PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATO BRUNO
La seduta comincia alle 10,40.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione di Domenico Maselli, professore di storia del Cristianesimo presso la facoltà di scienze della formazione dell'Università di Firenze.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la libertà religiosa, l'audizione del professore Domenico Maselli. Nel ringraziarlo a nome mio e di tutta la Commissione per aver accolto il nostro invito, gli do subito la parola.
DOMENICO MASELLI, Professore di storia del Cristianesimo presso la facoltà di scienze della formazione dell'Università di Firenze. Quello della libertà religiosa è un grande problema, forse il più grande tra le varie libertà. Ciò in quanto, tra i diritti dell'uomo, il primo è quello alla libertà del pensare, del credere o del non credere pienamente. Tutte le volte che si è toccata la libertà religiosa, poi si sono toccate tutte le altre libertà. È per questa ragione che il tema da noi trattato è particolarmente importante e delicato. Voglio ringraziare l'onorevole Bondi per come lo ha introdotto. In modo particolare, lo ringrazio per le espressioni che ha avuto nei miei riguardi.
Ritengo che davvero siamo di fronte ad una problematica importante. Prima di tutto, dobbiamo chiederci se sia costituzionale o meno il progetto di legge che abbiamo di fronte, nelle sue tre versioni. Un dubbio di costituzionalità era nato all'inizio in quanto - come sapete benissimo - la Costituzione non indica la strada di una legge erga omnes. Si può anche capire il perché: la legge erga omnes rischia di diventare un'imposizione, perché non è contrattata. La Costituzione, d'altra parte, avendo introdotto nell'articolo 7 il principio del concordato con la Chiesa cattolica e - avendo in mente di prevedere nell'articolo 8, come poi avvenne, l'uguaglianza delle fedi dal punto di vista personale - non poteva scegliere altra strada che quella dell'incontro pattizio. Il ragionamento era il seguente: se c'è un incontro pattizio con la Chiesa cattolica, altrettanto è da farsi con le altre religioni. Non ho detto confessioni religiose, perché tale espressione era già estremamente limitativa, in quanto il costituente pensava soltanto alle religioni giudeo-cristiane, essendo difficile pensare ad una confessio fidei buddista, tanto per fare un esempio. Quindi il termine scelto già faceva pensare alla situazione che la Costituzione aveva di fronte, che presentava la possibilità di fare due sole intese: una con i protestanti e l'altra con gli ebrei (le presenze religiose tradizionali nel nostro paese).
Credo che ciò fosse quanto sottostava alla questione delle intese come unica strada. D'altra parte, l'onorevole Maccanico, che è stato per tanti anni testimone della vita di questa Camera, può darmi ragione quando affermo che il dettato costituzionale (non essendo stato applicato fino al 1984) ha creato una prima distorsione. Spiego il perché con un esempio: le Chiese protestanti, che allora - alla prima uscita dalla guerra - avrebbero fatto una sola intesa, trovandosi poi costrette a camminare ognuna per conto suo, hanno prodotto
nel 1984 quella sorta di «marmellata» di intese (cominciata con la intesa con i valdesi e i metodisti, rappresentati dalla Tavola valdese, poi via via proseguita con gli avventisti, le ADI, i battisti e i luterani). In realtà la situazione, che già in tale periodo era mutata, si è ulteriormente evoluta a causa del cambiamento avuto dal nostro paese, che da terra di emigrazione è diventato approdo di immigrazione. Gli immigrati hanno portato quindi molte altre religioni. Possiamo infatti oggi affermare che non esista una religione non presente nel nostro paese. Da questo punto vista, consiglio la Commissione di dotarsi del bellissimo volume del CESNUR, Enciclopedia delle religioni in Italia, perché offre veramente il quadro generale della situazione ad oggi.
In questo quadro, il rapporto tra Stato e confessioni religiose si è, infine, articolato in quattro gradi: il concordato; le intese; gli enti riconosciuti legalmente, dotati di personalità giuridica; quelli sprovvisti del riconoscimento.
A tal punto, molti rigidi interpreti della Costituzione riterrebbero sufficiente la completa abrogazione delle leggi fasciste, quelle, rispettivamente, del 1929 e del 1930. Ma l'abrogazione sic et simpliciter creerebbe una differenza troppo grande tra chi è tutelato dal concordato o dalle intese e chi, in tale situazione, rischierebbe di non avere più alcuna tutela. Perciò, nostro malgrado e ben consci della pericolosità di una legge erga omnes che non abbia, raccogliendo tutte le altre, carattere semplicemente ricognitivo, a provvedere con tale misura generale siamo costretti dalla stessa necessità, da noi tutti avvertita, di una legge quadro che sia autenticamente tale.
Avevamo lavorato molto sul provvedimento proposto dal Governo Prodi; devo, al riguardo, osservare che l'attuale
ricalca in grande misura - come, del resto, le altre due, presentate, rispettivamente, dagli onorevoli Spini e Molinari - quella proposta, con tre grandi vantaggi.
Il primo, avere un quadro delle intese; finalmente, sapremo come farle. Finora, infatti, quasi sono state lasciate al caso, venendo stipulate senza che vi fosse una normativa molto precisa. Invece, il giorno che l'atto camera n. 2531 sarà legge, avremo un provvedimento recante, al capo terzo, una normativa precisa sulle intese, normativa preparata da precise disposizioni circa i diritti individuali (nel primo capo) e circa i diritti collettivi delle confessioni religioni che, pur avendo ottenuto il riconoscimento giuridico, non abbiano stipulato intese (secondo capo del disegno di legge in esame).
Vorrei ancora aggiungere una considerazione; il disegno di legge d'iniziativa governativa, per un determinato aspetto, è, a mio avviso, migliore rispetto alla precedente. Avevamo, nella precedente occasione, escluso la possibilità che singoli ministri di culto venissero riconosciuti ad personam dal Governo perché avremmo altrimenti creato una situazione di disparità. Devo dire di non aver preso a cuor leggero la questione e di avervi, invece, pensato bene, anche al fine di evitare un'eccessiva frammentazione. La legge del 1929, permettendo al singolo ministro di culto di ottenere un riconoscimento da parte dello Stato, aveva, a parer mio, alcuni difetti: ad esempio, lo Stato entrava all'interno dell'ordinamento dell'istituzione religiosa. Personalmente, sono ministro di culto, come sapete; ma non ho mai voluto essere riconosciuto prima dell'intesa del 1984 perché lo Stato non ha il diritto di dirmi se sono ministro di culto. I due campi sono totalmente diversi; però, in tal modo, rischiavamo - francamente, caro Bondi - di sopprimere una libertà oggi sussistente. La libertà di un gruppo, di una chiesa e via dicendo di seguire un altro iter, difficile e
faticoso ma che permette una maggiore libertà. Quindi, da tale punto di vista, la norma recata dal terzo comma aggiunto all'articolo 10 del disegno di legge d'iniziativa governativa - norma secondo la quale può essere riconosciuto anche il singolo ministro di culto - costituisce, a mio avviso, una giusta previsione. Naturalmente, si deve operare cum grano salis anche perché mi chiedo se non sia meglio, invece, favorire intese il più possibile rappresentative. Per esempio, tra i materiali bibliografici messi a disposizione dalla Commissione, figura l'intervento dell'attuale presidente della Federazione protestante Gianni Long, il quale esprime il desiderio che le intese possano essere accolte per adesione, cioè che si possa arrivare, un giorno, a rappresentare tutte le religioni attraverso il regime pattizio.
Ci si può chiedere se sia meglio il regime pattizio o l'ottocentesca netta separazione tra Stato e Chiesa; al riguardo, se mi aveste interrogato dieci anni fa, vi avrei risposto che non avevo dubbi e che sarebbe stata meglio la netta separazione tra Stato e Chiesa. Ma quanto avvenuto in Francia ed in altri paesi in questi ultimi anni mi ha convinto che lo Stato moderno ha tali necessità di difesa - per esempio, contro le sette di tipo «fanatizzato» e via dicendo - che rischia di non conoscere, poi, chi setta non è. Allora, il fatto che lo Stato sia dotato, come avviene oggi, di un dipartimento dei culti, ci permette di avere un interlocutore valido, in grado di evitare che poi si prendano delle cantonate, ad esempio, del tipo di quella presa da uno Stato - che non cito - il quale ha considerato setta pericolosa la comunità di Sant'Egidio. Tutti voi capite come non possa essere una setta pericolosa la comunità di Sant'Egidio ma così si è pensato da parte di un grande paese europeo. Quindi, da tale punto di vista, ritengo la previsone costituzionalmente legittima sia perché impedisce
una diseguaglianza tra le varie forme religiose sia perché crea un quadro compatibile con il comma terzo dell'articolo 8 della Costituzione. Questo è il mio giudizio generale sul disegno di legge.
Passando alle singole parti, ho già detto che considero un passo avanti il recupero del riconoscimento del singolo ministro di culto purché sia fatto con intelligenza e con misura. Ritengo oggi sia anche molto importante che si approvi quanto prima il provvedimento, onde evitare che qualcuno possa agire fuori legge.
In questa sede, si è parlato tanto di Islam: se non diamo diritti essenziali all'Islam, togliamo agli attuali dirigenti moderati del movimento la possibilità di controllare le frange. È tardi quando poi si interviene ex post; se si interviene prima, si è sicuri che si possano porre in campo misure che il 90 per cento degli aderenti all'Islam possano considerare indispensabili e necessarie. Mi riferisco, ad esempio, all'ora di libertà per la preghiera, una volta la settimana: non è una grande rovina dal momento che questa ora di libertà viene poi recuperata in altri momenti lavorativi. Mi riferisco anche alle leggi alimentari: esistono, peraltro, due intese che già garantiscono, agli ebrei ed agli avventisti, il rispetto dei loro usi alimentari. Non capisco perché non vi possano essere norme che, pur nella tutela di tutti gli aspetti ecologici ed ambientali, permettano ciò. Poi, soprattutto, si pone il problema cimiteriale, come voi capite; problema che per tutti noi riveste, ahimè, una notevole importanza perché è il punto d'arrivo della nostra parabola terrena. Infatti, atteso che si tratta del punto d'arrivo della nostra parabola terrena, diventa un aspetto fondamentale appurare i diritti che abbiamo quando siamo morti. Infatti, anche quando siamo morti deve essere
tutelato il nostro diritto. C'è stato un momento in cui tutti gli immigrati erano per forza o cattolici o islamici. Oggi si scopre che le cose stanno diversamente.
Ritengo di aver esposto le ragioni per cui reputo che si debba approvare presto una normativa generale. Da questo punto di vista vorrei farvi notare un aspetto: proprio io ho inserito nell'articolo 12, relativo alle scuole, una sorta di «cappello», fatto pensando al futuro. In esso si affermava che in ogni scuola pubblica di ogni ordine e grado è vietato praticare forme di discriminazione religiosa. L'ho fatto pensando non tanto alla situazione attuale o alle scuole pubbliche intese come scuole statali quanto alle scuole parificate. Domani, qualora una qualche religione aprisse degli istituti in cui vi fosse discriminazione religiosa, noi - muniti di una norma del genere - potremmo intervenire (non nei confronti di quella religione) applicando una legge fatta oggi per tutti. Io pensavo che questa fosse una evenienza tutt'altro che secondaria che potrebbe verificarsi.
Allora, è indispensabile che lo Stato, oltre ad assicurare la libertà del cittadino e quella degli enti religiosi, assicuri anche il rispetto da parte di tutti della legge comune. Questo credo che sia doveroso per i nostri cittadini e risponda a molte obiezioni sollevate sul progetto. Il testo prevede non solo la massima libertà possibile ma anche i limiti che ognuno deve avere. Quando si afferma la massima libertà di cambiare religione o di non averne alcuna, si sostiene una cosa fondamentale (che non vale solo per le autorità statali ma anche per le religioni di provenienza): nessuno può mettere quegli steccati che nel passato sono stati sollevati - ahimè un po' da tutti - per impedire la fuoriuscita di una persona che abbia cambiato idea. Noi dobbiamo rispettare non soltanto il diritto di scegliere una volta, ma anche il diritto di scelta in
itinere. Una formulazione come quella che ho detto significa garantire l'applicazione dei rigori della legge nei confronti di chi frapponesse ostacoli alla libera uscita di una persona da un ente religioso. Da questo punto di vista, ritengo che la legge proposta sia estremamente equilibrata.
Un aspetto che all'apparenza potrebbe far ritenere più difficili le intese (ma che secondo me le agevola) è rappresentato dal duplice passaggio in Parlamento (uno per le Commissioni antecedente all'approvazione da parte del Consiglio dei ministri dell'intesa ed uno successivo). Spiego il motivo di questo mio convincimento. Due anni fa, di fronte alle due intese che ci si prospettavano, un gruppo politico disse - giustamente - che avrebbe potuto approvare il testo se ci fosse stata una aggiunta (consistente nel riprendere dal prologo dell'intesa con i valdesi la dichiarazione di reciprocità del riconoscimento tra lo Stato e la confessione religiosa). Avremmo potuto avere quella legge approvata dalle Camere, se tutti non avessero ritenuto opportuno, siccome non si poteva apportare alcuna modifica, frenare, fermare l'iter del disegno di legge. Quindi io penso che la previsione di un passaggio in Commissione, per sentire i pareri di tutti, prima che il Governo approvi l'intesa, rappresenti un miglioramento e non un peggioramento, anche se a prima vista potrebbe sembrare solo una causa di un rallentamento dell'iter.
Per quanto riguarda poi il passaggio attraverso il Consiglio di Stato (sul quale anch'io nutrivo delle perplessità), devo ex post riconoscere che esso appare indispensabile (al di là delle leggi Bassanini). In questo caso il Consiglio di Stato può garantire (quanto meno dal punto di vista formale) il rispetto della legge da parte dei vari enti religiosi.
Mi sembra giusto individuare un testo base, che, per come stanno le cose, potrebbe essere il disegno di legge del Governo.
Prego quindi i miei ex colleghi di non rallentare l'iter di una iniziativa che può rivelarsi preziosa per il nostro paese. Secondo me, siamo già in ritardo.
PRESIDENTE. Ringrazio il professore Maselli. Do ora la parola ai colleghi che desiderano porre delle domande.
ANTONIO MACCANICO. Dall'intervento del professore Maselli mi pare di capire che, a suo giudizio, una legge sulla libertà religiosa - come quella al nostro esame - potrebbe in un certo senso rappresentare un rafforzamento del regime concordatario praticato in Italia. Ho inteso bene, oppure no? Se così fosse, occorrerebbe veramente varare al più presto una legge sulla libertà religiosa in Italia, perché sarebbe un fatto davvero positivo per la comunità nazionale.
DOMENICO MASELLI, Professore di storia del Cristianesimo presso la facoltà di scienze della formazione dell'Università di Firenze. Secondo me, più che di rafforzamento occorre parlere di riequilibrio. Temo che l'esistenza del concordato - che ha poi determinato il crearsi di intese - abbia creato uno squilibrio in danno di chi non gode di intese o del concordato. Perciò, qui è l'urgenza. Non solo. Il fatto che in questo momento ci siano ben sette intese siglate o firmate (cinque in attesa di essere fatte oggetto di deliberazione da parte del Consiglio dei ministri e due per cui si attende l'approvazione da parte del Parlamento) nonché altre dieci in avanzata fase di definizione, rende la legge ulteriormente indispensabile. Per bene che vada, le prime intese si avranno tra due anni, le altre tra quattro. Capite bene che, in un momento così delicato per l'ordine pubblico e altre questioni, la legge agevolerebbe anche la stipula delle intese.
ANTONIO MACCANICO. Ringrazio e concordo pienamente. Quindi quella che ci accingiamo ad esaminare rappresenta una grande legge di riequilibrio.
MARCELLO PACINI. Vorrei innanzitutto scusarmi con il professore per essere arrivato in ritardo e non avere potuto ascoltare integralmente la sua relazione. Il mio è il problema di chi viene da lontano e non sempre riesce ad essere puntuale. In ogni caso, quanto ho ascoltato mi offre lo spunto per porre al professore delle domande dirette a chiarirmi taluni dubbi circa il progetto di legge. Devo premettere che ritengo assolutamente indispensabile pervenire ad una legge sulla libertà religiosa e così superare la normativa del 1929. I miei dubbi sono quindi relativi solo al merito dell'indirizzo legislativo. Il primo...
Il primo dubbio nasce da una constatazione: stiamo ragionando in termini di politica legislativa senza, però, tenere conto, a mio parere, di alcune novità emerse nel contesto culturale e religioso negli ultimi dieci, quindici anni. Mi riferisco alle nuove valenze politiche e anche ai contenuti religiosi per cui noi ci troviamo di fronte a religioni che hanno significati diversi rispetto a quindici o venti anni fa. Per esempio, giustamente lei ha affermato che l'articolo 2 del disegno di legge, tassativamente, obbliga al rispetto della libertà di cambiare fede religiosa. Ciò rappresenta per noi un concetto ovvio; al riguardo, sorge però un problema perché vi potrebbe essere una setta o potrebbe esserci - come c'è - una grande religione la quale consideri un suo dogma l'impossibilità di cambiare religione. In tal caso, ci troveremmo nella situazione di dovere riconoscere una religione e, però, anche, di doverla modificare. Dovremmo, infatti, riconoscerla come religione ma solo fino ad un certo punto, condizionandone, dunque, il riconoscimento. Ma come si fa a pensare che dei
religiosi - persone che hanno fede - possano accettare tale limite in termini che non siano puramente strumentali? Mi pare vi sia un contrasto tra il dogma di una religione che proibisce l'apostasia e, invece, quanto chiediamo alla stessa per essere riconosciuta dal nostro ordinamento.
La seconda domanda riguarda, invece, proprio l'ultimo passaggio del suo intervento, quando ha citato, in totale, diciassette intese. Noi siamo di fronte ad una situazione nuova; al riguardo, non so se qualche studioso dei nuovi fenomeni religiosi sia stato già audito dalla Commissione, ma certamente è nota a tutti la grande abbondanza di «fedi religiose». Tutte quante hanno comunque diritto a stipulare le relative intese. Vi sono già delle pratiche in corso - da parte, ad esempio, di una setta giapponese - per potere addivenire al riconoscimento da parte dello Stato ed alla firma dell'intesa. Quindi, siamo passati da una situazione in cui vi erano poche religioni storiche, tutte di origine giudaico-cristiana, ad una in cui siamo di fronte ad un supermarket delle religioni. Non ricordo quali studiosi - mi pare Margiotta e Prodi - abbiano parlato del rischio di pervenire ad una realtà simile a quella dell'impero ottomano ovvero ad una moltiplicazione delle fedi, moltiplicazione finanche eccessiva. Lei, professore, ritiene che questa politica delle intese - politica molto aperta e sostanzialmente incentivata dallo Stato - sia ancora opportuna? O pensa, invece, che presenti dei rischi e che sia molto meglio fare una legge sulla libertà religiosa, legge che, valida erga omnes, non stabilisca trattamenti particolari? Certo, si creerebbe, in ipotesi, una disparità tra chi ha già stipulato una intesa e chi non ancora; però, forse, si tratterebbe di una penalizzazione inferiore rispetto al rischio di una moltiplicazione. Attualmente le intese sono diciassette, potrebbero
divenire cinquanta e presentare, quindi, una caratterizzazione basata su riti speciali, che sarebbe difficile, poi, gestire.
DOMENICO MASELLI, Professore di storia del Cristianesimo presso la facoltà di scienze della formazione dell'Università di Firenze. Ringrazio la Commissione per le domande formulate, estremamente interessanti; cercherò di rispondere ad una per volta.
Il concordato del 1929, ahimè, conteneva norme capestro per i ministri del culto cattolico che «uscivano» dalla Chiesa. Conferiva loro, inoltre, una posizione veramente di deminutio capitis, per usare un termine romano: non potevano ricoprire uffici pubblici, non potevano essere a contatto con il pubblico, neppure come commessi. Nessuno, oggi, nella Chiesa cattolica, accetterebbe più, dopo il concilio Vaticano II, una situazione del genere; eppure, fu una situazione allora imposta allo Stato attraverso il concordato. Vi ricordo in questa occasione - è sempre bene, infatti, essere liberi nei giudizi verso tutti - che Mussolini ha resistito per quasi tre anni, non accettando che il povero mio grande maestro, condannato in quanto modernista, perdesse la cattedra che aveva vinto. Bonaiuti aveva vinto una cattedra e lo Stato affermava di non potere, ex post, cancellare un diritto acquisito con tanto di concorso. Pensate che si è ritardata la firma del concordato per tre anni a causa della cattedra di Bonaiuti; più tardi, il professore stesso eliminò i problemi causati allo Stato fascista: infatti, non avendo prestato il giuramento, perse la cattedra. Devo in questa sede osservare che mi vergogno del fatto che la Repubblica italiana abbia rimesso al loro posto gli altri dodici ma non Bonaiuti, che ne morì di dolore: ciò rappresenta qualcosa che non possiamo dimenticare. Da tale punto di vista, lo Stato ha il diritto-dovere di intervenire in questo campo. Conosco abbastanza gli studiosi della religione di cui lei
parlava ed ho avuto contatti in tutta la vita con eminenti esponenti dispostissimi ad accettare la detta condizione. Naturalmente, non è che, se noi non inseriamo la specifica previsione nella legge o se non approviamo una legge del genere, certi episodi non avvengano lo stesso, laddove vi siano estremismi e fanatismo. Posso anzi dire, per esempio, circa i testimoni di Geova, che l'aver firmato le intese ha aumentato i loro rapporti con tutte le altre religioni presenti nel paese. È cambiato il clima, proprio perché si tratta di situazioni che implicano delle conseguenze. Quindi, da questo punto di vista, sono d'accordo: ci saranno delle difficoltà, ma questa è una buona ragione per proclamare alto e forte il diritto della persona a fare anche degli sbagli e di riconoscere l'eventuale sbaglio, cambiando la sua posizione religiosa.
L'ulteriore aspetto riguarda la politica delle intese. Io non sono molto lontano da lei nel pensare che troppe intese potrebbero diventare pericolose. Ritengo però che l'esistenza di una legge che le normalizzi in un quadro generale, unitamente ad una politica di assorbimento, possa portare ad una forte riduzione delle intese. Spero - e lo dichiaro qui - che le Chiese evangeliche possano - o per adesione o per unificazione - stipulare una sola intesa con lo Stato, creando un passaggio più agevole per tutte le altre. Penso che, da questo punto di vista, si possa fare molto. Per esempio, che si possa incoraggiare, nel caso di somiglianza di un ente ad un altro, l'attività di intesa per adesione (si può consigliare all'ente che è stato riconosciuto giuridicamente di aderire all'intesa precedentemente fatta, magari unificandone i titoli). Certo credo che per tante ragioni questo sia necessario. Per altrettante ragioni, onorevole, penso che la legge non aggraverà ma semplificherà le cose. D'altra parte io sarei contro ogni concordato, però già abbiamo un concordato intangibile e le
intese ormai stipulate. Quindi, se questa è la strada pattizia da percorrere, è bene che noi la percorriamo fino in fondo. In quanto al dire che ci si poteva pensare allora, va considerato che la Costituzione ha tolto l'erga omnes perché tale clausola aveva significato per molti riduzione a zero. La legge del 1929 oggi è molto depurata, perché la Corte costituzionale l'ha resa (lo dico scherzando) una legge «a pois», eliminando varie norme incostituzionali. Tuttavia in quel momento l'applicazione di quella legge creò cose gravi. Rifacendomi alla storia della mia famiglia, potrei citare il caso dell'Esercito della salvezza, composto da persone assolutamente miti che da un giorno all'altro si sono trovate al confino senza sapere il perché. Il capo dell'Esercito della salvezza in Italia, che era mio zio, ricopriva tale carica perché, come tenente della Croce rossa, aveva salvato Mussolini durante la prima guerra mondiale. Quindi c'era un rapporto personale con Mussolini e ciò nonostante la legge erga omnes intervenne a penalizzarlo. Perciò, in conclusione, direi che è ora che la legge ci sia.
PRESIDENTE. Ringrazio il professore Maselli per la sua partecipazione. Il suo è stato un bel ritorno. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta, sospesa alle 11,20, è ripresa alle 11,25.
Audizione di Roberta Aluffi Beck Peccoz, professore associato di sistemi giuridici comparati presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la libertà religiosa, l'audizione di Roberta Aluffi Beck Peccoz, professore associato di sistemi giuridici comparati presso la facoltà di
giurisprudenza dell'Università di Torino, che ringrazio a titolo personale e a nome di tutta la Commissione. Le do la parola per la sua relazione.
ROBERTA ALUFFI BECK PECCOZ, Professore associato di sistemi giuridici comparati presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino. Se ho ben compreso il motivo di questa mia audizione, esso, nell'ambito della discussione del progetto di legge sulla libertà religiosa, è volto a fornire informazioni sul matrimonio secondo il diritto musulmano. A tal fine, fornirò un quadro generale del problema, anche se probabilmente in questa sede ad interessare sono gli aspetti formali della conclusione dell'atto di matrimonio, che tuttavia vengono meglio compresi se inquadrati nell'ambito dell'istituto come generalmente inteso.
Una descrizione del matrimonio secondo il rito musulmano non può prescindere da una breve premessa su ciò che si può e si deve intendere per diritto musulmano (in realtà una quantità di concetti diversi). Innanzitutto il diritto musulmano è la legge sacra dell'Islam, dunque una dottrina giuridica sviluppata come scienza religiosa, che viene conosciuta attraverso le opere di dottrina. Le regole che riferirò parlando del diritto musulmano classico sono da rintracciare non tanto nel Corano o nelle tradizione profetiche - che rappresentano la base da cui si sviluppa la dottrina - ma nei trattati di dottrina. Ora, in questo senso, il diritto musulmano è diritto vigente soltanto in alcuni paesi e, in particolare, in Arabia Saudita e nei paesi della penisola araba (ad esclusione dello Yemen e del Kuwait). Prima di dire degli altri paesi musulmani, desidero chiarire che per tali intendo non tanto i paesi che nella denominazione ufficiale (e quindi per una scelta politico-ideologica) si definiscono così, ma quei paesi che, avendo la maggior parte della popolazione formata da appartenenti
all'Islam, hanno ritenuto opportuno non abbandonare il diritto musulmano nell'ambito del diritto di famiglia. Orbene in questi paesi musulmani il diritto di famiglia - e dunque le norme sul matrimonio - si rintracciano in leggi dello Stato che codificano il diritto musulmano, apportando eventualmente ad esso delle riforme. Dunque, parlando di diritto musulmano, mi riferisco ad un ordinamento sovrastatuale (quello religioso) e ad una moltitudine di ordinamenti statali di contenuto assai diverso. Le difformità derivano in primo luogo da diversità originarie rintracciabili nel diritto musulmano (una di questa, ad esempio, è la regola sulla possibilità per la donna di concludere personalmente il contratto di matrimonio, ammessa da certe scuole giuridiche musulmane e negata da altre). Altre differenze sono state invece introdotte dai legislatori statali, che possono aver di volta in volta concepito la codificazione come uno strumento di ingegneria sociale: si riforma il diritto musulmano per cambiare la società, si adegua la legge ai cambiamenti già realizzatisi di fatto nella società oppure si usa la legge come un freno volto a contenere il cambiamento, a conservare una idea tradizionale di famiglia.
Dunque, non posso che dare informazioni molto generali, che potrebbero non valere per diversi paesi; proprio per la necessità di mantenere il discorso in termini quanto mai generali, cercherò di organizzarlo lungo il filone della possibile contrarietà di norme di diritto musulmano a standard internazionalmente riconosciuti ovvero a principi che costituiscono l'ordine pubblico internazionale. Da tale punto di vista, direi che i punti di possibili conflitti si aprono sul principio di eguaglianza tra uomo e donna e sul principio di discriminazione religiosa. Mi occuperò in particolare del primo aspetto perché il secondo non mi pare di diretta attinenza ai lavori della Commissione, almeno per quanto riguarda il matrimonio,
naturalmente. Quindi, mi occuperò delle norme potenzialmente in conflitto con il principio della parità tra uomo e donna e, in particolare, con la parità dei coniugi all'interno della famiglia, nella formazione della stessa e nello scioglimento del vincolo coniugale. Tratterò l'argomento con la premessa (superflua) che detto principio è relativamente recente nella civiltà giuridica internazionale; peraltro, è stato di realizzazione faticosa e recente anche in ordinamenti occidentali.
Dunque, esaminando prima la conclusione del matrimonio e poi i rapporti che dal contratto matrimoniale si vengono ad instaurare tra i coniugi, mi soffermerei, per quanto riguarda l'accordo matrimoniale, sul punto centrale - già da me menzionato - della partecipazione diretta della donna alla conclusione del contratto. Tutte le scuole, nel diritto classico, sono d'accordo nel riconoscere la validità del matrimonio concluso tra il marito ed il wali ovvero il tutore della donna. Il wali è il rappresentante legale nel senso che la donna non può scegliere chi la rappresenterà ma tale ruolo è svolto dalla persona indicata dalla legge: il padre o parenti agnati secondo un determinato ordine. Quindi, tutte le scuole sono d'accordo sulla validità del matrimonio concluso dal tutore; alcune, però, ammettono che sia valido anche il matrimonio concluso direttamente dalla donna che, quindi, diventa parte del contratto matrimoniale. Per quanto riguarda le leggi in vigore oggi, nei paesi musulmani - in particolare in quelli arabi - bisogna osservare che il riconoscimento della partecipazione diretta della donna si diffonde ma non è accolto ovunque. Per esempio, per quanto riguarda il Marocco, solo nel caso in cui la donna sia orfana di padre - e maggiorenne, naturalmente - può concludere da sé il matrimonio. Tuttavia, va rilevato che esistono solo due paesi che chiedono obbligatoriamente che sia
la donna a manifestare il consenso; si tratta della Tunisia e dell'Iraq, paesi in cui il tutore non può concludere il matrimonio. Con riferimento al tutore, vanno considerato i seguenti aspetti. Vi è un problema, trattato dal diritto musulmano, che possiamo considerare superato; mi riferisco alla possibilità che il tutore obblighi la donna al matrimonio cioè concluda il matrimonio a prescindere dalla volontà della donna. Ciò, oggi, è unanimemente escluso ma resta un altro problema afferente alla libertà della donna di concludere il matrimonio nel caso in cui il wali - il padre o il fratello - sia contrario al matrimonio. Dunque, oggi è indiscusso che occorra il consenso della donna; tuttavia, a volte, è richiesto anche, oltre al consenso della donna, quello di un rappresentante della famiglia.
Un altro tema che si può riconnettere alla conclusione del matrimonio è quello del mahr, espressione talvolta tradotta con la parola «dote». Tale interpretazione del termine è alquanto equivoca perché fa pensare a qualcosa che la donna porta alla vita matrimoniale mentre si tratta di una attribuzione patrimoniale fatta in relazione al matrimonio dallo sposo alla donna. L'istituto, che nel corso del XX secolo è stato anche criticato all'interno dei paesi musulmani stessi, da alcuni che vi vedevano una sorta di mercificazione del matrimonio, in realtà è un istituto molto complesso che può anche essere una risorsa preziosa per la tutela dei diritti della donna.
Sempre in relazione alla conclusione dell'atto di matrimonio si pone il profilo della poligamia, presentata sotto il capitolo degli impedimenti matrimoniali. Si sostiene, infatti, che l'uomo non possa sposare la quinta donna; si possono sposare fino a quattro donne. Anche in tal caso, vi è dunque una discriminazione per la possibilità per l'uomo, e non per
la donna, di stringere più rapporti matrimoniali. Dal punto di vista del diritto attuale, vi è una tendenza generalizzata a stabilire sistemi di controllo e di contenimento della poligamia attraverso un controllo giudiziario e, anche, talora, attraverso norme di legge che possono essere interpretate nel senso di non consentire che la bigamia. Quindi, si tratta di un abbassamento del limite delle mogli consentite. La Tunisia vieta la poligamia; il fatto, poi, che la legge preveda la poligamia non significa che questa venga praticata. Anche ciò costituisce un fenomeno che va accertato paese per paese e situazione per situazione.
Per quanto riguarda i rapporti tra i coniugi, anche in tal caso vediamo che l'uomo e la donna svolgono funzioni infungibili occupando spazi diversi all'interno del matrimonio. L'uomo è il capo della famiglia e la donna gli deve obbedienza e sottomissione. Sui limiti di tale obbedienza e sottomissione, un principio generale che deriva dall'essere il marito capo della famiglia, ebbene, sui limiti del dovere di obbedienza bisogna accertare la situazione da paese a paese. Ciò, ad esempio, per sapere se la donna, senza l'autorizzazione del marito, può svolgere un'attività lavorativa, uscire di casa ovvero avere un passaporto, e via dicendo. Quindi, il principio di per sé soltanto non dà il contenuto delle regole - regole che sono molto diverse da paese a paese - applicate ai rapporti tra uomo e donna.
Dal punto di vista giuridico, l'obbligo di obbedienza trova un corrispettivo nel dovere in capo al marito di mantenere la moglie. Il rapporto tra dovere di obbedienza e dovere di mantenimento è visto in termini di corrispettività. La donna ha - secondo il diritto classico - diritto al mantenimento a prescindere dalla sua situazione di bisogno. Secondo la mentalità tradizionale, una donna che non riceve il mantenimento
viene offesa. Anche in tal caso le leggi spesso intervengono a mutare questo rapporto tradizionale a vantaggio dell'uomo, nel senso che l'uomo ha sempre il diritto ad essere ubbidito, però spesso anche quello ad essere mantenuto, se in condizione di bisogno. La donna viene molto di frequente chiamata a mantenere i figli (obbligo che normalmente gravava sul marito in via esclusiva).
In ultimo, la posizione dell'uomo e della donna sono diverse quanto ai modi di scioglimento del matrimonio. Il rimedio maschile è quello del ripudio, cioè una semplice dichiarazione privata non recettizia (che ha effetto anche se la destinataria non ne ha conoscenza) della volontà di sciogliere il matrimonio. Invece, per la donna, alcune scuole e tutte le leggi attualmente in vigore prevedono la possibilità di chiedere il divorzio, quindi una procedura giudiziaria che è piuttosto complessa da affrontare, anche perché non esiste l'istituto della separazione (in via teorica la donna deve affrontare l'azione di divorzio rispettando l'obbligo di coabitazione con il marito). Soprattutto l'argomento dello scioglimento del matrimonio andrebbe poi calato nelle varie situazioni, perché noi possiamo avere dati secondo i quali - anche in paesi in cui tradizionalmente la scuola prevalente consentiva alla moglie di chiedere il divorzio - questa via di fatto non viene seguita, in quanto considerata sconveniente. Possiamo riscontrare delle situazioni (come quella di cui sono venuta a conoscenza a proposito dell'Algeria) in cui le donne, che in effetti vivono in un contesto familiare diverso da quello dipinto dal legislatore, chiedono il divorzio sulla base di cause che normalmente si penserebbero non praticabili (ad esempio, lamentando di essere trascurate sessualmente dal marito). Si tratta, questa, di una ipotesi di divorzio che sembrava essere stata inserita nella legge algerina più che altro per una volontà di conservare fin
nei tratti più arcaici il diritto musulmano e che, invece, viene utilizzata dalle donne come mezzo particolarmente efficace per chiedere il divorzio. Dicevo che spesso, piuttosto che chiedere il divorzio, si preferisce accordarsi sul ripudio. Esiste il ripudio dietro corrispettivo, in virtù del quale la donna si impegna a rinunciare a certi suoi diritti o a trasferire dei diritti al marito per ottenere di essere ripudiata. Anche il ripudio oggi è sottoposto a limitazioni e controlli.
Ritengo che queste notizie sul rapporto matrimoniale siano importanti per capire il contesto generale del diritto matrimoniale, anche se poi un matrimonio concluso in Italia in forma musulmana non sarebbe comunque assolutamente toccato da questo istituto. La situazione della donna è poi anche condizionata da regole che non attengono strettamente al diritto matrimoniale, come potrebbero essere quelle sul rapporto tra genitori e figli oppure le regole in materia successoria. Su tali aspetti sono a vostra disposizione, se dovesse esserci interesse ad affrontarli.
PRESIDENTE. La ringrazio, professoressa. Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire o porre delle domande.
MARCELLO PACINI. Desidero ringraziare la professoressa Aluffi nonché invitarla ad intervenire su un terreno che ha soltanto citato all'inizio e poi non affrontato: quello della discriminazione religiosa. Vorrei capire se la situazione di offesa al principio di uguaglianza per cause religiose sia basata su un fatto culturale oppure se vi siano delle norme giuridiche che giustificano e regolano questa forma di discriminazione.
ROBERTA ALUFFI BECK PECCOZ, Professore associato di sistemi giuridici comparati presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino. Mi riferivo, appunto, alle sanzioni
giuridiche, che possono rinvenirsi in diversi profili del diritto di famiglia. Ad esempio, tutti conoscono l'impedimento per differenza di fede, per il quale l'uomo musulmano può sposare la donna cristiana o ebrea, ma l'uomo cristiano o ebreo non può sposare la donna musulmana. Qui si sovrappongono una discriminazione di tipo religioso ad una di genere, nel senso che la donna musulmana ha rispetto all'uomo una possibilità di scelta del coniuge più ristretta. Esistono anche norme discriminatorie in materia di rapporto con i figli. Padre e madre giocano in proposito ruoli diversi: la potestà è esclusivamente paterna (l'unica ipotesi di potestà parentale è prevista dalla legge della Tunisia) e la madre deve occuparsi materialmente dell'allevamento dei figli. Tuttavia, la custodia materna dei figli è rappresentata come un diritto-dovere della madre, cioè la madre ha contemporaneamente il diritto ma anche il dovere di occuparsi dei figli. Se la madre - come consentono le leggi sulle combinazioni matrimoniali - è una non musulmana, può subire delle restrizioni, nel senso di vedersi scadere il periodo di custodia prima di quando avverrebbe se fosse musulmana oppure trovarsi sempre nella situazione per la quale si teme che essa allontani i figli dalla religione paterna (ciò che determina la decadenza dal diritto di custodia). In effetti, la discriminazione religiosa può assumere anche una dimensione più globale. In proposito si pensi che in certi paesi (dato che il matrimonio si può concludere solo in forma religiosa e sono a tal fine riconosciute soltanto alcune religioni), se non si appartiene alle confessioni ammesse si può arrivare a vedersi negato in radice il diritto di costituire una famiglia, perché non c'è una forma di matrimonio disponibile per fondarla.
MARCELLO PACINI. Vorrei chiedere se può esplicitare quali siano queste religioni ammesse.
ROBERTA ALUFFI BECK PECCOZ, Professore associato di sistemi giuridici comparati presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino. Fondamentalmente, si tratta delle religioni cosiddette celesti, rivelate; quelle delle genti del Libro. Dunque, la religione ebraica, quella cristiana, in diverse varianti, naturalmente. Per esempio, in Egitto, esistono una quindicina di confessioni riconosciute - anche se non tutte attualmente rappresentate - che possono concludere nella forma religiosa il matrimonio tra i rispettivi fedeli ovvero tra i rispettivi aderenti. Se, invece, si dovesse - e parlo sempre dell'Egitto - concludere un matrimonio tra due persone appartenenti a due confessioni diverse nessuna delle quali, comunque, fosse l'Islam, il diritto applicabile sarebbe quello islamico in quanto, per così dire, diritto «comune» dello Stato.
Mentre parlavo dell'Egitto, mi è venuta in mente un'altra possibile e più grave conseguenza di una concezione non egualitaria delle religioni; mi riferisco alle conseguenze dell'abbandono della fede islamica sul vincolo matrimoniale, vincolo che viene dissolto. L'evenienza si è verificata molto di recente; ricordo il caso di un professore universitario del Cairo, Abù Zayal, il cui matrimonio è stato dichiarato sciolto per abbandono della fede islamica cioè per apostasia.
PRESIDENTE. Poiché nessun altro chiede di intervenire, ringrazio la professoressa Aluffi Beck Peccoz per la chiarezza della sua esposizione. Dichiaro conclusa l'audizione e sospendo la seduta per pochi minuti.
La seduta, sospesa alle 11,50, è ripresa alle 12.
Audizione di PierLuigi Zoccatelli, vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la libertà religiosa, l'audizione di PierLuigi Zoccatelli, vicedirettore del Centro studi sulle nuove religioni.
Saluto il professore ringraziandolo, personalmente e a nome della Commissione, per avere corrisposto all'invito a partecipare all'odierna audizione. Gli do, quindi, senz'altro, la parola.
PIERLUIGI ZOCCATELLI, Vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Vi porgo anzitutto le scuse del direttore del CESNUR, professor Massimo Introvigne, impegnato in questi giorni come visiting professor presso l'Università El Salvador di Buenos Aires, con cui ho peraltro concordato il contenuto di questo breve intervento. Il CESNUR, fondato nel 1988 e che gode di personalità giuridica dal 1996, ha dedicato tredici anni a un lavoro di mappatura delle religioni in Italia, di cui è stato frutto la Enciclopedia delle Religioni in Italia, pubblicata nel 2001, di cui consegno una copia al segretario della Commissione.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIANCLAUDIO BRESSA
PIERLUIGI ZOCCATELLI, Vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Da questa ricerca, accolta favorevolmente dalla stampa specializzata (e anche non specializzata) italiana e straniera, emerge una serie di dati empirici che possono essere forse utili alla Commissione. In Italia nel 2001 erano attive 616 aggregazioni religiose (615 minoranze religiose,
più la Chiesa cattolica), molte delle quali peraltro piccole o piccolissime. Tra i cittadini italiani i membri di tutte le minoranze religiose - dagli ebrei al più piccolo gruppo di recente importazione giapponese - risultavano 1.110.300, cioè l'1,92 per cento della popolazione italiana come risulta dalla tabella 1, che suggerisco sia allegata agli atti.
La cifra è diversa se prendiamo in considerazione non i cittadini italiani, ma i residenti sul territorio (cioè anche gli immigrati). In questo caso, gli appartenenti a minoranze religiose salgono a 1.947.300, o al 3,50 per cento della popolazione residente sul territorio, tenendo conto della tabella 2, relativa agli immigrati e al 2001, che chiederei anche di allegare agli atti.
Devo forzatamente, per brevità, rimandare alla nostra Enciclopedia delle religioni in Italia per una spiegazione dei nostri criteri di calcolo parzialmente diversi, per esempio, da quelli della Caritas, non senza notare che nel suo rapporto Immigrazione Dossier Statistico 2002, pubblicato in ottobre, la stessa Caritas ha integrato su alcuni punti i suoi dati con altri di fonte Cesnur.
Dunque l'Italia è caratterizzata da un ampio pluralismo religioso quanto al numero delle minoranze presenti, ma non quanto al numero dei membri delle minoranze. A fronte del 38 per cento di italiani che sono in contatto con qualche regolarità con la Chiesa cattolica (una cifra assai più significativa di quella dei semplici battezzati), tutte le minoranze messe insieme rappresentano meno di un decimo del dato cattolico attivo, anche contando gli immigrati. La minoranza più consistente tra i cittadini è costituita dai Testimoni di Geova che, da soli, superano tutte le comunità protestanti messe insieme; se si considerano gli immigrati, il primo posto spetta invece ai musulmani. Peraltro solo tre minoranze
religiose (nell'ordine i musulmani sunniti, i Testimoni di Geova, e le Assemblee di Dio, una denominazione protestante pentecostale che già gode di Intesa) superano i centomila membri, anche se è probabile che nel giro di qualche anno se ne aggiunga una quarta, la Chiesa Ortodossa romena grazie all'emigrazione dalla Romania.
Il CESNUR non utilizza, da molti anni, il termine «setta», che tende ora a uscire dall'uso scientifico e accademico per le sue connotazioni valutative (setta nel linguaggio comune è sempre più intesa come realtà pericolosa o comunque non affidabile).
Anche intendendo comunque il diverso termine utilizzato nel linguaggio accademico comune - «nuovo movimento religioso» - nel senso più ampio, si possono rubricare in Italia 353 nuovi movimenti, con un numero di membri che rimane tuttavia al di sotto dell'uno per 100 della popolazione. Non c'è dunque nessuna invasione delle sette: semmai una invasione delle sigle e delle proposte religiose alternative, come avviene in tutte le società post-industriali avanzate, nel quadro di una globalizzazione che tocca anche la sfera del religioso.
Un secondo tema di cui il CESNUR si occupa è lo studio dell'atteggiamento degli Stati moderni nei confronti delle minoranze religiose, compresi i casi più marginali e problematici. Per esempio, il nostro centro ha partecipato con tre relazioni introduttive all'incontro diplomatico organizzato a Vienna il 22 marzo 1999 dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa sul tema della libertà di religione, e ha testimoniato di fronte alle commissioni parlamentari svedese e tedesca che si sono occupate di sette. Il CESNUR ha un rapporto di consulenza con diverse agenzie che si occupano di sicurezza in tema di minoranze religiose pericolose o violente, compreso l'FBI. Da un esame comparativistico e dalla
partecipazione, per così dire, in prima persona alle controversie di questi anni, ci siamo fatti diverse idee e ne sottoponiamo due all'attenzione della Commissione.
La prima è che, nelle numerose conferenze internazionali cui il CESNUR ha partecipato e in documenti di enti che vanno dalle Nazioni Unite alle diverse commissioni degli Stati Uniti che si occupano di libertà religiosa, il sistema di riconoscimento plurimo italiano è sempre stato elogiato come uno dei più rispettosi della libertà religiosa delle minoranze, anzi suggerito come possibile modello per paesi di nuova democrazia dell'Est europeo, caratterizzati come l'Italia dalla sproporzione fra le dimensioni di una chiesa nettamente maggioritaria e quelle delle numerose realtà minoritarie, spesso di recente implantazione. Il nostro sistema prevede quattro livelli: garantisce una libertà religiosa più ampia rispetto a quello di diversi nostri vicini europei anche a chi non gode di alcun riconoscimento; collega al riconoscimento alcuni specifici vantaggi; crea con le intese una categoria di confessioni e realtà religiose con cui lo Stato collabora in modo speciale e di cui riconosce il ruolo; infine, riconosce costituzionalmente il ruolo unico nella storia e nella cultura italiana della Chiesa cattolica. Si tratta - a fronte di critiche che in Europa hanno colpito soprattutto la Francia e la Russia - di una posizione di cui l'Italia può andare giustamente orgogliosa e che è importante non mettere in pericolo. Certo, talora la natura religiosa o non religiosa di una realtà può risultare controversa: in questo caso, la nostra giurisprudenza si orienta ad accogliere definizioni ampie di religione, come nel caso della monumentale sentenza della Cassazione dell'8 ottobre 1997 che afferma la natura religiosa della chiesa di Scientology e che contiene un'ampia disamina su questi problemi definitori (preciso, peraltro, che - contrariamente a
quanto ho sentito affermare in altre audizioni - né in Francia né in Germania Scientology è «messa al bando»: iniziative o minacce dei rispettivi governi hanno finora incontrato la resistenza della magistratura giudicante).
La seconda conclusione è che grazie sia al suo sistema di tutela della libertà religiosa, sia alla decisione della Corte costituzionale dell'8 giugno 1981, che ha eliminato dal nostro ordinamento giuridico il reato di plagio, l'Italia è riuscita a non farsi coinvolgere dai panici morali sul tema delle cosiddette sette che hanno invece causato problemi internazionali ad altri paesi, anche europei. Evidentemente non potendo gli Stati, laici per definizione, adottare distinzioni teologiche o fenomenologiche fra religioni e sette, quando hanno voluto colpire queste ultime con una legislazione speciale (tipico il caso della legge introdotta in Francia il 30 maggio 2001) hanno introdotto come criterio discriminante nozioni variamente chiamate manipolazione mentale, plagio o lavaggio del cervello, che sarebbero usate dalle sette e non dalle religioni. Peraltro, la stragrande maggioranza degli specialisti accademici di nuove religioni ha obiettato che la stessa nozione di manipolazione mentale è assai dubbia, e comunque questo non è un criterio valido per distinguere le sette dalle religioni. A queste conclusioni sono pervenute anche alcune Commissioni parlamentari che si sono occupate del problema (per esempio quella tedesca e quella svedese) e - come è già stato ricordato in un'altra audizione - le chiese cattolica e protestanti hanno preso posizione - ad esempio, in Francia - contro leggi che si richiamano a concetti vaghi che potrebbero essere applicati contro esperienze forti interne a qualunque religione.
Nella nostra esperienza, le leggi speciali contro le sette fondate sulla nozione vaga e in gran parte mitologica del «lavaggio del cervello» hanno due difetti: sono forti con i
deboli e deboli con i forti. Per una piccola realtà è facile rimanere impigliata in accuse fumose e che non corrispondono a nozioni di cui esistano definizioni generalmente accettate nella comunità scientifica; per chi veramente approfitta dei più deboli è molto più facile difendersi da censure vaghe come quella di essere una setta e praticare il «lavaggio del cervello», che non da accuse assai più precise che fanno riferimento alla truffa, al furto, magari alla violenza carnale o allo sfruttamento sessuale dei minori. Ogni volta che un episodio di cronaca mette in luce reati comuni compiuti sotto la maschera della religione o dell'occultismo si grida alla necessità di leggi speciali, e si menziona il presunto vuoto giuridico che sarebbe stato creato dalla sentenza del 1981 sul plagio (che vuoto non è, se si immagina che il plagio non abbia un'esistenza empirica definita, il che era precisamente quanto affermava la sentenza stessa). In realtà, l'esperienza di altri paesi insegna che le patologie del sacro si combattono molto più efficacemente colpendo i malfattori per le loro violazioni delle leggi comuni, mentre le leggi speciali sono sia potenzialmente liberticide, sia attualmente inefficaci proprio per i casi che l'opinione pubblica vorrebbe colpire.
Da ultimo, vengo al giudizio del CESNUR sul progetto di legge. Al riguardo, credo si debba distinguere fra tre realtà diverse, sovente confuse: l'articolato della legge, la relazione che l'accompagna, e il modo in cui la legge è stata presentata alla stampa e dalla stampa.
Il nostro giudizio sull'articolato della legge è positivo: si tratta di uno strumento opportuno, che risolve problemi pratici unificando norme oggi sparse e in parte derivanti da interventi della Corte costituzionale, nel loro complesso per lo più già esistenti ma di non facile reperimento e coordinamento e veramente difficili da «maneggiare» per l'utente non specializzato.
Le innovazioni della legge esistono, ma sono di dettaglio: si tratta più di una sorta di testo unico, che raccoglie norme o consacra prassi già in vigore, con evidenti vantaggi per gli utenti. Nutriamo qualche maggiore perplessità sulla relazione, che talora ci sembra troppo enfatica presentando come innovazioni epocali semplici atti di coordinamento di principi e norme che già esistono nel nostro ordinamento e che, in qualche accenno, possano sembrare sminuire il principio del ruolo del tutto unico attribuito nel dettato costituzionale al Concordato con la chiesa cattolica, che non è uguale alle intese con le altre confessioni, così come unico è il ruolo del cattolicesimo nella nostra storia e nella nostra cultura.
Maldestra è stata poi la presentazione giornalistica del progetto di legge, come se si trattasse di un prodromo alla stipulazione di un'intesa fra Stato italiano e Islam: una presentazione che confonde due piani di problemi del tutto diversi e che rischia però di dominare il dibattito sviandolo dai suoi temi centrali, così come poi è puntualmente avvenuto. Ma le riserve sulla relazione e sui comunicati stampa non tolgono il giudizio positivo sull'articolato.
Vorrei affrontare conclusivamente alcuni problemi specifici, che sono già emersi in queste audizioni. Il primo è quello dell'ateismo e della presunta parificazione nel disegno di legge fra ateismo e religioni. Vi è qui una confusione tra libertà di coscienza e libertà religiosa. Il progetto di legge riconosce il diritto alla scelta non religiosa sul piano individuale della libertà di coscienza: questa non è una novità e si ritrova nelle convenzioni internazionali cui l'Italia aderisce.
Il progetto di legge invece non riconosce affatto diritti alle organizzazioni degli atei militanti o degli «umanisti» non religiosi in quanto associazioni. Sarebbe in effetti discutibile riconoscere come paradossali confessioni religiose le organizzazioni
dei liberi pensatori, sia per ragioni di principio, sia per ragioni di rappresentatività: se è vero che gli atei e gli agnostici sono in Italia l'11 per cento (ancorché vadano diminuendo, secondo una curva calante ormai osservata da parecchi anni), è anche vero che le tre organizzazioni che aspirano a rappresentarli hanno solo qualche centinaio di iscritti. Ma il progetto di legge non offre alcun appiglio a un riconoscimento come confessioni religiosamente irreligiose di queste associazioni di atei, che rimarranno protette dalle norme sulla libertà di associazione in genere, non da quelle sulla libertà religiosa.
Il secondo punto è quello delle intese in genere. A noi non sembra che il nuovo progetto di legge offra la possibilità di pervenire alle intese a realtà religiose che, senza la nuova legge, dalle intese sarebbero state escluse per diverse ragioni di opportunità. Il disegno di legge dice qualcosa sulla forma delle intese, non sui contenuti o sui soggetti titolati a stipularle. Ciò detto, sarebbe certo auspicabile che il clima creato dal disegno di legge sbloccasse assai presto la situazione per quelle intese che già da tempo il Governo ha sottoscritto e che il Parlamento tarda a ratificare, talora impressionato da obiezioni di piccoli gruppi di pressione la cui rappresentatività è a sua volta tutta da verificare.
Il terzo punto è quello delle domande di intesa presentate da cinque organizzazioni islamiche italiane. Alcuni temono che il disegno di legge, ove approvato, determini automaticamente la conclusione di queste intese. Letto e riletto il disegno di legge, a noi non sembra che contenga nulla di simile, al di là di certe frettolose presentazioni di stampa. In effetti, non è snellendo qualche procedura o richiedendo qualche timbro in meno che si risolvono i problemi delle intese con l'Islam, che sono molti e allo stato, a nostro avviso, insormontabili. Per esemplificare, li riduco a tre.
Anzitutto, non vi è prova che l'una o l'altra delle organizzazioni islamiche che hanno presentato domanda di intesa rappresentino la maggioranza dei musulmani italiani. Diverse indagini anche recenti hanno rivelato che oltre il 90 per cento dei musulmani presenti in Italia non si identifica con nessuna delle associazioni (tra l'altro, gli immigrati hanno difficoltà a sentirsi rappresentati da dirigenti che sono spesso invece convertiti italiani). I musulmani presenti in Italia sono circa seicentomila. Le piccole organizzazioni ne rappresentano qualche decina o qualche centinaio; la più rappresentativa - l'Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia - qualche migliaio. Non vale il paragone che si è talora proposto con l'Unione Buddhista Italiana (UBI): l'UBI, infatti, federa tutte le realtà più rappresentative del buddhismo italiano tranne una (la Soka Ga
ai), che ha però più volte espresso parere favorevole all'intesa fra Stato e UBI, che del resto aprirebbe la strada a un'intesa separata, già in fase di negoziato, con la stessa Soka Ga
ai. Inoltre, la storia dell'UBI mostra le sue notevoli capacità di fare collaborare fra loro le varie componenti del buddhismo italiano, mentre il mondo islamico è caratterizzato da un elevato tasso di litigiosità e i tentativi, strumentali all'intesa, di costituire organismi di rappresentanza più o meno unitari hanno avuto quasi sempre vita effimera. L'UBI può affermare in modo veridico di rappresentare la gran parte dei buddhisti italiani, e le voci che nel mondo buddhista si oppongono all'intesa con l'UBI sono del tutto trascurabili; invece, nessuna delle organizzazioni islamiche italiane può affermare di rappresentare la maggioranza dei musulmani italiani e ognuna delle bozze di intesa presentate ha i suoi oppositori più feroci anzitutto all'interno del mondo islamico.
In secondo luogo, se è vero che non tutti i musulmani sono fondamentalisti e non tutti i fondamentalisti perseguono i loro scopi con mezzi violenti o terroristici, è anche vero che il fondamentalismo islamico (anche quello pacifico e rispettoso delle leggi) è un'ideologia difficilmente compatibile con i nostri valori costituzionali. La dirigenza delle organizzazioni islamiche che hanno presentato domanda di intesa si trova in questa condizione: o non è fondamentalista ma rappresenta solo poche decine o centinaia di persone che fanno capo a realtà assolutamente minoritarie; ovvero rappresenta in effetti qualche migliaio di persone, ma ha legami evidenti con la prospettiva fondamentalista (laddove, insisto ancora, per fondamentalismo non si intende necessariamente radicalismo o terrorismo). È il caso dell'UCOII - la già menzionata Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia - la cui dirigenza ha legami ben noti con la maggiore organizzazione fondamentalista mondiale, quella dei Fratelli musulmani.
Quanto alla Lega musulmana mondiale e al Centro islamico culturale d'Italia, si tratta di organismi di cui è altrettanto noto il legame con l'Arabia Saudita, le cui posizioni di politica estera non possono farci dimenticare la stretta applicazione in patria dei principi di un Islam puritano, ultraconservatore in materia di condizione femminile e familiare, fondato sulla dura ideologia wahabita. Concludendo intese con questi gruppi, si rischia quindi di legittimare artificialmente una dirigenza fondamentalista o ultraconservatrice, paradossalmente imponendola alla maggioranza silenziosa dei musulmani presenti in Italia, che non sono membri di alcuna associazione.
In terzo luogo - come dimostra il contenuto stesso delle bozze di intesa (su cui mi permetto di rinviare ad un recente studio recente del professore Agostino Cilardo, Il diritto
islamico e il sistema giuridico italiano. Le bozze di intesa tra la Repubblica italiana e le associazioni islamiche italiane, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002) -, l'Islam ha caratteristiche specifiche e uniche (che non si ritrovano certamente nel buddhismo!) in materia di statuto giuridico e personale della donna, matrimonio, eredità, elemosina legale e così via, tutti aspetti difficili da coniugare con i principi del nostro ordinamento. Il lettore del lavoro, certamente equilibrato e moderato, del professore Cilardo si convincerà che la strada per un'intesa - con la «i» minuscola - sul piano delle idee, preliminare alla intesa con la «i» maiuscola, è ancora molto lunga. Devo quindi concordare con il professore Castro, il quale ha affermato in una precedente audizione che «le intese con le comunità musulmane sono ancora lontane». Allo stato dell'organizzazione dell'Islam italiano, vorrei affermare con chiarezza che sottoscrivere le bozze di intesa presentate non mi sembra opportuno. Questo non significa che specifici problemi, per esempio cimiteriali o legati al digiuno del Ramadan, non possano e non debbano trovare soluzioni di buon senso che assicurino il pieno esercizio della libertà di culto e di religione ai musulmani presenti in Italia, il che di per sé non richiede un'intesa. Nulla, tuttavia, nel progetto di legge che stiamo esaminando si occupa direttamente, né indirettamente, dell'ipotesi di intesa con le associazioni islamiche, e neppure le rende più facili, dal momento che le ragioni che a tali intese si oppongono sono strutturali e non formali.
Mi sembrerebbe quindi opportuno tenere separato il problema dell'intesa con l'islam da quello del disegno di legge; si tratta di due problemi diversi che sono stati confusi, a mio avviso, impropriamente. Questa non è una legge sull'islam ma sulla libertà religiosa in Italia; non è una rivoluzione copernicana
nel modo in cui lo Stato tratta la materia religiosa, ma uno strumento utile e opportuno che renderà più agevole il funzionamento di un modello italiano che, tollerante anche delle minoranze più impopolari e giustamente ammirato all'estero, va preservato e messo in condizioni di continuare a operare, senza cedere a suggestioni che generalizzano problemi particolari e che con il progetto di legge hanno però ben poco a che fare. Vi ringrazio per l'attenzione.
PRESIDENTE. Ringrazio il professore Zoccatelli e do la parola ai colleghi che desiderano intervenire.
MARCELLO PACINI. Professore, mi pare che lei abbia detto che ci siano alcune centinaia di minoranze religiose. Sulla base della sua esperienza e dei suoi studi, quante di queste hanno diritto a chiedere il riconoscimento e quindi a firmare una eventuale intesa?
PIERLUIGI ZOCCATELLI, Vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Mi risulta più facile immaginare quante di queste (sia per dimensioni numeriche, sia per una loro presenza continuativa e storica nel nostro territorio o, comunque, nella nostra cultura, sia per il loro statuto giuridico interno) potrebbero aspirare a uno status del genere. Se al momento attuale sono una ventina la realtà che già hanno in qualche modo avviato progetti di riconoscimento in quanto confessione religiosa o bozze di intesa con lo Stato italiano, in prospettiva credo che, forse, alcune decine tra le 353 minoranze che ho prima richiamato (fra le 615 aggregazioni presenti sul nostro territorio) potrebbero aspirare, in tesi, ad una intesa e avrebbero forse le caratteristiche per potervi pervenire. Peraltro, l'origine di buona parte di queste realtà proviene in genere dal mondo cristiano o protestante, nel
mentre la maggiore confessione del protestantesimo pentecostale in Italia (le Assemblee di Dio) ha già stipulato un'intesa con lo Stato italiano.
NUCCIO CARRARA. Vorrei sapere se dai vostri studi si possa ricavare un dato concernente il rapporto numerico tra religioni di ispirazione monoteista ed altri tipi. Credo che all'interno delle 615 minoranze la maggior parte sia sicuramente di ispirazione monoteista, ma sicuramente ne esistono altre che si ispirano al politeismo o a religioni di tipo pagano. Lei poc'anzi ha citato il buddhismo, vi sono altri fenomeni del genere?
PIERLUIGI ZOCCATELLI, Vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Vi è anche, per fare un rapido esempio, una realtà presente da tempo sul territorio italiano, l'Unione Induista Italiana, che ha in Liguria uno dei più grandi templi induisti in Europa, e che a sua volta ha già avviato una bozza di intesa con lo Stato italiano, nel 2001. Essa federa indicativamente circa diecimila devoti (fedeli) nel nostro paese. Esistono poi altre poche migliaia di cosiddetti neo-induisti, come pure qualche migliaio di fedeli di confessione sikh, o radhasoami, o baha'i. Quanto al mondo monoteistico, dall'ambito dei cittadini italiani appartenenti a minoranze religiose - 1 milione e 100 mila 300 - dobbiamo estrapolare gli oltre 400 mila testimoni di Geova, gli oltre 360 mila protestanti, i 35 mila ebrei, i 20 mila appartenenti al mondo del cosiddetto cattolicesimo di «frangia», e così via. Come si vede, si raggiunge facilmente la quasi totalità del panorama delle minoranze religiose in Italia, perché indicativamente circa 800-900 mila fedeli di minoranze religiose nel nostro paese appartengono in qualche modo al patrimonio delle tradizioni religiose monoteistiche e in particolare di provenienza cristiana.
Le minoranze di provenienza politeista, o comunque non monoteista in senso stretto, dicono relazione prevalentemente al mondo induista, buddhista e sikh. Direi che nel suo complesso questo segmento federa nel nostro paese un centinaio di migliaia di persone che hanno socializzato le loro credenze.
NUCCIO CARRARA. Vorrei farle un'altra rapida domanda. Lei ha avanzato forti dubbi sulla compatibilità dell'Islam con il nostro ordinamento, sulla quale, peraltro, concordo pienamente. Per quanto concerne le altre minoranze, risultano dai vostri studi altre compatibilità critiche o addirittura una mancanza di compatibilità con il nostro ordinamento? Detto diversamente, ci sono altre minoranze religiose che possono essere incompatibili con il nostro ordinamento e che aspirano a pervenire ad intesa?
PIERLUIGI ZOCCATELLI, Vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Fra quelle che aspirano a pervenire ad intesa, non mi pare.
MARCELLO PACINI. Ed in generale, tra queste 615 minoranze, quante sono quelle che, a suo avviso, professano fedi o hanno ordinamenti contrari al nostro all'ordinamento pubblico?
PIERLUIGI ZOCCATELLI, Vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Per quanto si tratti di minoranze assolutamente marginali dal punto di vista numerico, mi viene facile reputare che, per fare un solo esempio, a suo modo paradossale, le aggregazioni sataniste avrebbero qualche difficoltà di incasellamento nell'ordinamento giuridico italiano in vista di un riconoscimento. Vi è peraltro un settore, anch'esso
assai ridotto (noi lo cataloghiamo nell'ambito di una quindicina di migliaia di persone in Italia), di cui fanno parte minoranze spirituali, che fanno riferimento alla cosiddetta nebulosa mistico-esoterica, al mondo dell'esoterismo o dell'occultismo...
NUCCIO CARRARA. Che comunque non aspirano...
PIERLUIGI ZOCCATELLI, Vicedirettore del Centro Studi sulle Nuove Religioni. Che, appunto, allo stato attuale delle cose non aspirano a un riconoscimento quale confessione religiosa. Si tratta di realtà che spesso hanno dieci, quindici o cinquanta membri ciascuna e perciò non si vede, anche in un'ottica interna, a quale titolo potrebbero aspirare a un riconoscimento. Ciò non toglie che alcune realtà, che fanno riferimento a un sistema di valori spirituali che può anche relazionarsi a un patrimonio mitico-simbolico di tradizione esoterica, abbiano avviato trattative dirette non alla stipula di un'intesa con lo Stato, ma ad altri fini (ad esempio, per il riconoscimento di confessione religiosa). Ciò è avvenuto, mi risulta, nel caso di un movimento olandese, presente nel nostro paese con meno di un migliaio di membri, che ha chiesto appunto in anni recenti il riconoscimento come confessione religiosa.
PRESIDENTE. Ringraziamo nuovamente il professor Zoccatelli per la sua relazione.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 12,35.
ALLEGATI
ALLEGATO 1
ALLEGATO 2
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