italiano», come stabilisce il secondo comma dell'articolo 8 della Costituzione sopra richiamato); ma, certamente, sarebbe incoerente che lo Stato apprezzasse, per dir così, in modo specifico e positivo, proprio attraverso la stipulazione di un'intesa, una realtà in stridente contrasto con gli indirizzi «politici», in senso alto, che esso persegue. Un eventuale
intervento legislativo nella materia in esame, pertanto, dovrebbe definire un quadro entro il quale tutti gli interessi connotati da qualche legittimità potrebbero trovare tutela, ma idoneo anche, allo stesso tempo, ad assicurare che le oggettive diversità siano salvaguardate e promosse nell'ottica del bene comune.
I valori del pluralismo, così come non postulano una sorta di «livellamento al basso» quale unica possibilità per garantirne il rispetto, analogamente non esigono certo un'omogeneizzazione verso il massimo di realtà troppo diverse fra loro.
Lo strumento della bilateralità pattizia è il mezzo indicato dalla Costituzione per una equilibrata composizione di tutti i valori in gioco entro il quadro della pari libertà.
Alla luce delle considerazioni di principio fin qui brevemente svolte, e limitando i rilievi ad alcuni profili che appaiono di particolare interesse, vorrei a questo punto offrire in forma schematica qualche indicazione relativa a singoli punti del disegno di legge.
L'articolo 3 è certamente da condividere; sarebbe opportuno, in ogni caso, ricordare che il divieto di atti di discriminazione non potrà esser letto nel senso di mettere in discussione il diritto fondamentale delle cosiddette organizzazioni di tendenza di esigere che coloro che in esse liberamente operano esprimano indirizzi e atteggiamenti pienamente coerenti con il rispettivo orientamento ideale.
Nel titolo del capo II, la locuzione utilizzata, che fa riferimento congiunto alle «confessioni e associazioni religiose», potrebbe ingenerare equivoci circa una presunta equiparazione fra queste due realtà, che invece nel nostro ordinamento costituzionale sono chiaramente distinte. Mentre la disciplina relativa al riconoscimento della personalità giuridica può riguardare gli enti esponenziali cui danno vita i soggetti
religiosi, la normativa prevista nel successivo capo III in merito alla stipulazione di intese ai sensi dell'articolo 8, comma 3, della Costituzione concerne propriamente e unicamente le «confessioni religiose». Occorre pertanto che risulti più chiaramente come il riconoscimento ai sensi del capo II non costituisce comunque un presupposto sufficiente per l'applicazione del successivo capo III.
Anche la formulazione dell'articolo 24 suscita qualche perplessità, in considerazione della recente evoluzione dell'ordinamento italiano per quanto riguarda il riconoscimento della personalità giuridica degli enti. Come è noto, infatti, il decreto del Presidente della Repubblica del 2000, n. 361, ha abrogato, fra l'altro, l'articolo 12 del codice civile ed ha introdotto una sorta di automatismo nel riconoscimento della personalità giuridica, in forza del quale la domanda dell'ente si intende accolta allo scadere del termine di quattro mesi dalla sua presentazione, salva restando la verifica prefettizia della sussistenza dei requisiti di legge. Invece per il riconoscimento civile degli enti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni che hanno stipulato intese con lo Stato è previsto tuttora, nella vigente legislazione bilaterale, l'intervento del ministro dell'Interno (con possibilità di richiedere il previo parere del Consiglio di Stato) e la specifica verifica del requisito del fine di religione o di culto o di requisiti ulteriori richiesti per le singole categorie di enti. Ne deriva che l'attuale formulazione dell'articolo 24 della proposta di legge in esame comporterebbe il paradossale effetto di prevedere per gli enti delle confessioni che non hanno stipulato accordi o intese con lo Stato un regime più favorevole rispetto a quello stabilito per gli enti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni con intesa.
Riguardo alla formulazione dell'articolo 25, particolarmente stringata, è certamente da auspicare che non venga meno, a livello tributario, la nobile tradizione di favore dello Stato italiano verso le attività di religione o di culto.
Nell'articolo 30 sarebbe opportuno, alla luce delle considerazioni svolte, sostituire la formula «prima di avviare le procedure di intesa» con l'espressione «ove ritenga di avviare», così come correttamente previsto nel testo del 1990.
In merito all'individuazione del Consiglio di Stato quale organo chiamato ad esprimere parere circa la riconoscibilità della personalità civile alla confessione religiosa o al rispettivo ente esponenziale riteniamo di dover esprimere una valutazione positiva: rispetto alla commissione governativa, di cui all'articolo 32 della proposta di legge, il Consiglio di Stato presenta infatti un più sicuro carattere di terzietà, può contare su una valida tradizione giurisprudenziale, costituisce un'alta istanza di garanzia e di imparzialità: e ciò è importante, perché gli aspetti tecnici sono da raccogliere ed illustrare nell'istruttoria, mentre il parere deve investire soprattutto i profili giuridicamente qualificanti la natura e l'attività dell'ente richiedente.
Alcune disposizioni della proposta di legge (ad esempio quella dell'articolo 22, comma 1, circa le «intese» tra le confessioni interessate e le autorità competenti per la definizione concreta di interventi relativi ad edifici religiosi) porranno il problema della loro estensibilità, onde evitare diversità di trattamento in peius, alle confessioni religiose che operano in regime di concordato o di Intesa. Ben a ragione la proposta di legge intende far salve tali espressioni della bilateralità pattizia (si confronti l'articolo 41, comma 1); però lo Stato dovrà disporsi a rivisitare, in dialogo con le confessioni
interessate, alcuni degli aspetti richiamati proprio per evitare conseguenze improprie e certamente non volute.
ELENA MONTECCHI. Sull'articolo 24 ritengo giuste le sue considerazioni; volevo sapere se avesse ipotizzato un elemento di chiarezza affinché non ci siano favori per coloro che non hanno stipulato intese.
GIUSEPPE BETORI, Segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Attualmente, la Chiesa cattolica e anche altre religioni che hanno stipulato intese pensano che verranno trattati in modo peggiorativo rispetto a quanto la proposta di legge in esame prevede verso le altre confessioni.
VENERANDO MARANO, Direttore dell'Osservatorio giuridico della Conferenza episcopale italiana. Credo che su tale questione, come su altri punti della proposta di legge, occorra tener conto della collocazione in cui si sviluppa il testo in esame e della evoluzione normativa ordinamentale complessiva intervenuta nel decennio in corso, che ci separa dal primo progetto normativo e che funge da parametro di riferimento.
L'evoluzione ordinamentale complessiva sia in materia di persone giuridiche, richiamata dall'articolo 24 della proposta di legge, sia sotto altri profili potrebbe ingenerare il rischio - che a noi premerebbe evitare - che una legislazione, originariamente ideata in funzione di «chiusura del sistema», da un lato sortisse effetti opposti, e dall'altro, sebbene pensata per estendere principi di uguaglianza e di libertà anche a confessioni diverse da quella cattolica e da quelle con l'intesa, ancora volta, paradossalmente, avesse il risultato per tali confessioni e per i loro enti esponenziali di un trattamento di favore rispetto alla confessione cattolica ed a quelle che hanno stipulato le intese durante il quinquennio 1984 - 1989, un
periodo che giustificava in via bilaterale alcune previsioni; oggi, l'evoluzione complessiva impone un coordinamento per evitare tali paradossi, brevemente accennati.
PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti della Conferenza episcopale italiana e dichiaro conclusa l'audizione.
Audizione del professore Giuseppe Ferrari, segretario nazionale del Gruppo di ricerca ed informazione socio - religiosa.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la libertà religiosa, l'audizione del professore Giuseppe Ferrari, segretario nazionale della Ggruppo di ricerca ed informazione socio-religiosa.
Do ora la parola al professore Giuseppe Ferrari, che ringrazio per avere aderito al nostro invito.
GIUSEPPE FERRARI, Segretario nazionale della Gruppo di ricerca ed informazione socio-religiosa. Il problema della regolamentazione della libertà di religione è indubbiamente assai delicato perché si entra in un settore dell'esperienza umana nel quale uno Stato non confessionale dovrebbe muoversi con estrema prudenza e tatto, riconoscendo, proprio per la sua aconfessionalità, un'incompetenza di fondo unita a una volontà di non ingerenza in questioni che attengono la sfera più intima e privata del singolo cittadino.
Le diverse concezioni di libertà affermatesi nel corso dei secoli, assieme ai compiti ineludibili dello Stato relativi alla tutela delle libertà della persona umana, fanno capire come può essere complesso e delicato legiferare in questo settore e ancor più in quello particolare della libertà di religione.
Cercherò di portare brevemente l'attenzione su alcune questioni che si pongono generalmente le persone interessate alla comprensione dello sviluppo religioso contemporaneo, che vede la presenza di aggregazioni religiose storiche e tradizionali, di movimenti religiosi di una certa consistenza e con una storia più o meno consolidata, assieme ad un florilegio di sigle e denominazioni di varia origine e ispirazione che nascono, si diffondono ed a volte muoiono con sorprendente rapidità. Ad esempio in Italia sono presenti diverse centinaia di tali aggregazioni, alcune desiderano presentarsi come religiose pur non avendone le piene caratteristiche, altre invece pur possedendole non intendono farlo.
Potete sicuramente ricavare informazioni utili dall'elenco predisposto da me personalmente circa quattro anni fa, che ho consegnato alla Commissione. Possiamo dire che oggi ormai il numero di aggregazioni di presenti sul nostro territorio sicuramente è tale da superare il triplo di quelle indicate nel elenco allegato (forse addirittura arrivando al quadruplo delle stesse).
Le questioni a cui intendo fare riferimento sono costituite in primo luogo dalla certezza che sia rispettato il diritto alla libertà religiosa tanto delle cosiddette confessioni religiose di maggioranza quanto delle minoranze religiose e che al contempo sia tutelata intra et extra la fondamentale libertà di religione e di coscienza delle singole persone che a queste confessioni aderiscono o fanno riferimento. Altro elemento è rappresentato dalla determinazione di criteri per identificare quando una aggregazione può definirsi effettivamente religiosa e permettere a una aggregazione di essere riconosciuta giuridicamente come confessione religiosa e/o di firmare intese con lo Stato. È altrettanto necessario valutare la possibilità che alcune aggregazioni che si presentano come religiose, e che
occultamente compiono attività illecite e non rispettose della libertà e della dignità della persona umana, cerchino di ottenere agevolazioni di diverso genere o riconoscimenti giuridici per operare al riparo della libertà religiosa e sfruttare le opportunità che possono essere loro concesse dalla legge. Sembra infine opportuno togliere i riconoscimenti giuridici a quelle organizzazioni religiose dedite palesemente od occultamente ad attività illecite o criminali.
Uno dei primi appunti che ritengo debbano essere fatti ai progetti di legge in esame è quello che andrebbe determinata il più esattamente possibile la materia che intendono regolare. Se l'esperienza religiosa ha aspetti aperti al trascendente, sui quali lo Stato non può intervenire e nulla può dire, ha altresì un coinvolgimento nelle realtà temporali che non può non interessare e interpellare lo Stato.
Il testo presentato dal Governo, che è quello che ho avuto modo di guardare con più attenzione e al quale desidero pertanto fare riferimento, mi pare presenti un articolato piuttosto lacunoso se non inconsistente sulla definizione di confessione religiosa. Credo che prima o poi bisognerà domandarsi quali criteri dovrà seguire il Consiglio di Stato per formulare il proprio parere sul carattere confessionale di un'aggregazione che si definisce religiosa (articolo 18 del disegno di legge C. 2531) e il Consiglio dei ministri per deliberare sulla personalità giuridica di una confessione religiosa o ente esponenziale che la rappresenta (articolo 16), o il Presidente del Consiglio dei ministri e la Commissione di studio da lui istituita per avviare le procedure d'intesa e il Consiglio dei ministri per deliberare sulla stessa (articoli da 28 a 34 dell'A.C. 2531).
Per cercare di rispondere almeno parzialmente a questi quesiti partirò da alcune considerazioni temlinologiche. Cercherò
anzitutto di analizzare a cosa si può far riferimento con il termine religione. Il vocabolo, in latino religio, è di etimologia incerta; ad esempio Cicerone lo riteneva derivato da relego (relegere, ovvero rileggere, ripercorrere), intendendo con ciò una rilettura degli atti cultuali per apprenderli meticolosamente e compierli con sempre maggiore accuratezza e diligenza; comunque l'etimologia che si è maggiormente imposta è quella che lo fa derivare da religo (religare cioè legare) designando con ciò il vincolo che lega l'uomo a Dio o al divino. Che sia Dio colui al quale dobbiamo principalmente legarci come principio perenne e al quale dobbiamo rivolgere la nostra scelta come fine ultimo, è affermato anche da San Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae quando affronta il significato del termine religio.
Tutto questo, che è certamente riconosciuto dalle religioni monoteistiche storico-profetiche, non può essere applicato facilmente alle religioni immanentistiche per le quali però possiamo rifarci alla stessa etimologia di religio designando con essa la relazione o il legame che intercorre tra l'umano e il divino.
In senso più generale si può dire che la religione è quell'insieme di credenze che esprimono la relazione di aggregazioni sociali con Dio, il sacro, il divino, il soprannaturale, il trascendente, verso cui la persona umana tende, per liberarsi dai vincoli imposti dalla sua natura e realizzarsi pienamente; nonché un insieme di riti, atti, pratiche cultuali e norme comportamentali dirette a ottenere questa liberazione e realizzazione.
In termini ancora più sintetici potremmo dire che la religione è quel qualcosa che reca in sé, l'eco di millenni di ricerca di Dio o del divino e che porta gli uomini a tenere, per così dire, le braccia tese verso il cielo.
Altri termini che sarebbe opportuno analizzare sono quelli di culto, fede e confessione, perché possono entrare all'interno di un articolato di legge. Senza addentrarsi in un'analisi approfondita di tali termini, è possibile dire che essi indicano solo alcuni aspetti della realtà che dovrebbero descrivere, pertanto non è del tutto accurato utilizzarli per indicare pienamente il tipo di una determinata aggregazione religiosa; infatti si può con chiarezza parlare di culto, o di fede, o di confessione o proclamazione del credo di una particolare aggregazione, ma non è del tutto corretto e inequivocabile affermare che una aggregazione è un culto, una fede, o una confessione.
È bene altresì notare che i termini culto e confessione sono prevalentemente usati in campo giuridico perché, anche se non identificano con pienezza la realtà a cui intendono fare riferimento, hanno il vantaggio di essere piuttosto neutri e generici.
È opportuno però aggiungere che il termine culto, che è abbastanza usato nel mondo anglosassone, ha colà assunto delle connotazioni negative e quando viene applicato a certe realtà religiose si intende perlopiù esprimere un giudizio di valore non positivo nei confronti delle stesse.
Il termine confessione, invece, può avere una sua validità intrinseca se lo si utilizza per indicare un insieme sistematico e organico di credenze espresso da un'unica entità religiosa; in tal caso individuerebbe con precisione l'entità religiosa in questione. Ad esempio è possibile considerare confessioni religiose la Chiesa evangelica luterana in Italia, o l'Unione delle Chiese evangeliche battiste in Italia, ma non la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (FCEI) (alla quale i due enti suddetti aderiscono), o il World Council of Churches (WCC), perché a questi ultimi sono iscritte aggregazioni che hanno
dottrine e prassi ben diverse tra loro. Oppure possono essere considerate confessioni religiose l'associazione Santacittarama, o l'Istituto Lama Tzong Kapa, o l'Istituto Zen Soto Shobozan Fudenji, ma non 1'Unione buddhista italiana (UBI), che è un ente che riunisce e rappresenta vari centri, istituti e associazioni (tra cui le tre aggregazioni summenzionate) che si rifanno a tradizioni religiose alquanto diverse tra loro, anche se tutte riconducibili al buddhismo. La FCEI e il WCC, non essendo di fatto confessioni religiose, non hanno chiesto né riconoscimenti giuridici né la firma di intese con lo Stato italiano, mentre l'UBI l'ha fatto. In questo caso ci troviamo di fronte alla firma di un'intesa con un ente che, a rigor di termini, così com'è configurato, non può essere definito confessione religiosa, ma rappresentante di confessioni religiose diverse.
Siccome l'articolo 8 della Costituzione in merito alle confessioni religiose dispone che «I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze», si tratta di valutare se tali rappresentanze possono essere individuate anche in un ente diverso da quello che identifica effettivamente la particolare confessione religiosa; se così non fosse, firmando tale intesa, si andrebbe contro il dettato costituzionale. Se ad esempio la FCEI chiedesse oggi di stipulare un'intesa con lo Stato e lo Stato accettasse, come ha fatto con l'UBI, ci troveremmo di fronte alla situazione anomala rappresentata da alcuni enti che avrebbero un'intesa già stipulata in quanto confessioni religiose e un'altra stipulata da un ente diverso a cui aderiscono e che li rappresenta. Se passasse questa prassi, allora per estensione non si vede perché enti religiosi che si riconoscono in confessioni religiose particolari, o sono una loro emanazione, non possano poi chiedere la stipula di intese con lo
Stato. Credo che queste considerazioni possano far capire che forse la tendenza a firmare accordi bilaterali come le intese, che negli ultimi anni si è particolarmente sviluppata, andrebbe rivista, altrimenti lo Stato potrebbe trovarsi di fronte alla richiesta di firma di centinaia, se non migliaia, di intese. E non credo che la strada da percorrere sia quella di firmarla solo con alcuni enti esponenziali che riuniscono confessioni religiose diverse, ma che proprio per questo non sono confessioni religiose.
Considerando i disegni di legge in questione e partendo dai presupposti introdotti nell'analisi del termine religione, possiamo affermare che non è principalmente ed esclusivamente al concetto di religione che gli stessi debbano fare riferimento, quanto piuttosto a quello di aggregazione o istituzione o confessione religiosa, in quanto saranno queste ultime a chiedere il riconoscimento della personalità giuridica e la firma di intese. Le religioni infatti sono una cosa, altra sono le aggregazioni che in qualche modo in esse si riconoscono. Abbiamo ad esempio il cristianesimo con i suoi diversi filoni, e le varie chiese, comunità ecclesiali, movimenti e sette che in esso si riconoscono; abbiamo il buddismo con le sue diverse tradizioni, istituzioni, movimenti e sette, eccetera. Quando nella Costituzione si parla di confessioni religiose non è alle religioni, ma alle aggregazioni o istituzioni religiose che viene fatto riferimento; non può infatti lo Stato firmare intese con il buddismo, il cristianesimo, l'ebraismo, l'induismo, l'islam, ma solo con enti ben definiti. Ma il vero punto focale o di convergenza della res controversa lo raggiungiamo quando affermiamo che è veramente complesso definire criteri che permettano di individuare la natura religiosa di una aggregazione e la sua non problematicità o non pericolosità sociale. Infatti è soltanto con istituzioni che abbiano chiare caratteristiche
e finalità religiose, che non creino pericoli per la società e rispettino i diritti della persona e la sua libertà e dignità, che lo Stato può firmare accordi bilaterali come le intese. D'altronde la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo all'articolo 29, secondo comma, afferma: «Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento ed il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica».
Alla luce delle premesse svolte penso che la strada da percorrere sia quella di stabilire precisi criteri per determinare con chiarezza la natura e i fini di religione e di culto delle singole aggregazioni, conoscere le loro radici storiche e valutarne il radicamento sul territorio, valutare la loro effettiva consistenza numerica e diffusione sul territorio nazionale, stabilire se il loro statuto e la loro prassi consolidata non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano e i diritti inviolabili dell'uomo, conoscere con precisione la loro organizzazione e il funzionamento degli organi direttivi, di rappresentanza e amministrativi.
Stabiliti tali criteri, si potrà, in base agli stessi, procedere ai riconoscimenti giuridici o all'eventuale stipula di intese. Purtroppo come è ora formulato il disegno di legge, sembra quasi che 1'unico criterio accettato sia l'autoreferenzialità della confessione religiosa stessa. Sarebbe anche opportuno che il Consiglio di Stato, prima di esprimere il parere anche sul carattere confessionale di un ente (si confrontino gli articoli 16, 18, 29 del disegno di legge n. 2531), consultasse una commissione creata appositamente con il compito di raccogliere
e analizzare tutti gli elementi utili per valutare la rispondenza della confessione religiosa ai criteri stabiliti.
Desidero ora fare un esempio per spiegare concretamente come l'attuale disegno di legge C. 2531, non offrendo sufficienti garanzie relative alla individuazione della natura e delle finalità religiose di un'aggregazione, non arrivi a tutelare le giuste esigenze dell'ordine pubblico e del benessere sociale come richiesto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, prima citata. Al riguardo prenderò in considerazione il caso dell'atto terroristico della setta Aum Shinrikyo i cui membri viaggiavano in varie parti del mondo, Africa, Isole del Pacifico, America, per collezionare spore, batteri, virus. Il 20 marzo 1995 alcuni adepti dell'Aum Shinrikyo, fondata da Shoko Asahara (Matsumoto Chizuo), sprigionarono del gas nervino sarin nella metropolitana di Tokyo provocando l'intossicazione di oltre 5500 persone e la morte di 12 di esse. Questo atto terroristico, di una organizzazione che si presentava come religiosa e aveva ottenuto nel 1989 dall'amministrazione centrale di Tokyo il riconoscimento come ente religioso, dovrebbe far riflettere. Infatti, l'aggregazione religiosa Aum Shinrikyo prima della strage della metropolitana di Tokyo aveva, non solo fondato un partito politico, ma anche tentato, senza farsi scoprire, attacchi biologici ancor più micidiali di quelli fatti col gas sarin successivamente usato. Attraverso laboratori universitari e centri di ricerca, membri della setta avevano rubato, o ottenuto sotto false generalità e pretesti, o ordinato per corrispondenza, colture di spore e microrganismi letali, da tenere, coltivare e riprodurre in grande quantità, in cisterne e laboratori costruiti in Giappone, producendo in tal modo armi biologiche in grado di sterminare intere città. Tentarono anche attacchi, per fortuna falliti,
a basi americane in Giappone o per le strade di Tokyo cercando di diffondere germi a volte contenuti in bombolette spray.
Un'interessante analisi di questi fatti è stata quella compiuta dal professor Kanai Shinji, docente di fenomenologia religiosa all'Università Statale di Tokyo, che è arrivato a parlare di bubble religion (religione a bolla di sapone) in analogia con la bubble economy che poteva mettere in seria crisi l'impero finanziario nipponico. L 'elemento comune delle due bolle, quella religiosa e quella economica, era di concentrare l'attenzione e l'impegno sulla quantità e non sulla qualità, creando una «illusione di sostanza» e il vuoto come realtà. Responsabile di quest'illusione e di questo vuoto è primariamente la società, che accettando in modo acritico, e per alcuni versi accondiscendente, proposte che non hanno a fondamento l'autentica aspirazione al bene comune, diviene causa del sorgere di anomalie sociali come la nascita di organizzazione di stampo terroristico, che operano sotto copertura religiosa, alimentate dal fanatismo religioso.
Il pericolo principale che può correre la società è probabilmente quello di assistere indifferente alla proliferazione di aggregazioni che, cercando subdolamente di operare al riparo del diritto alla libertà di religione e di coscienza, in realtà giungono a non rispettare la dignità delle persone che ad esse aderiscono ed i loro fondamentali diritti, come pure quelli dei loro familiari e degli altri cittadini più in generale.
Perché fatti criminosi come quelli sopra elencati non accadano, sarebbe opportuno che le persone, quando si accostano agli aspetti trascendenti della vita, fossero consapevoli del fatto che non è razionalmente giustificabile ritenere che qualunque credenza e prassi, purché mostri una parvenza di religiosità, abbia una sua validità intrinseca e sia accettabile
quanto un'altra. Un qualunque Stato, che rispetta la libertà religiosa, deve astenersi dall'assumere misure basate su giudizi di valore riguardanti le diverse credenze religiose (richiamo al riguardo la raccomandazione del 22 giugno 1999, n. 1412, del Consiglio d'Europa); al contempo lo Stato però deve essere consapevole che a compiere atti terroristici e ad uccidere sono persone che traggono convinzioni e forza da idee e prassi assunte all'interno di determinate organizzazioni, o, nel caso di atti criminali compiuti da individui isolati, dalla loro precedente frequentazione di ambienti specifici o dall'assimilazione autonoma di contenuti di diversa provenienza. Pertanto ad uccidere, prima delle persone, si può dire che siano le idee. Ciò può far capire che se da un lato è inopportuno legiferare sulle varie credenze religiose, dall'altro è opportuna una conoscenza accurata delle stesse ed una vigilanza degli organi preposti alla sicurezza dello Stato e al mantenimento dell'ordine pubblico, su eventuali organizzazioni che introducono prassi discutibili ispirate e alimentate da credenze particolari.
Ma quello che mi preme evidenziare è che la presenza in Italia di centinaia di aggregazioni diverse connotate da elementi religiosi o spirituali - penso che non sia irreale ritenere che in tempi non lunghi si possano superare le mille unità - debba far riflettere lo Stato sull'opportunità di continuare a stipulare intese; infatti si correrebbe seriamente il rischio di fare accordi con organizzazioni equivoche. L 'amministrazione di Tokyo aveva sì riconosciuto la natura religiosa dell'Aum Shinrikyo, ma perlomeno non mi risulta avesse fatto accordi con la stessa. In ogni caso il Governo giapponese, dopo l'attentato, inoltrò al governatore di Tokyo la richiesta di ritirarle il riconoscimento di ente religioso.
Veniamo ora alla nostra realtà con un ulteriore esempio e cioè il modo d'agire difforme di due organi costituzionali dello Stato nei confronti dei testimoni di Geova e dell'ente che li rappresenta. Da una parte il Consiglio di Stato, nella sua sezione prima, il 2 maggio del 1986 con ordinanza n.785, sospendeva di esprimere il parere sul riconoscimento della personalità giuridica al suddetto ente; neanche tre mesi dopo, il 30 luglio 1986, lo stesso Consiglio dava via libera al riconoscimento della personalità giuridica della congregazione cristiana dei testimoni di Geova. Da un'altra parte, invece, il Consiglio superiore della magistratura, il 17 novembre del 1994 rigettava l'istanza di un testimone di Geova che voleva partecipare al concorso di uditore giudiziario, in quanto come testimone di Geova non dava sufficienti garanzie relativamente al rispetto dell'ordinamento giuridico italiano. Il fatto che due organi costituzionali dello Stato abbiano percepito in modo diverso il rapporto dello stesso ente con l'ordinamento giuridico italiano, la dice lunga sulle difficoltà a cui si andrebbe incontro quando gli enti da valutare diventassero centinaia.
Penso pertanto che una buona legge sulla libertà di religione sia più che sufficiente per garantire il necessario pluralismo religioso e tutelare i diritti di tutte le realtà autenticamente religiose, sia maggioritarie sia minoritarie. Credo che per vari motivi, ma principalmente per tutelare lo Stato e con esso tutti i cittadini, vada accantonata la possibilità di stipulare intese, anche se prevista dalla Costituzione italiana; peraltro, al momento della stesura della Carta costituzione, non era possibile prevedere l'attuale sorgere di un così ampio florilegio di sigle e denominazioni più o meno religiose.
I progetti di legge C. 1576, C. 1902 e C. 2531 introducono negli articoli 2, 3, 4, il concetto di credenza equiparandolo implicitamente a quello di religione o di fede religiosa. Posto
che, come affermavo in precedenza, le credenze hanno una notevole importanza nell'influire sul comportamento sociale delle persone e non sono tutte di pari valore e pienamente accettabili e condivisibili, in altre parole non hanno tutte la stessa dignità, non si vede perché, se i progetti di legge devono regolamentare la libertà religiosa, debbano introdurre il concetto così generico di libertà di credenza che, oltre ad essere ampiamente tutelato da varie convenzioni internazionali, ha un'estensione molto più ampia rispetto al campo meramente religioso. Le credenze possono essere di vario genere e non necessariamente religiose. Il concetto di religione e di fede religiosa è inclusivo del concetto di credenza religiosa pertanto è ridondante introdurre quest'ultimo nella proposta di legge; anzi potrebbe essere fuorviante in quanto potrebbe dar adito ad interpretazioni di equiparazione tra religione e credenza.
Non è concepibile far entrare nel concetto di religione, e pertanto anche nell'articolato di legge attraverso 1'uso del termine credenza, tutta quella realtà sociale che ruota attorno alle diverse credenze tra cui quelle atee e agnostiche, perché, se la legge deve regolamentare la libertà di religione, non può regolamentare al contempo la libertà di non credere alle idee religiose; non può neppure regolamentare la libertà di esprimere il proprio pensiero nei campi più disparati introdotti dalle diverse credenze filosofiche, politiche, e così via. Infatti non si configurerebbe più come proposta di legge sulla libertà religiosa, ma sulla libertà in generale.
Per quanto riguarda poi gli atei e gli agnostici, essi lo sono generalmente in modo individuale e non sono ovviamente inseriti in aggregazioni religiose confessionali, o con fini di fede religiosa, o di culto. In altre parole l'ateismo e l'agnosticismo non sono credenze di tipo religioso, ma facenti riferimento alla sfera religiosa con 1'intendimento di contestare,
da due diversi punti di vista, la validità della visione religiosa dell'uomo e del mondo. Non è pertanto seriamente pensabile che una proposta di legge che intende regolamentare la libertà di religione in Italia, regolamenti anche la libertà di non religione o di non condivisione della religione.
GIAN FRANCO ANEDDA. I testimoni di Geova non accettano le trasfusioni per sé e per i loro figli: come possono conciliarsi, allora, tali convinzioni e precetti interni di una confessione religiosa con la dizione dell'articolo 8, comma 2, della Costituzione, laddove si sostiene che gli statuti non debbono contrastare con l'ordinamento giuridico italiano? Sostanzialmente, opporsi a trattamenti medici sul proprio corpo (si pensi appunto al caso delle trasfusioni) o su quello di altre persone di cui si ha tutela, permettendo talvolta lo svolgimento di pratiche contrastanti con l'ordinamento giuridico italiano, significa porre un grande problema al legislatore interno: come può e deve essere risolto, secondo la sua opinione, nell'ambito della libertà religiosa?
LUCIANO DUSSIN. Concordo appieno con quanto sostenuto appena adesso dall'onorevole Anedda, aggiungo inoltre che l'Islam è lontano anni luce dal riconoscimento della parità tra uomo e donna e anche questo stride non solo con la nostra legislazione ma con i diritti internazionali dell'uomo. Vi è dunque una palese assoluta incompatibilità con il nostro e con l'ordinamento internazionale che deve essere valutata molto attentamente dal legislatore interno. Chiudo il mio brevissimo intervento ringraziando il professor Ferrari perché, al di là di enunciazione di principi e diritti di sorta, abbiamo avuto la fortuna di sentire da parte sua anche considerazioni inerenti alle possibili ricadute di talune eventuali concessioni sui cittadini italiani.
GIUSEPPE FERRARI, Segretario nazionale della Gruppo di ricerche e informazioni socio-religiosa. Per quanto riguarda la prima questione postami, circa due anni fa venni ascoltato da questa Commissione - la mia audizione fu depositata agli atti -, ed espressi già allora pareri e dubbi sulla opportunità di arrivare a firmare l'intesa con la congregazione cristiana dei testimoni di Geova.
Oggi, ovviamente, ho espresso dubbi sull'opportunità di continuare a firmare intese così liberamente senza valutare a fondo i rischi che si possono correre, mettendo anche in evidenza che in certi casi, in rapporto a determinati enti, esse potrebbero essere discutibili dal punto di vista costituzionale.
È stato citato l'articolo 8 della Costituzione ma, a mio parere, anche il testo dell'articolo 32 deve essere richiamato, nella parte in cui si fa riferimento alla doverosità dei trattamenti sanitari e della tutela - da parte dello Stato - della salute del cittadino.
Detto questo, non credo che lo Stato italiano possa arrivare a firmare l'intesa con la congregazione cristiana dei testimoni di Genova, finché questa non muti determinate prassi al suo interno. L'intesa, lo ricordavo prima, è un accordo bilaterale. Non può dunque lo Stato stipulare degli accordi con un'organizzazione che non rispetta pienamente i diritti delle persone che ad essa aderiscono. Questo è il vero problema. Quando la suddetta organizzazione dimostrerà effettivamente - e non con stratagemmi vari - di osservare tali diritti, sarà rimosso l'ostacolo all'eventuale firma di intese. Resta comunque fermo tutto ciò che ho sostenuto prima in merito alla non opportunità di continuare a firmare tali intese, elaborando piuttosto un articolato di legge che tuteli la libertà delle singole realtà religiose, impedendo allo Stato di impantanarsi in accordi bilaterali che potrebbero essere veramente negativi per lo stesso.
Quanto affermato adesso ritengo sia valido anche per il problema islamico. Dell'Islam credo poi parlerà ampiamente il professor Cardini nel corso della audizione successiva. A proposito di tale questione, intendo anche fare riferimento ad un altro problema, quello della rappresentatività, che io ho già preso in esame nella mia relazione facendo riferimento ad organismi come l'Unione buddhista italiana e la Federazione delle chiese evangeliche in Italia: una è ben consapevole di non essere culto o confessione religiosa e come tale non ha chiesto la firma di intese, l'altra si presenta come confessioni religiosa pur non avendone le caratteristiche.
Occorre andare a fondo del problema, rispetto al quale si palesano dubbi di compatibilità con il dettato costituzionale. Lo stesso vale per i musulmani e, per tutte le organizzazioni che arrivano a rappresentarli. O si firmano, dunque, intese con le singole confessioni - ma lo Stato si troverebbe dinanzi a migliaia di richieste - o lo si fa con enti esponenziali i quali però non costituiscono, come sottolineavo poc'anzi, confessioni religiose. Questo è il problema che io ho posto principalmente oggi.
PRESIDENTE. La ringrazio, professore. In ogni caso la sua relazione, distribuita ai membri di questa Commissione, come gli allegati di cui ha voluto fare omaggio, costituirà utile strumento di documentazione. La ringrazio ancora per il suo intervento. Dichiaro conclusa l'audizione.
Audizione di Franco Cardini, professore ordinario di Storia medievale presso la facoltà di Lettere dell'Università di Firenze.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la libertà
religiosa, l'audizione di Franco Cardini, professore ordinario di Storia medievale presso la facoltà di Lettere dell'Università di Firenze, che ringraziamo a nome mio e dei membri di tutta la Commissione. Do immediatamente la parola al professore per l'esposizione della sua relazione.
FRANCO CARDINI, Professore ordinario di Storia medievale presso la facoltà di Lettere dell'Università di Firenze. Vi ringrazio per l'onore e la fiducia accordatami. Come loro sanno non sono ciò che si può definire uno specialista né di questioni giuridiche, evidentemente, né di questioni religiose. Quanto posso dire loro riguarda e riguarderà in concreto, semmai, il problema storico della definizione di libertà religiosa, soprattutto in rapporto a quella che mi sembra essere la situazione attualmente presente nel paese. Ritengo che il punto sul quale è necessario focalizzare l'attenzione - e non nascondo che questo abbia comportato da parte mia una certa fatica - sia quello della definizione di religione, di gruppo religioso, di Chiesa, in rapporto a definizioni diverse, più insidiose, «scivolose» se mi permettete l'aggettivo, come quella di «setta» o di «conventicola» o la stessa definizione più onnicomprensiva e in apparenza anche più innocua di «gruppo».
Qual è oggi la situazione che può toccare più da vicino la società italiana? Naturalmente accantono per il momento, per trattarne poi brevemente e più nello specifico, tanto la situazione dei musulmani nel nostro paese, di origine non italiana, od europea - che sono ormai divenuti cittadini italiani (dovrebbe trattarsi, se ci si può fidare di questo tipo di statistiche, di circa trentamila unità), quanto quella, secondo me molto interessante e degna di particolare attenzione, degli italiani convertiti all'Islam, fenomeno avente scarse radici nella nostra società (in base ad una rapida consultazione di
associazioni di fedeli musulmani si ricava che tali associazioni - circa 50 - sono caratterizzate da una rada e rara presenza di affiliati). Vi sono associazioni, infatti, i cui i dirigenti rappresentano poco più che se stessi e le loro famiglie.
Mi pare che questa situazione sia particolarmente interessante perché caratterizzata da uno scarso spessore sul piano delle radici familiari. Al riguardo non posso presentare statistiche, che del resto avrebbero bisogno di forze superiori a quelle di uno studioso isolato che metta insieme qualche dato e che badi più alla qualità dei fenomeni piuttosto che alla loro quantità statistica. Tuttavia, mi sono reso conto che in questi casi non si va oltre la seconda generazione. In pratica ci sono circa 10 mila italiani convertiti all'Islam, che sono musulmani in quanto convertiti, la maggior parte in età alquanto giovanile, che al massimo hanno i genitori o uno dei genitori mussulmano. Ciò non vuol dire necessariamente che i genitori abbiano in qualche modo istradato il figlio ad assumere la stessa fede religiosa in un contesto in cui questa fede è di fatto, a mio avviso, destinata certamente a rimanere largamente minoritaria, pur essendo essa ormai la seconda religione presente nel nostro paese, dopo la religione cristiana. Va sottolineato altresì che siamo nell'ordine di una larghissima diastasi tra i cristiani ed i musulmani, anche se è molto difficile quantificare il numero dei cristiani in Italia, come del resto quello dei musulmani. Solo in qualche caso particolare si può quantificare il numero di adepti di una religione; penso, ad esempio, ai buddisti della Soka Gakkai, che sono organizzati ed attenti al loro lato istituzionale, ed alle comunità ebraiche, che sono molte organizzate e costituite, per la maggior parte da persone di condizione elevata e con studi superiori.
Il primo ostacolo che si incontra in una indagine storica è quello della misurazione, in fondo quasi impossibile, della qualità e della intensità dell'impegno religioso, escludendo naturalmente il mondo ebraico, dove questa misurazione è facilmente quantificabile anche comunità per comunità. Non mi sono stupito del fatto che sotto tale punto di vista i cristiani ed i musulmani si somiglino, dal momento che queste religioni sono profondamente correlate fra di loro, ma anche perché i musulmani convertiti sono, in linea di massima, degli ex cristiani. Salvo un piccolo elenco di casi fenomenici mi sono trovato nell'impossibilità di stabilire quale sia il livello della loro apostasia, o conversione. È difficile comprendere la qualità e l'intensità della fede che si è abbandonata. Si tratta, a mio avviso, di un fenomeno che riguarda anche il mondo mussulmano. È estremamente difficile comprendere la qualità, l'intensità e la natura culturale della fede e dell'impegno religioso sia per quanto riguarda le numerosissime comunità cristiane sia per quanto riguarda le più ristrette comunità mussulmane. In altri termini, non vuol dire nulla che in Italia i cattolici siano indicati in numero superiore ai 35 milioni di praticanti, poiché la pratica religiosa è qualificata sulla base della frequenza almeno annuale ad un cerimonia religiosa, senza specificare quale tipo di cerimonia religiosa, perché si potrebbe anche pensare che, statisticamente, alcune diocesi considerano cattolico praticante colui al quale è capitato, almeno una volta, di assistere ad un battesimo o ad un funerale cristiano. Evidentemente è già diversa la pratica di colui il quale per le grandi feste comandate va in chiesa ed assiste alla messa. È estremamente difficile non contare i fedeli, ma strutturarli secondo una qualificazione che li scandisca a diversi livelli di impegno. Premesso ciò, è evidente che altro è il discorso da farsi per tutte le chiese cristiane
presenti nel nostro territorio nazionale (greco-ortodossi e russi-ortodossi) ed altro è il discorso da fare per gli aderenti ad altri gruppi religiosi. La mia personale sensazione è che noi ci troviamo davanti a quello che per i cristiani Pietro Prini ha definito uno «scisma sommerso». Stiamo assistendo all'allargamento del divario tra chi non osa o ritiene non conveniente dichiararsi non appartenente ad alcuna chiesa e che in realtà si comporta come se non avesse fede alcuna. Questo evidentemente, può non interessare il legislatore, preoccupato di fissare le norme sulla libertà religiosa, anche in termini di abrogazione della legislazione dei culti ammessi secondo il dettato della proposta di legge C. 1576, che voi conoscete bene.
A riguardo ho l'impressione che gli spazi che sarebbero da precisare riguardino i gruppi che non sono esplicitamente riconosciuti come gruppi religiosi. Desidero fare un esempio, minimale e minimalistico, ed imbarazzante: quello dei gruppi, delle sette, a carattere satanista, verso cui bisogna domandarsi se ed in che misura possano essere definiti gruppi religiosi. Voglio, intanto, richiamare i parlamentari presenti ad una polemica che ancora i filologi ed i semiologi non hanno esaurito sull'origine etimologica o pseudoetimologica del termine setta, che per un verso deriva dalla termine secto, che significa dividere, precisare nei connotati minoritari rispetto ad un corpo d'origine che resta maggioritario, e per un altro verso sembra derivare da una ibridazione con il verbo saepio, che significa fondamentalmente dividersi, separarsi, ed in quanto tale evidentemente nascondersi; l'etimologia del termine setta pare secondo alcuni studiosi avere a che fare con la etimologia di siepe. Desidero insistere su tale apparente minuzia, perché in realtà la qualifica di setta è attribuita di solito a gruppi caratterizzati dalla loro esiguità numerica e dalla segretezza o riservatezza dei loro riti.
I due connotati citati sono estremamente pericolosi e labili, quando si tratta di esaminarli a livello giuridico. Intanto, l'esiguità numerica sarebbe meglio definirla almeno numericamente; infatti, molte comunità ebraiche, ad esempio, in Italia raggiungono le poche centinaia di persone, come anche le comunità islamiche, che non possono essere definite delle sette per tale fatto, ma neanche per i loro riti, in quanto il loro apparato liturgico - sacramentale e sapienziale - pedagogico è aperto. La pubblicità dei riti di tali gruppi religiosi, come della loro dottrina, è sempre comunque un'apertura articolata e relativa. Infatti, vi sono determinati aspetti teologici e filosofici o mistici che per loro natura non sono propriamente ed esclusivamente aperti; non sono esoterici, ma possono anche essere esoterici iniziatici. Del resto, anche nel cristianesimo la struttura sacramentale è di tipo iniziatico, nel senso che il fedele deve conoscere alcune cose e deve compiere alcuni atti per essere ammesso al passaggio di soglia segnalato dal sacramento. L'ebraismo e l'Islam sono più semplici del cristianesimo, sebbene esistano gruppi protestanti, semplici come i mondi ebraico e musulmano, a cui assomigliano di più per certi versi.
La libertà di culto e quella di espressione sono libertà che devono considerare la possibilità che nei luoghi religiosi vi sia un margine concettuale e pratico che viene sottratto per sua natura ad un controllo trasparente. Un gruppo religioso od un'associazione non possano essere trattati alla stessa stregua di un gruppo che ha qualunque altro fine, economico o culturale, proprio per la specifica natura del fatto religioso e del patto religioso.
Astraggo da un recente studio di Gianni Baget Bozzo il fatto che il cristianesimo si possa considerare una non religione, un azzeramento religioso; tale fatto è unico nella storia delle
religioni, tipologicamente parlando, dell'incontro fra l'umano ed il divino, che è atto diverso da ciò che si conosce nelle varie religioni a struttura immanente e mitica, e diverso anche da ciò che avviene nelle altre due fedi di tipo abramitico. Tuttavia, mi permetterei di fare una distinzione di tipo antropologico religioso, che credo debba essere tenuta presente per ristrutturare la proposta di legge; per quanto possa sembrare un paradosso, che apparentemente definire perentorio, ma che nella pratica è un fatto del tutto ovvio, viviamo in un mondo, parlando dell'ecumene - quasi cinque miliardi persone, la stragrande maggioranza delle quali è coinvolta nella fenomenologia religiosa - in cui circa tre miliardi sono appartenenti a due religioni, divise naturalmente in confessioni, che sono il cristianesimo, con oltre due miliardi di fedeli, e l'Islam, con circa un miliardo e 300 milioni di persone. Poi ci sono gli ebrei che ammontano a circa 40 milioni in tutto il mondo, anch'essi parte di questo pool della fede abramitica, ormai quantitativamente pervasiva rispetto al fenomeno religioso in assoluto nel mondo. Il 60 per cento degli homines et mulieres religiosi sono abramitici, siano essi cristiani, musulmani, od ebrei, per citarli secondo l'ordine di grandezza numerica. Quello che potrebbe costituire un paradosso storico è che oggi il suddetto 60 per cento degli esseri umani, aderisce in realtà ad una religione costituente un'eccezione dal punto di vista della antropologia religiosa. Ritengo che di questo si debba tener conto in tempi come i nostri, in cui in Italia sta galoppando il fenomeno di nuovi culti a carattere addirittura neomitico o neorituale, che il legislatore, a mio avviso, allo stato attuale delle cose, ai sensi di quello che sono riuscito a leggere a capire e ricordare della proposta di legge Spini (C. 1576), avrebbe difficoltà a riconoscere.
L'elemento paradossale è assistere alla creazione di nuove realtà che a livello storico, fenomenologico e anche pubblicistico, immediatamente percepibile, probabilmente nessuno di noi avrebbe difficoltà a qualificare come fenomeni neoreligiosi. Dobbiamo chiederci, allora, se questi siano già maturi - ed in quale misura - per cadere sotto lo sguardo ordinatore del legislatore.
A titolo esemplificativo intendo citare il caso dei gruppi che oggi si richiamano - come succede in qualche centro dell'Italia settentrionale - ad una religiosità neoceltica, vissuta come un lungo survival di una fede per lungo tempo conculcata, praticata a livello nicodemistico, addirittura inconscio e poi esplosa negli ultimi decenni a contatto, per esempio, con certe realtà di carattere politico e culturale. In Toscana, altro esempio, vi sono gruppi minimali - che a mio parere non possiamo ritenere irrilevanti, dovendo tener conto, per fortuna, dei diritti anche dell'ultimo dei singoli - costituiti da dodici persone che si riuniscono a Cortona e che, per il momento agendo ancora in modo non ufficiale, e senza chiedere alcun riconoscimento, dichiarano di rappresentare una mai sopita - in Toscana e nel resto del centro Italia - fede religiosa etrusca.
In questo caso, accantonando probabili ironie, occorre domandarsi se siamo davanti anche ad un fenomeno vissuto in modo ritualmente coinvolgente, ossia interpretabile non solo come revival artificiale, o divertissement culturale, ovvero cascame di forme di indipendentismo o separatismo regionale. In proposito vorrei far riferimento a quel grande fenomeno - che noi non abbiamo ma la Francia conosce - del neocatarismo diffusosi nei paesi del sud della Loira, principalmente in aree di lingua occitana.
Abbiamo assistito - mi permettano di fare un po' di macro storia -, a questo processo: nel XII secolo, il sud della Francia,
che a livello linguistico è fondamentalmente - ripeto - occitano, viene invaso da una religione che si presenta con i connotati di un ritorno alle origini evangeliche, ma che in realtà ha caratteri iniziatici (mi soffermo a sottolineare questo fatto, per il momento scarsamente diffuso in Italia salvo casi eccezionali - qualche neocataro si sta riaffacciando in Piemonte e in Sardegna -, poiché sta rivestendo una certa rilevanza, anche in rapporto a quanto dirò tra breve relativamente al fenomeno del satanismo).
In realtà il catarismo non era un cristianesimo, ma fede a carattere bideistico di origine iranica, perpetrata nei secoli, appoggiandosi alla filosofia gnostica, quindi fondamentalmente di derivazione neoplatonica, che aveva vissuto un grande periodo di rigoglio tra altopiano iranico e anatolico, per poi propagarsi nei Balcani e - per ragioni di cui non intendo tediarvi - diventare pervasiva anche nell'Occidente, non solo nei paesi citati ma anche nella pianura lombarda ed in Toscana, veicolata soprattutto da esponenti del ceto mercantile ma anche dell'aristocrazia feudale. Non è assolutamente una religione di subalterni, in nessun senso; è invece dotata anche di una forte connotazione culturale. In base ad essa, si ritiene che il mondo sia dominato dalla lotta tra due forze antagoniste, una spirituale e l'altra materiale, interpretando la materia come «il male». Secondo tali presupposti, diventa compito dell'uomo, essere razionale che nella sua intimità è spirito, liberarsi dalla materia fino a pervenire a soluzioni non cristiane - nonostante si usi propagandare tale fede attraverso il più mistico dei quattro Vangeli, cioè quello di Giovanni - ma piuttosto manichee (manicheismo che è straordinariamente vicino al buddhismo). Noi conosciamo anche le ragioni. Abbiamo gli elementi testuali che scandiscono questa serie di rapporti tra buddhismo e manicheismo. Ovviamente, gli occidentali
del XII secolo ignoravano tutto questo, eccetto una cosa che non si rivela all'iniziato di primissimo livello ma che viene sempre più chiaramente esplicitata, sino a quando il «perfetto», il veramente liberato alla conoscenza, perviene al punto di arrivo della scala iniziatica: è allora che si entra in possesso di una sconvolgente verità, che ci riguarda da vicino quando ci si incontra con i migliori e più attenti seguaci dei culti satanistici oggi.
In realtà il Dio creatore è colui che ha imprigionato la scintilla dello spirito nella materia, quindi lo Jahvè ebraico è in realtà il demiurgo, si tratterebbe di una figura di carattere demoniaca: il Dio padre è in realtà lo spirito del male che continuamente opera per imprigionare la scintilla dello spirito dentro l'involucro della materia. Il risultato immediatamente sociale di tutto ciò è che bisogna liberarsi della materia, quando si è pronti a farlo, con un suicidio rituale che avviene attraverso il digiuno, e finché non si è pronti a farlo ci si astiene. Le somiglianze con il buddismo sono molto forti e sembra quasi paradossale che questa religio mortis si sia affermata nel momento e negli ambienti di maggior rigoglio della grande forza culturale, economica e sociale del nostro occidente fra XII e XIII secolo. Tutti sappiamo che per eliminare i cosiddetti albigesi (i catari) è stata necessaria una vera e propria crociata con cui i catari sono stati quasi totalmente eliminati. Quelli che sopravvissero hanno vissuto in maniera catacombale e, per quanto ne sappiamo, ad un certo punto si sono estinti. Tuttavia, evidentemente, qualcosa deve essere rimasto, perché nel cinquecento il cristianesimo calvinista conquista quasi tutto il bacino a sud della Loira, uno dei punti caldi della guerra di religione che attraversa in quei secoli la Francia.
Il Calvinismo è, come sapete, sopravvissuto fino ad oggi, tanto che ancora adesso la Chiesa ugonotta è molto forte nella società francese, ma da qualche tempo a sud il calvinismo non basta più e stanno rispuntando neocatari che si ricollegano ad una campagna politica per l'indipendenza del sud della Francia, che, come si sa, appare una battaglia istituzionale molto lontana dall'essere anche solo proposta, perché le istituzioni francesi resistono molto fortemente a questo tipo di assalti che ormai hanno una connotazione religiosa molto precisa. Vi sono dei gruppi di neocatari che ormai raggiungono le varie decine di migliaia di persone, anche se è sempre difficile fare statistiche in casi del genere, perché siamo di fronte a gruppi che si riuniscono molto spesso su una labile base istituzionale e su un carattere di forte volontariato, sono fedeli che restano tali per un certo periodo per poi magari cambiare, anche con una certa disinvoltura, gruppo.
Si tratta di un fenomeno che mi risulta il legislatore francese segua con grande rigore e con un taglio che io non auspicherei fosse seguito dal legislatore italiano, poiché si tratta di un taglio abbastanza repressivo, al punto tale che i neocatari oggi vengono tollerati come gruppo culturale ma non sono riconosciuti come entità religiose. In Italia stanno cominciando a sorgere microfenomeni di questo tipo, ma questo tipo di gruppo come deve essere trattato dal legislatore? Evidentemente il carattere settario, inteso nel senso della chiusura del gruppo al suo interno e della parziale difficoltà ad accedere all'interno di questi gruppi, unita alla parziale segretezza del loro carattere rituale, li rende necessariamente passibili della denominazione di setta. Il caso è molto evidente quando ci si confronta con i vari gruppi satanisti, perché nel caso di questi gruppi - mi rifaccio a lavori recenti del compianto Alfonso Maria di Nola oppure a quelli di Cecilia
Gatto Trocchia - il loro carattere è volontariamente segreto, anche se alcuni di essi cercano di emergere alla luce del sole e di presentarsi come Chiesa gnostica.
Abbiamo appurato che vi sono in Italia alcune migliaia di persone che con un passabile grado di elaborazione intellettuale ritengono che il Dio di Israele, che è anche il Dio dei cristiani e dei musulmani, sia in realtà un demiurgo signore della materia e che vi sia una forza angelica che ha smascherato il demiurgo proponendo una nuova via filosofico-religiosa, fondata sulla liberazione dalla superstizione secondo cui il demiurgo sarebbe il vero e unico signore dell'universo. Una fede che evidentemente si fonda sulla negazione e sulla damnatio nominis di ciò che la maggior parte dei cittadini italiani ritengono essere il solo Dio onnipotente, creatore di tutte le cose e infinitamente buono e giusto - elementi comuni a tutte le religioni abramitiche, anche se si discute intorno al concetto di paternità di Dio cristiano, non condiviso dagli ebrei e ritenuto teologicamente aberrante dai musulmani - ove si presenti con connotati che siano sicuramente rispettosi delle leggi, è ammissibile come gruppo religioso oppure è da considerarsi una setta che non può beneficiare della libertà religiosa riconosciuta?
In altri termini: una visione di tale genere è da considerarsi religiosa? Probabilmente, a livello antropologico sì, ma dal punto di vista storico tale analisi può essere evidentemente contestata.
L'eccezione abramitica, antropologicamente minoritaria, ma storicamente diventata pervasiva in tutto il mondo, è un dato su cui è necessario riflettere attentamente: in quasi tutte le religioni, a livello fenomenologico, gli atti religiosi non sono del tutto connaturati all'uomo, però direi che almeno dalle manifestazioni dell'età della pietra lavorata si registrano i
primi fenomeni che possiamo definire di tipo religioso. Quando ci troviamo in presenza di culti funebri, di rispetto e di recinzione dell'essere umano che ha cessato di vivere, ordinariamente, cominciamo a parlare della presenza di un dato religioso.
La nostra percezione del fenomeno religioso si accompagna fondamentalmente alla percezione dei culti che si innescano sul fenomeno della morte; poi, i culti che si innescano sulla morte possono anche prendere in considerazione i diversi modi di morire: il morire in battaglia, per un incidente, di malattia, di vecchiaia e, quindi, di morte naturale. Ma badate, antropologicamente parlando è proprio il concetto di morte naturale che è scivoloso, perché, per quel che sappiamo, nelle culture tradizionali la morte naturale non esiste. La morte in quanto tale è sempre percepita come un fatto innaturale, cioè come l'esito di un errore o di una colpa, che possono anche essere puramente rituali. Uso tali termini perché evidentemente evito di parlare volontariamente di peccato, che già mi porterebbe su di un ambito diverso.
Nella grande maggioranza dei culti religiosi siamo di fronte ad un fatto religioso che consta dell'immanenza e della struttura mitica. L'immanenza significa che il divino è colto come omogeneo al cosmo o alla natura, il sacro è assolutamente diverso all'uomo ed inerente al cosmo, vivente insieme alla natura, da cui la identificazione delle divinità con le forze naturali o cosmiche; gli avvenimenti che traducono in termini storici il divenire della fenomenologia del divino sono, invece, mitici, cioè racconti che hanno in generale un carattere antropomorfico, anche quando dietro al racconto c'è l'esposizione del contrasto di forze naturali, o l'avvicendarsi delle stagioni, o delle vicende del tempo meteorico, oppure alcuni fenomeni tellurici o marini; tuttavia, ciò che ho descritto non
avviene e non si distende nel tempo storico, bensì in quello mitico, che è a se stesso proprio. In altri termini, Zeus si innamora di Danae e feconda sotto forma di pioggia d'oro; noi conosciamo, grazie a Pausania ed a Strabone, almeno una ventina di luoghi geografici dove è avvenuta la ierogamia, l'unione mistico - sessuale di Zeus con Danae.
Tale fenomeno è costante, anche nella vita dei santi: conosciamo molti luoghi in cui qualcuno di loro è apparso oppure è stato martirizzato; in tali atti le figure in questione sono successive agli dei, come dicevano i filologi dell'800. Tuttavia, il mitografo greco, Pausania lo dice esplicitamente, avrebbe reagito ridendo se gli avessero chiesto: sì, ma quando è accaduto il congiungimento fra Zeus e Danae? Evidentemente, tale dato non è incerto, bensì è inqualificabile, improponibile, in quanto il tempo mitico non è il tempo della storia.
Nella realtà di religioni che si connotano attraverso i due parametri dell'immanenza del sacro nel cosmo e della atemporalità storica delle vicende religiose si innesta l'evento abramitico, da cui viene fuori tutto il resto: Mosè, Gesù, Mohamed.
Il patto tra Dio, che si rivela ad Abramo, e tutte le genti che definiamo semitiche rappresenta qualcosa che irrompe nella storia; gli storici e gli archeologi sono abbastanza d'accordo nel fatto che si debba risalire per tali avvenimenti al 1750 avanti Cristo. Abramo è un habiru, un nomade, in quanto la parola habiru ha la medesima radice consonantica sia della parola arabo sia della parola ebreo, che circola per la fertile mezzaluna, dalle foci dello Shat al Arab alle foci dell'Oronte, tenendosi a margine del deserto, ed a un certo punto fa l'incontro con il Dio supremo, che poi nel corso della storia si rivelerà anche essere l'unico possibile.
Come detentori di culti religiosi, discendiamo per il 60 per cento degli esseri umani dalla eccezione abramitica: nella vita comune la religione è diventata un tale fenomeno e di tale dimensione, che ha quasi cancellato gli altri culti che hanno struttura mitica ed immanente, sebbene naturalmente tali fenomeni siano comunque rimasti, come lo zoroastrismo, che sopravvive fra Iran ed India, od il confucianesimo, il buddhismo, il taoismo ed i culti animistici, che definirei minori per numero di adpeti.
Sono, quindi, rimasti fenomeni religiosi, diversi dalla religione che vive nella storia e che si è affermata distruggendo il mito. Il problema è che tali culti stanno riemergendo, oppure che sulla base di tali culti, obliati nel tempo, ne stanno nascendo di nuovi, come i diversi gruppi satanisti che affermano di discendere da antichi culti stregonici. A livello documentale, però, posso dimostrare che esiste una rarefazione in tale continuità, ma comunque non posso escluderla, perché può rivelarsi anche a livello folclorico o morale, o inconscio.
Dall'inizio del ventesimo secolo in poi non possiamo dimenticare che l'inconscio ed il subconscio hanno fatto parte della nostra cultura, e quindi anche della capacità di analisi che ci autoproponiamo di attivare dinanzi ai fenomeni storici. D'altra parte, mi permetterei di ricordare che la psicoanalisi possiede molti più legami con l'occultismo ottocentesco - Madame Blavatsky ne è un esempio - di quanto non appaia: è molto più attività magico-medianica e molto meno «scienza» di quanto non si pretenda a livello clinico. Vorrei anche precisare che affronto tale questione partendo non da una pregiudizio di svalutazione del carattere magico, ma dalla volontà - corroborata dai dati documentali in proposito - di
evidenziare che il ventesimo secolo è stato molto profondamente pervaso dei succitati valori a carattere magico-iniziatico.
La mia personale impressione, scorrendo il materiale prodotto, è che l'attenzione del legislatori si sia piuttosto focalizzata sulle religioni a struttura storica, di carattere abramitico, oltreché quelle non appartenenti a tale ceppo epperò ormai abbastanza familiari e radicate nel mondo italiano. Ritengo, questo lo ricavo anche dalla mia esperienza di docente universitario, che il fenomeno dell'adesione a culti da noi genericamente definiti «orientali» sia un fenomeno in crescita, avente serietà più profonda di quanto di solito non pensiamo, costituendo una nuova dimensione del religioso di cui dover tener conto all'inizio del ventunesimo secolo.
Alla luce di quanto sottolineato, il mio vorrebbe essere non un richiamo ad una più larga e onnicomprensiva tolleranza, non sono queste le mie intenzioni, ma ad una considerazione sub specie religionis di gruppi che siamo abituati a considerare piuttosto sub specie legis.
In altri termini, lo spinoso problema dei gruppi satanici va considerato con grande attenzione nella misura in cui i medesimi possano essere sospetti di infrangere la legge e non rispettare adeguatamente le libertà dell'individuo che a questi si avvicini o che cada comunque nel loro raggio d'azione. Ma una volta esercitata questa attenta disamina, reputo che non si dovrebbe relegare a secondario un fenomeno il quale, se è pur difficilmente interpretabile alla luce di consueti criteri di analisi, secondo la nostra corrente sensibilità storica, non per questo non può essere ascritto ad una fenomenologia di carattere squisitamente religioso.
Se per religione si intende l'espressione storica di una fede, e se per fede si vuole significare una visione del mondo capace di raccordare forze concrete, visibili e misurabili con altre
ritenute invisibili e immisurabili ma non perciò stesso inesistenti, il legislatore probabilmente nel futuro sarà chiamato a compiere uno sforzo ermeneutico più attento anche nella direzione di culti tendenzialmente non considerati tali da possedere requisiti e dignità utili ai fini della loro inclusione tra i gruppi religiosi.
L'ultima constatazione che intendo svolgere, senza voler fare paragoni di sorta, inerisce a certi punti di contatto tra possibili profili di illiceità derivanti dalla pratica di taluni culti, per esempio satanistici, e talaltre illegittimità o illiceità - cioè rotture della legge - , insite nella professione di altre fedi, per esempio in quelle islamiche, o meglio in certi settori di esse. Credo sia unanime il pensiero che usi rituali come l'infibulazione o altri analoghi non possano essere consentiti. A questo riguardo, occorre tener presente, però, che nessuna scuola giuridica-teologica musulmana difende l'infibulazione, anche nell'area in cui l'infibulazione è seguita unanimemente, da gruppi cristiani, musulmani e animisti (era praticata anche da gruppi ebrei finché sono rimasti nelle regioni dell'Africa subsahariana, penso per esempio ai falasha etiopi, poi trasferitisi in Israele). In proposito rammento che quello dell'infibulazione è un uso storico, che interessava una fascia dell'Africa subsahariana o subtropicale per motivi di mantenimento dell'equilibrio sociale tra i gruppi. In altri termini, l'infibulazione garantiva l'illibatezza della fanciulla che si vendeva, ma che nello stesso tempo diventava parte di un altro gruppo tribale. Tale rito era pertanto rispondente all'esigenza di impedire la razionalizzazione appunto di guerre tribali. Queste, che di per sé non potevano essere negate a livello giuridico, però venivano rese vane dalla suddetta pratica. Evidentemente, si tratta di un procedimento che non vedo come potrebbe divenire accettato o tollerato. In ogni caso,
possiamo dirci coperti dall'assicurazione che nessuna scuola teologico-giuridico musulmana difenda tale principio. Ciò non vuol dire che non vi siano, data anche la natura della religione musulmana, gruppi e comunità islamiche che al loro interno accettino l'infibulazione, ritenendola parte integrante della fede stessa.
Lo stesso discorso, probabilmente, vale che per le forme di sacrifici cruenti, di prove che infliggano sofferenza ad uomini o esseri animali, nell'ambito di certi gruppi satanisti. Con questo non voglio fare alcun paragone tra Islam e i gruppi satanisti suddetti, perché tra l'altro si tratta di fenomeni quanto di più estranei tra loro. Però voglio sottolineare una comune problematicità giuridica che potrebbe nascere nell'esaminare la pratica dei gruppi più vari. In ultima analisi, ogni tipo di limitazione al principio della libertà religiosa, in relazione a qualunque gruppo, è estremamente pericoloso. Non ho trovato, infatti, nessuna soddisfacente formulazione giuridica limitante la libertà religiosa che non sia suscettibile di applicazione - per vie esegetiche - ad altre forme religiose diverse da quella nei confronti della quale era stata formulata.
In altri termini, una limitazione ad una pratica religiosa che partisse dalla considerazione della sua natura irrazionale o della sua natura religiosa, potrebbe essere adattata da un legislatore a ciò interessato a qualunque tipo di culto religioso, dal momento che il culto religioso, proprio per la sua natura rituale, può essere comunque suscettibile di essere definito come irrazionale o superstizioso.
In altri termini il divieto di certi riti che non violano nessuna legge o anche il sospetto su di loro sulla base di un pregiudizio a carattere storico e non necessariamente derivante da considerazioni empiriche di carattere giuridico potrebbe essere usato un domani contro qualsiasi chiesa o
gruppo religioso. Una limitazione ad un rito ritenuto irrazionale, irragionevole o superstizioso può essere tranquillamente usato un domani per impedire la confessione cattolica presentandola come un fenomeno di manipolazione delle coscienze o per impedire il libero esercizi dell'eucarestia. Evidentemente, in tal senso il legislatore deve essere particolarmente prudente, perché certe limitazioni che nascono nell'ambito dell'esercizio della razionalità e della legge, se non cristiana perlomeno di radice cristiana, possono ritorcersi in futuro anche nei confronti di qualunque altro culto religioso. Credo quindi che l'unica possibilità giuridica di garantire una assoluta libertà religiosa sia quella di rimuovere tutti gli ostacoli e le riserve, esclusi quelli che non toccano direttamente ed esplicitamente un divieto giuridico che nasca da considerazioni di altro genere rispetto a quelle religiose.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cardini per la sua relazione e do la parola ai colleghi che vogliono porre delle domande.
MARCO BOATO. Anch'io vorrei ringraziare il professor Cardini per la sua esposizione inconsueta per le aule parlamentari e quindi tanto più apprezzata, poiché ci ha fornito una cornice di carattere storico-culturale ed antropologico che ritengo ci sarà molto utile. D'altra parte, non sono intervenuto in occasione della precedente audizione per un qualche imbarazzo culturale, ma credo che ciò che ha detto oggi il professor Cardini sia in qualche modo una involontaria ed implicita risposta alle considerazioni che abbiamo ascoltato da parte di Giuseppe Ferrari. Ritengo che il contenuto della sua audizione avvalori non solo i fondamenti giuridici della nostra Carta costituzionale, ma anche l'importanza che nel disegno di legge del Governo e nelle proposte di legge ad esso abbinate
ha il Capo I, che riguarda la libertà di coscienza e di religione sotto il profilo del rapporto con i principi della nostra Costituzione.
Vorrei chiederle se può integrare la sua riflessione odierna affrontando in maniera più dettagliata: il profilo dei principi generali della libertà di coscienza e di religione e il profilo del riconoscimento di una confessione religiosa (Capo II). Inoltre, vorrei che, eventualmente, ci fornisse delle considerazioni riguardo a possibili future intese in relazione all'Islam a cui ha più volte fatto riferimento nella sua relazione.
FRANCO CARDINI, Professore ordinario di storia medievale presso la facoltà di lettere dell'Università di Firenze. Mentre l'ebraismo è meglio conosciuto dagli italiani a causa di vicende purtroppo dolorose, che hanno consentito loro di maturare una certa confidenza ed una certa capacità di comprensione del lavoro svolto dalle comunità ebraiche, che in termini di collaborazione con gli apparati dello Stato mi sembrano avere svolto un lavoro assolutamente esemplare, mi rendo conto delle difficoltà di portare avanti un confronto sulla libertà di coscienza individuale con le comunità mussulmane in questo particolare momento storico, e forse è vero che siamo più figli del nostro tempo che dei nostri genitori, come dice un proverbio arabo. Ciononostante, senza voler riproporre vecchie prassi di carattere concordatario, che non mi sentirei di escludere totalmente, ritengo che oggi lo Stato sappia come comportarsi con le Chiese storiche cristiane presenti sul territorio italiano e sappia altresì come comportarsi con le comunità ebraiche; ciò dipende anche da una coesione ideale del mondo cristiano e da una capacità di riconoscimento interconfessionale che i cristiani hanno saputo sviluppare. Ne è un esempio il Consiglio delle Chiese cristiane non cattoliche, mentre per il mondo islamico siamo in una situazione
qualitativamente e fenomenologicamente ancora molto diversa.
Il problema che dovrebbe essere affrontato è particolarmente complesso a causa della difficoltà che esiste nell'inquadrare il milione di musulmani - secondo statistiche incerte date dalla mancanza, per alcuni di loro, di uno statuto civico chiaro - in istituzioni a carattere associativo, anche considerando associazioni di tipo esclusivamente volontario. Il mondo islamico presenta, come quello ebraico, una assenza di chiese, quindi di organizzazioni istituzionali che svolgono un lavoro anche normativo sul piano teologico, sul piano rituale ma anche sul piano pastorale e disciplinare. Il mondo musulmano somiglia molto a quello ebraico, nel senso che tende a riunirsi in libere comunità attorno ad interpreti della legge, che non ha nulla a che vedere con quella civile del paese ospitante: il caso del rapporto fra Israele ed ebraismo è molto complesso, irriferibile ad altri quadri normativi e come tale non assumibile a paradigma; tuttavia, è un caso dotato di una sua particolarità che lo rende esemplare.
Il caso dell'Islam, e dell'Islam italiano, è il caso di una religione che si presenta con una certa forza numerica (un milione di aderenti non è poco), con una straordinaria posizione puntiforme all'interno della società italiana. Non tutti i musulmani, ma mi sembra di cogliere un dato abbastanza inquietante per noi che, a differenza degli ebrei, essi non sentano il bisogno di convergere in associazioni che li rappresentano esplicitamente; in altri termini, non credo ci sia, oggi, ebreo in Italia, forse salvo casi di persone che si sono chiamate fuori dalla loro comunità, che in qualche modo non si riconosca in una comunità fra quelle in generale che compongono l'universo ebraico.
Per il mondo musulmano tale realtà non esiste nel modo più assoluto sul piano normativo: cioè i musulmani, per
l'eterogeneità della loro provenienza, non ne hanno la capacità. Non è però un giudizio negativo; siamo in presenza di fedeli, infatti, che sono deraciné. In altri termini, per i musulmani di oggi in Italia, vale ciò che valeva per i nostri italiani e gli irlandesi che emigravano negli Stati Uniti nel secolo scorso; tuttavia, con la differenza che gli italiani, gli irlandesi e gli spagnoli si riconoscevano non solo nelle loro comunità nazionali - religiose, connotate dalla comunanza di certi culti, ma anche perché i cattolici, da qualunque parte provenissero, erano inquadrati immediatamente in una struttura geografica che li conteneva e li inquadrava nella grande Chiesa cattolica americana, che dava spazio anche ad espressione etniche. Non c'è alcunché di simile nel mondo islamico: il musulmano non ha nemmeno una obbligatorietà di preghiera, che esiste soltanto come pratica e che fra l'altro negli ultimi decenni è molto diminuita nel territorio musulmano.
Definiamo, esternamente, i musulmani, che contiamo per un milione, persone provenienti da paesi musulmani, che professano la loro religione, in quanto circoncise, ma che non hanno alcuna qualità di adesione intima alla fede musulmana.
Il fenomeno dei gruppi islamici che fanno propaganda con buon successo in Italia è caratterizzato dal fatto che il musulmano che entra in un gruppo a carattere islamista rigorista riceve una sorta di identità di ritorno; contrariamente a quanto si dice infatti, i musulmani che vengono da terre musulmane sono tutt'altro che fervidi devoti; molto spesso arrivano da terre musulmane che sono state fortemente interessate da un processo pratico di occidentalizzazione, e recuperano la loro realtà devozionale, addirittura pietistica, attraverso la frequentazione di comunità, alcune delle quali
hanno un carattere islamista o di commistione e complicità dirette con gruppi terroristici, sebbene siano pochissime quelle di tale tipo.
Il fenomeno è che siamo di fronte ad una fede religiosa che, in generale, incoraggia l'espressione intima individuale, addirittura segreta; l'Islam riconosce, ad esempio, al singolo fedele il diritto alla dissimulazione, che l'ebraismo riconosce a fatica, ed il Cristianesimo non dovrebbe riconoscere affatto, in quanto atto importante per il cristiano.
L'Islam è una religione in crisi, e di solito non si dice; soprattutto nei paesi d'origine c'è un bombardamento della modernità che non è meno denso e forte di quanto avvenga per i cristiani dell'occidente; in più c'è il connotato dell'assenza dell'elemento collante istituzionale rappresentato dalla Chiesa; in altri termini, il cristiano non si conosce tale se fuori dalla Chiesa: frequenterà certamente pochissimo l'istituzione, ma si sente legato alla sua religione solo attraverso di essa.
L'ebreo ordinariamente avverte questo legame attraverso la frequentazione della propria comunità, che può essere anche molto rarefatta ma comunque esistente; il musulmano invece non necessita di valori di questo tipo. L'Islam emerge a livello della nostra percepibilità soltanto nella misura in cui diventa una realtà sociale, di cui primo nucleo è quello familiare. Porto un esempio per dare immediato riscontro a quanto appena sostenuto: mi riferisco alle forme di kijab, cioè di riservatezza femminile, espressa attraverso l'uso di un capo di vestiario. Vi è una certa gamma, soprattutto tra le donne musulmane e somale, di copertura a livello di chador. In realtà vi sono infinite varianti dialettali per definire questo tipo di vestiario. Ma l'unico uso di abito comune - che ripeto sottolinea la riservatezza della donna - ad essere raccomandato dal testo coranico è il kijab, cioè il velo che copre gola
e capelli, «le parti belle» come le definisce il profeta. L'espressione di adesione all'Islam, che nei maschi è rappresentata da un fatto molto evidente, ma per ovvi motivi sempre nascosto, cioè la presenza delle circoncisione, nelle donne si traduce nell'uso del kijab, oggi in aumento, un vero dato di ritorno. Siamo portati a considerare l'uso del kijab come il portato di una sorta di repressione familiare, è quindi evidente che il legislatore guardi con un certo sospetto all'uso di un capo di vestiario di questo tipo, trovandovi un elemento di chiusura e imposizione avvenuta nell'ambito appunto familiare (padre, fratello, zio materno, fidanzato). La mia esperienza di docente, anche per studenti musulmani, deriva dalla frequentazione dell'ambiente universitario parigino, in due anni diversi, a cavallo della rivoluzione culturale e politica iraniana.
Nel 1979 mi sono trovato dinanzi alla stessa studentessa conosciuta nel 1972 come ragazza iraniana in minigonna, la quale mi si presentava, sette anni dopo, in chador, provocando tutte quelle reazioni che loro ben conoscono, sino anche ad un atto secondo me molto discutibile di divieto. Il chador in quel caso, di questo posso essere e sono testimone giurato con assoluta sicurezza, non veniva assolutamente imposto da una volontà familiare. Era invece un segno volontario di identità religiosa e politica che una ragazza, quella medesima che qualche anno prima non aveva alcuna difficoltà né individuale né interpersonale o familiare ad indossare la minigonna (lo faceva anche a Teheran), assumeva liberamente. Ho un piccolo tesoro di casi di questo genere a cui potrei dare un nome e cognome, sono sette persone, ed io credo di poter escludere in cinque casi una qualsiasi influenza esteriore che non passasse attraverso l'acquisizione di una rinnovata identità politica nazionale. Se siamo dinanzi a questi fenomeni essi diventano immediatamente «sociali».
Come agisce il legislatore? Non saprei dirlo. A mio parere, però, in analogia al fatto che nei limiti del comune senso del pudore noi consentiamo all'individuo di far libera esposizione della sua struttura fisica, nella stessa misura si dovrebbe accettare che lo stesso scelga di non farne. L'unico limite che il legislatore può porre, allora, è nell'un caso il rispetto del comune senso del pudore, nell'altro l'accertamento dell'assenza di elementi costrittivi alla base della scelta di dare certa sottolineatura al suddetto pudore individuale. Non è facile percorrere questa strada, ma a livello concettuale non vedo altre alternative. Il problema fondamentale è che forse la società italiana, non dico il Governo o il Parlamento, dovrebbe essere incentivata in concreto ad invitare in maniera sempre più esplicita i musulmani a riconoscersi in libere comunità, sulla base che vorranno.
In proposito, le tre basi di civiltà islamica a me note - conosco circa cinquanta associazioni islamiche - sono: prossimità etnica, comunanza di posizione geografica, e infine connotazione di natura teologico-concettuale. E questa è il fattore più delicato da trattare con maggiore attenzione, nel cui ambito si può anche entrare in contatto con i gruppi (lo dico con tutte le virgolette del caso) più pericolosi. Dovremmo, lo ripeto, invitare i nostri amici musulmani a superare le difficoltà nel trattare, ripetendo quanto già fatto dai cristiani non cattolici da tempo, e dalle comunità ebraiche, così da presentare al Governo italiano una comune piattaforma di necessità e di desiderata. Non posso chiamarle rivendicazioni ma potrebbero anche essere tali. Ritengo si debba lavorare in questo modo magari cominciando da un'iniziativa di attività statistica e di volontariato, partendo da una regione campione, quale ad esempio potrebbe essere la Toscana (a proposito della quale ho presente il lavoro del gruppo di Dia-légein a cui
appartengo, deputato all'esercizio di iniziative interreligiose, giunto ad un buon livello di articolazione anche statistica dei dati raccolti).
Si potrebbe iniziare dalla Toscana, dunque, finalizzando l'attività svolta alla firma di un miniconcordato del tutto volontario, tra la regione suddetta, da una parte, e le comunità musulmane dall'altra. Reputo che un impegno del Parlamento italiano, e dei parlamentari toscani in particolar modo, in questa direzione, potrebbe consentire al presidente Martini di organizzare un piccolo tavolo di intese in tal senso.
Ove questo venisse fatto in tutte le regioni italiane, potrebbe essere il primo passo per giungere ad una articolazione chiara dei rapporti fra lo Stato italiano e le comunità mussulmane. Temo che tutto ciò non sarà indolore, almeno in alcune regioni, segnatamente nel Lazio e in Lombardia, dove esistono comunità che tendo a teorizzare la loro assoluta libertà, e quindi refrattarietà, a trattare in termini istituzionali chiari con organizzazioni che non sono mussulmane. Si tratta di ostacoli tipici dell'Islam che al momento non credo si possano superare con un atto di carattere unilaterale, ma soltanto con un lavoro di carattere graduale e con l'esempio del vantaggio che potrebbe derivare da parziali operazioni di intesa.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cardini a nome mio e di tutta la Commissione per essere intervenuto. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 13,15.
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