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La prossima cristianità. L’avvento del cristianesimo globale
di Philip Jenkins: una recensione

 Massimo Introvigne

Philip Jenkins è professore di Storia e studio delle religioni presso la Penn State University di  University Park (Pennsylvania), ed è considerato una delle voci più autorevoli nel campo sia della storia, sia della sociologia delle religioni negli Stati Uniti. Apprezzato da un certo establishment di orientamento liberal per le sue prese di posizione contro regimi autoritari in America Latina e in Asia, Jenkins si è peraltro anche reso noto per la sua franca messa in discussione di miti e idee “politicamente corrette” care allo stesso establishment, per esempio in tema di incidenza della pedofilia all’interno del clero cattolico[1], di nuovi movimenti religiosi e di movimenti anti-sette[2]. Immediatamente accolto da un grande interesse, il nuovo studio di Jenkins – La prossima cristianità. L’avvento del cristianesimo globale[3] -  è destinato ad assumere un ruolo centrale nel dibattito sul presente e sul futuro del cristianesimo. Per quanto – a mio avviso – non tutte le valutazioni siano condivisibili, e talora le opinioni politiche dell’autore ne condizionino l’analisi, lo studio è destinato a fare epoca perché rimette al centro della riflessione storica e sociologica il concetto di “cristianità” (christendom) in quanto distinto da “cristianesimo” (christianity). Da una parte, come annuncia la copertina interna, Jenkins affronta ancora una volta un’idea comune e “politicamente corretta” mostrandola come falsa: “I commentatori occidentali hanno recentemente dichiarato che il cristianesimo è in declino, ovvero che dovrebbe modernizzare le sue credenze per non correre il rischio di essere del tutto abbandonato. (…) E’ vero esattamente il contrario (…)”. Dall’altra, l’opera di Jenkins costituisce dichiaratamente un contrappunto e un commento, dal punto di vista della storia e della sociologia delle religioni, al notissimo studio di Samuel P. Huntington Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale[4].

Nel capitolo introduttivo (pp. 1-11), Jenkins muove da un’osservazione già formulata da altri commentatori di Huntington, ma va al di là di questi ultimi nelle conseguenze che ne trae. E’ noto che Huntington si è servito nel suo studio di statistiche sulle religioni che derivano dalla World Christian Encyclopedia di David B. Barrett, uno studioso americano che è considerato il più autorevole esperto mondiale di statistica religiosa. Tuttavia – per ovvie ragioni cronologiche, e benché per la verità Barrett avesse già fatto circolare bollettini di aggiornamento che mettevano in guardia sul punto – Huntington si è servito dell’edizione del 1982 della World Christian Encyclopedia[5] che conteneva dati aggiornati al 1980, ma anche proiezioni al 2000 e al 2025. Sulla base di questi dati, Huntington prevedeva il “sorpasso” su scala mondiale dell’islam sul cristianesimo per il 2025[6]. Una seconda edizione dell’opera di Barrett è stata pubblicata nel 2001[7]. I dati sono stati evidentemente aggiornati, e oggi Barrett non ritiene più di dover prevedere un sorpasso dell’islam sul cristianesimo, né nel 2025 né nel 2050[8]. Le ragioni della revisione del calcolo non derivano dall’esplosione delle denominazioni protestanti pentecostali (che Barrett aveva esattamente previsto già nel 1981; oggi valuta i pentecostali intorno ai 500 milioni), ma in un evento che invece non aveva potuto prevedere: la caduta dell’Impero sovietico nel 1989. Questa caduta ha fatto aumentare (sia pure in modo meno spettacolare di quanto talora si creda) il numero di cristiani ortodossi, e nello stesso tempo ha aperto vasti campi di missione alle denominazioni protestanti di matrice evangelical e pentecostale (nonché alla Chiesa cattolica, almeno in alcune aree geografiche). Inoltre, la caduta del comunismo sovietico ha determinato la caduta o la trasformazione di tutta una serie di regimi di matrice marxista in Africa e in Asia, con la conseguenza che anche in questi paesi sono venute meno precedenti restrizioni all’attività missionaria e alla religione. L’islam, dunque, continua la sua crescita, ma Barrett non prevede più un suo sorpasso nei confronti del cristianesimo globalmente considerato, almeno nel corso del XXI secolo (naturalmente, ogni previsione che vada oltre il secolo corrente è influenzata da un numero tanto vasto di variabili indipendenti da dover essere considerata scarsamente significativa).

Jenkins va oltre il problema tecnico dell’uso delle statistiche di Barrett da parte di Huntington per muovere al politologo di Harvard una critica di fondo. Huntington, secondo Jenkins, ha giustamente rimesso al centro della riflessione la nozione di civiltà. Tuttavia, è rimasto in qualche modo prigioniero di uno schema corrente che lega in modo eccessivo la storia e la cultura alla geografia, identificando la civiltà cristiana (o quanto ne sopravvive) con la civiltà occidentale. In realtà, secondo Jenkins, applicando la stessa nozione di civiltà proposta da Huntington si dovrebbe maggiormente insistere sul fatto che due civiltà possono coesistere nella stessa area geografica. Più che una “civiltà africana” in formazione – su cui Huntington si mostra peraltro piuttosto incerto – Jenkins vede nell’Africa contemporanea la presenta conflittuale di due civiltà: una civiltà islamica africana, e una civiltà cristiana (o cristianità) africana. Così esisterebbe anche una vigorosa cristianità asiatica, che avrebbe i suoi centri nelle Filippine e nella Corea del Sud,  quest’ultimo un paese dove i cristiani “rappresentano una solida maggioranza di quanti dichiarano un’affiliazione religiosa” (compreso, fra l’altro, l’attuale primo ministro: p. 71), così che ascrivere la Corea del Sud, come vorrebbe Huntington, a un’area di civiltà “sinica” o “confuciana” non avrebbe più molto senso. In realtà, secondo Jenkins, si confondono spesso “cristianesimo” e “cristianità”, che sono invece nozioni diverse. Si può concordare con Huntington, secondo lo studioso della Pennsylvania, sull’esistenza - nonostante tutto -  di un cristianesimo come fenomeno unitario, pur considerando le peculiarità del mondo ortodosso (la cui incidenza statistica sull’insieme del cristianesimo è comunque destinata a diventare sempre meno importante), le fiere rivalità tra denominazioni e comunità, e l’esistenza di vigorose realtà che alcuni considerano cristiane e altre no (come i mormoni). Costituisce invece un mito culturale – e il principale obiettivo polemico del volume di Jenkins – l’esistenza di un’unica cristianità, che si identificherebbe con la civiltà romano-germanica europea, poi esportata con successo nelle Americhe e altrove. Certamente questa è una cristianità, e fino a oggi ha avuto un ruolo centrale per definire il cristianesimo; ma questo non esclude che siano esistite in passato – e che possano esistere in futuro – altre cristianità diverse da quella occidentale.

Nel secondo capitolo (pp. 15-38), Jenkins prende – per così dire – di petto quello che chiama “il mito della cristianità occidentale” (p. 16). Che quella occidentale sia l’unica cristianità non è vero, secondo lo studioso americano, da un punto di vista non solo concettuale, ma anche storico. Fin dai suoi esordi, il cristianesimo ha generato una pluralità di civiltà cristiane, piccole o grandi, ciascuna con i suoi caratteri distintivi. A prescindere dal caso evidente della civiltà cristiana bizantina (comunque distinta da quella occidentale), Jenkins parla di una cristianità armena, una alessandrina. una etiopica e una siriaca, ciascuna irriducibile al modello occidentale. Nell’anno 500 d.C. c’erano più cristiani in Africa e in Asia che in Europa; nell’anno Mille erano pressoché equamente divisi (p. 24). L’evoluzione delle statistiche non deriva da una perdita di vigore del cristianesimo, ma dall’avanzata militare dell’islam, che ha peraltro impiegato molti anni a ridurre ai minimi termini le comunità cristiane nelle terre che ha conquistato.

Intorno all’anno Mille un “contadino siriano” e l’“abitante di una città della Mesopotamia” non erano cristiani meno “tipici” di un “artigiano francese” (p. 24). Naturalmente, questo dato rovescia alcuni stereotipi culturali in tema di rapporti fra cristianesimo e islam. “In anni recenti – scrive Jenkins – un potente movimento sociale ha richiesto che l’Occidente, e in particolare le Chiese cristiane, chiedano scusa per il movimento medioevale delle Crociate. Secondo quest’opinione, le Crociate hanno rappresentato una pura e semplice aggressione contro il mondo musulmano. Certo, nessuno può negare che le guerre che ne sono derivate abbiano comportato la loro parte di atrocità. Dietro il movimento per la richiesta di scuse, tuttavia, sta il presupposto che le frontiere religiose siano per così dire scolpite nella pietra, e che gli Stati del Medio Oriente oggi governati da musulmani siano stati sempre infallibilmente destinati a diventare parte del mondo islamico. Ma ci sono argomenti altrettanto buoni per sostenere che il Medio Oriente nel Medioevo non era più inevitabilmente musulmano di quanto lo fossero altre regioni conquistate dall’islam e in seguito liberate, come la Spagna e l’Ungheria. Curiosamente, poi, gli occidentali non chiedono ai musulmani di scusarsi per le guerre di aggressione che li avevano portati a conquistare quei territori prima delle Crociate. Gli occidentali hanno semplicemente dimenticato le comunità cristiane, un tempo grandi, del mondo orientale” (pp. 24-25). Inoltre, secondo Jenkins, nuclei di cristianità avevano cominciato a formarsi fra il 1500 e il 1700 in zone di particolare successo missionario come il Regno del Congo, la Cina e l’area del Giappone intorno alla città di Nagasaki. Questi esperimenti finiscono prima di arrivare a maturazione perché si tratta, in qualche modo, di cristianità troppo originali, tali da suscitare la reazione della Chiesa cattolica e, più tardi, delle denominazioni protestanti, che impongono ai missionari una minore inculturazione e una maggiore occidentalizzazione, a loro volta male accolte sia dai fedeli sia dalle autorità politiche locali. Nonostante la proscrizione del cristianesimo nell’Impero cinese nel 1724, i semi di una grande cristianità cinese – secondo Jenkins -  furono comunque gettati, e potrebbero germogliare rigogliosi in futuro.

Nel terzo capitolo (pp. 39-53), Jenkins attacca un altro stereotipo, quello relativo ai missionari occidentali, presentati da autori africani e asiatici contemporanei come “il braccio cinico di uno sfruttamento violento, razzista e coloniale” (p. 40). “Molti occidentali – nota l’autore, che cita tutta una serie di romanzi, sceneggiati televisivi e filmsimpatizzano con queste vedute, e considerano il cristianesimo missionario come una specie di lebbra culturale” (p. 40). Non c’è dubbio, secondo Jenkins, che un certo numero di missionari – in particolare nel secolo XIX – abbiano fatto del loro peggio per conformarsi a questo stereotipo, dimostrando scarsissima sensibilità per le culture che li ospitavano. Questa, tuttavia, è solo una piccola parte della storia delle missioni. Se le missioni fossero state semplicemente un’appendice del colonialismo, la fine del colonialismo avrebbe determinato la fine del cristianesimo. “Se la fede fosse stata una questione di re, mercanti e missionari, sarebbe durata precisamente tanto a lungo quanto l’ordine politico e commerciale che l’aveva fatta nascere, e sarebbe stata spazzata via dal cambiamento sociale” (p. 43). E’ successo esattamente il contrario. Il numero di cristiani – non tutti “ortodossi” secondo i parametri occidentali, come mostra l’ascesa di quelle che Jenkins chiama ancora “Chiese africane indipendenti” (e che gli specialisti dell’area preferiscono oggi chiamare “Chiese iniziate da africani”) – è aumentato in proporzione geometrica dopo la fine del colonialismo. Si deve in gran parte a eventi recenti se sono oggi cristiani il 75% degli ugandesi e il 90% dei cittadini del Madagascar (cfr. p. 44). Che si tratti – oggi come ieri – di conversioni serie e meditate è dimostrato dall’ampio numero di cristiani africani che, per la loro fede, hanno affrontato il martirio.

Nel quarto capitolo (pp. 55-78), Jenkins studia le Chiese e comunità “indipendenti”, cioè le nuove denominazioni e movimenti di origine cristiana nate al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti. Si tratta di un tema su cui esiste un’enorme letteratura di taglio sociologico; ma anche qui l’autore ha qualche cosa di originale da dire. Benché il fenomeno dei nuovi movimenti – in genere caratterizzati da una forte attenzione ai miracoli, alle guarigione e agli esorcismi, e da forme teologiche spesso piuttosto originali, almeno da un punto di vista occidentale – non vada certamente sottovalutato, esiste secondo lo studioso americano anche il rischio di sopravvalutarlo. I sociologi delle religioni preferiscono spesso occuparsi di fenomeni nuovi, e rischiano di dedicare un’attenzione sproporzionata ai nuovi movimenti dell’Africa e dell’Asia, trascurando l’espansione delle Chiese e comunità di origine più antica. Per esempio, in America Latina, ci sono cinquanta milioni di pentecostali e protestanti di tendenza evangelical (cifre più alte sono, secondo Jenkins, inesatte); è comprensibile che i sociologi rilevino la novità del fenomeno, ma è meno giustificato che gli studi scarseggino sull’evoluzione dei 420 milioni di latino-americani che rimangono in qualche modo in contatto, più o meno regolare, con la Chiesa cattolica. In Africa ci sono 35 milioni di membri di comunità e movimenti cristiani “indipendenti”; per quanto si tratti di fenomeni interessanti, essi “rappresentano meno del 10% dei cristiani africani nel loro complesso. I soli cattolici in Africa superano in numero gli ‘indipendenti’ in una proporzione di tre a uno” (p. 57). “I membri delle Chiese maggioritarie in Africa, cattolica e protestante, spesso si risentono per l’attenzione che gli accademici europei e americani dedicano alle Chiese indipendenti. E’ molto più facile trovare studi scientifici sulle Chiese indipendenti o profetiche che sulle congregazioni cattoliche o anglicane che definiscono la vita religiosa per centinaia di milioni di africani. Per quanto bene intenzionato, questo pregiudizio tende a mostrare il cristianesimo africano come molto più esotico e sincretistico di quanto in realtà sia (…). Così, in America Latina, studi sulle congregazioni pentecostali sono ormai comuni, ma abbiamo molte meno descrizioni della vita quotidiana in una normale parrocchia cattolica. Per gli accademici, come per i giornalisti, quello che è ordinario semplicemente non è interessante” (pp. 57-58). Lo stesso pregiudizio porta a trascurare nuovi movimenti che si formano all’interno delle Chiese maggioritarie, come il gruppo di rinnovamento carismatico cattolico filippino El Shaddai, che conta oggi oltre sette milioni di membri in venticinque paesi e che, per quanto talora criticato per le sue posizioni politiche e teologiche conservatrici, è più grande di molte comunità protestanti indipendenti su cui esiste una ben più ampia letteratura. Infine, i gruppi su cui studiosi e media internazionali preferiscono indagare rischiano spesso di essere quelli più controversi, come la brasiliana Chiesa Universale del Regno di Dio (IURD), una denominazione pentecostale spesso criticata per il suo virulento anti-cattolicesimo e per accuse rivolte alla gestione finanziaria dei suoi dirigenti[9].

 

Nel quinto capitolo (pp. 79-105), ancora una volta in dialogo esplicito o implicito con Samuel P. Huntington, Jenkins – senza nascondersi le difficoltà delle proiezioni statistiche a medio e lungo termine – incrocia dati sulla demografia e sulla crescita delle varie aggregazioni religiose per disegnare scenari possibili per il 2025 e per il 2050 (un anno, quest’ultimo, in cui tra l’altro l’India dovrebbe superare la Cina come paese più popoloso del mondo: cfr. p. 84). Secondo queste proiezioni, nel 2025 in un ideale G8 degli otto paesi del mondo con il maggior numero di cristiani non sarebbe presente nessun paese europeo tranne la Russia: accanto agli Stati Uniti, al Messico e al Brasile figurerebbero tre paesi africani (Nigeria, Zaire ed Etiopia) e uno asiatico (le Filippine). E’ vero che la situazione politica potrebbe rallentare il ritmo di crescita in Nigeria (che, secondo le proiezioni attuali, diventerebbe il quinto paese del mondo per numero di cristiani nel 2025), ma d’altro canto un allentamento della pressione politica potrebbe facilmente sostituire in questa lista la Cina alla Russia (cfr. p. 90). Nel 2050, sempre ai ritmi di crescita attuali, anche un paese relativamente piccolo come l’Uganda potrebbe avere circa cinquanta milioni di cristiani praticanti, più di qualunque paese europeo diverso dalla Russia (cfr. p. 91). Jenkins si muove qui su un terreno oggetto di notevoli controversie tra i sociologi delle religioni, che non riguarda tanto le proiezioni statistiche relative all’Africa e all’Asia (più o meno generalmente condivise), quanto l’Europa e gli Stati Uniti. L’enfasi di Jenkins sulle nuove cristianità asiatiche e africane lo porta, a mio avviso, a sopravvalutare i dati relativi al processo di secolarizzazione e di scristianizzazione dell’Europa Occidentale, escludendo inversioni di tendenza che appaiono invece possibili. Particolarmente poco condivisibile appare un commento sull’Italia, a proposito della quale afferma: “Secondo le statistiche della Chiesa, circa il 97% degli Italiani è contato come cattolico (…). Tuttavia, la pratica religiosa in Italia è apparsa molto in declino negli ultimi anni, e una stima più ragionevole delle credenze e della lealtà suggerirebbe una popolazione cattolica attiva stimata a un decimo di questo livello” (p. 95). Ora, per quanto riguarda il “97%” di “cattolici”, si tratta di una cifra che riguarda evidentemente i battezzati; se per “statistiche della Chiesa” si intendono gli studi patrocinati dalla Conferenza Episcopale Italiana, questi evidentemente distinguono fra i battezzati e i praticanti, normalmente valutati tra il 35 e il 38% della popolazione italiana. Quest’ultimo è il numero dei “cattolici” italiani normalmente utilizzato come punto di riferimento negli studi di carattere sociologico; il dato dei battezzati – per quanto di per sé non irrilevante – è assai meno indicativo. Allo stesso modo, che la “popolazione cattolica attiva” in Italia corrisponda a un decimo dei battezzati, cioè al 9,7% degli italiani, non è seriamente ipotizzabile e non è chiaro da quale fonte Jenkins derivi la sua stima. In nota è citato un eccellente studio della sociologa inglese Grace Davie sulla religione in Europa[10], che tuttavia non presenta sull’Italia nessun dato o stima di questo genere. Mentre è certamente difficile misurare “le credenze e le lealtà”, la partecipazione almeno mensile alla Messa è stata misurata reiteratamente negli anni 1998-2000 e sempre valutata al di sopra del 35%[11]. Il numero di cattolici praticanti in Italia a partire dalla seconda metà degli anni 1990 appare in aumento, e cresce soprattutto fra i minori di 29 anni, il che conferma l’esistenza di un’inversione di tendenza[12].

E’ possibile che in altri paesi europei dove la crisi della pratica religiosa è più radicale (per esempio in Francia), le cose stiano diversamente, anche se i dati sembrano meno certi e omogenei; tuttavia, Jenkins trascura completamente le possibilità di crescita in Europa degli stessi movimenti evangelical e pentecostali di cui rileva giustamente il successo negli Stati Uniti e in America Latina. Infine, anche in Europa si verifica il fenomeno che Jenkins rileva negli Stati Uniti, e cioè la presenza massiccia di immigrati africani e asiatici cristiani (per tacere degli immigrati latino-americani, a loro volta naturalmente quasi tutti cristiani). Jenkins polemizza giustamente contro un’immagine popolare che traduce senza mediazioni la complessità etnica degli Stati Uniti in complessità religiosa. Si legge spesso, per esempio, che una città americana dove sono immigrati molti cinesi, vietnamiti e coreani è diventata “multireligiosa” a causa della presenza, ora importante, di buddhisti, taoisti e confuciani. In effetti, se in tali città sorgono esotici templi di queste religioni, rimane però vero che la grande maggioranza degli emigrati da questi paesi sono cristiani: fra i coreani emigrati negli Stati Uniti, per esempio, “ci sono più cristiani che buddhisti [a seconda degli Stati americani] in una proporzione che va da dieci a venti a uno” (p. 103). Anche fra gli arabo-americani, una buona metà è costituita non da musulmani, ma da cristiani (cfr. p. 105). “Proiezioni irrealisticamente alte dei numeri dei musulmani o buddhisti negli Stati Uniti” sono spesso promosse per motivi politici e “diventano armi importanti nei dibattiti relativi alla separazione della Chiesa e dello Stato” (pp. 104-105). Coloro che sono contrari alla preghiere cristiane nelle scuole pubbliche americane, o alla presenza di simboli religiosi cristiani nelle istituzioni politiche degli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a aumentare il numero dei non cristiani presenti su quel territorio (per esempio, gli spesso citati otto milioni di musulmani americani secondo Jenkins sarebbero in realtà poco più di quattro: cfr. p. 105). Contare gli appartenenti a religioni non cristiane partendo dal paese di emigrazione e immaginando semplicemente che la proporzione fra cristiani e non cristiani si riproduca nello stesso modo fra gli emigrati negli Stati Uniti è un errore, perché i cristiani – talora perseguitati nei paesi di origine – emigrano più spesso dei non cristiani, e anche perché gli emigrati sono immediatamente oggetto delle attenzioni missionarie, soprattutto, del protestantesimo evangelical e conservatore, e molti si convertono. Sia pure – forse – non nella medesima proporzione che negli Stati Uniti, considerazioni simili potrebbero valere anche in alcuni paesi dell’Europa Occidentale; come minimo, ulteriori studi meriterebbero di essere intrapresi.

Il sesto capitolo (pp. 107-139), certamente destinato a suscitare controversie, esamina le specificità dal punto di vista teologico, dottrinale e liturgico delle nuove cristianità che emergono in America Latina, in Africa e in Asia (e che potrebbero – a parere dello studioso americano – evolvere tramite i loro frequenti interscambi in un’unica “cristianità meridionale” o “del Sud del mondo” nel corso del XXI secolo). In effetti queste nuove cristianità sono talora accusate di non essere veramente cristiane, e di rappresentare semplicemente forme sincretistiche dove una vernice cristiana si sovrappone a una base definita “pagana” o “animista”. Curiosamente, queste accuse raramente sono formulate in Occidente da cristiani conservatori che si pongono come custodi dell’ortodossia. Sono più spesso esponenti “progressisti” che mettono in dubbio il carattere cristiano delle nuove forme provenienti soprattutto dall’Africa e dall’Asia. Lo scontro è apparso evidente alla Conferenza di Lambeth (la riunione dei vescovi anglicani di tutto il mondo) del 1998, dove il voto dei prelati asiatici e africani è stato decisivo per impedire il passaggio di una mozione che avrebbe dichiarato superato il tradizionale insegnamento critico nei confronti della pratica omosessuale. Uno dei più noti vescovi anglicani liberal degli Stati Uniti, il vescovo di Newark John Spong, dichiarava al termine della Conferenza che i vescovi africani sono “usciti dall’animismo per entrare in una forma di cristianesimo piuttosto superstizioso”, e che “non mi sarei mai aspettato di vedere la Comunione Anglicana, che si vanta del ruolo che attribuisce alla ragione nella fede, scendere al livello di un’isteria irrazionale pentecostale” (p. 121). La questione, naturalmente, è molto delicata, e riprende polemiche iniziate già alla fine del XVI secolo in materia di inculturazione del cristianesimo in Cina e in Giappone. In genere, le nuove cristianità africane e asiatiche sono caratterizzate dal ruolo centrale delle profezie, delle guarigioni, degli esorcismi, della lotta contro il Demonio, dei fenomeni miracolosi (che nella Chiesa cattolica assumono la forma di nuove apparizioni mariane o di un forte movimento devozionale nei confronti di apparizioni antiche, come quella di Guadalupe). Vi è anche una forte preoccupazione per la stregoneria, che molti cristiani africani non considerano affatto un residuo superstizioso, ma una manifestazione molto reale del potere demoniaco. Jenkins si rende conto del fatto che un certo numero di credenze e di pratiche non potranno mai essere accettate dalle Chiese e comunità cristiane maggioritarie. Semmai, alcune sue ipotesi appaiono spericolate e irrealistiche: per esempio, è possibile che il grande movimento di entusiasmo e di devozione mariana nel Terzo Mondo porti, come lo studioso americano prevede, a un rilancio delle richieste di nuove definizioni dogmatiche da parte della Chiesa cattolica sul ruolo di Maria come mediatrice universale e corredentrice; ritenere, però, che queste definizioni possano elevare la Madonna a un ruolo “paragonabile a quello dello stesso Gesù, quasi un quarto membro della Trinità” (p. 118) appare francamente esagerato fino al punto da sembrare bizzarro, e tradisce un’insufficiente familiarità con la natura profonda del cattolicesimo. Più condivisibile – anche se meno originale – appare l’osservazione secondo cui le nuove cristianità dell’Africa e dell’Asia riscoprono il Vecchio Testamento, e si difendono dalle accuse occidentali sottolineando il radicamento biblico di pratiche che accusano semmai l’Occidente di avere troppo rapidamente dimenticato.

Il settimo capitolo (pp. 141-162) risponde all’obiezione secondo cui una civiltà, dunque una cristianità, non potrebbe essere una realtà puramente religiosa e culturale ma dovrebbe anche avere una proiezione in qualche modo politica. Secondo Jenkins è in effetti così: e infatti le nuove cristianità dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia si sono dotate da tempo di strumenti politici e di una visione del mondo che non accettano necessariamente le idee occidentali sulla separazione fra la Chiesa e lo Stato. Il ruolo politico di figure come l’ex-arcivescovo anglicano Desmond Tutu in Sud Africa, o il cardinale Jaime Sin nelle Filippine è citato come esempio evidente di questi sviluppi. Dal capitolo traspaiono peraltro le idee politiche di Jenkins, che offre qui un ritratto piuttosto convenzionale della politica degli ecclesiastici del Terzo Mondo, dove i “buoni” sono i prelati impegnati “a sinistra” come il cardinale brasiliano Paulo Evaristo Arns o il vescovo, pure brasiliano, Helder Cámara (perfino il sacerdote guerrigliero Camillo Torres, 1929-1966, si merita una certa tolleranza per avere avuto di mira “il bene dei poveri”: p. 146), mentre i “cattivi” sono i vescovi che sostengono governi conservatori filo-americani, come il cardinale peruviano Juan Luis Cipriani, membro dell’organizzazione ultra-conservatrice Opus Dei” (p. 146). A prescindere dalle preferenze politiche di ciascuno, un’analisi altrove raffinata diventa qui piuttosto deludente, e legata a quegli stessi luoghi comuni altrove combattuti. Peraltro, nella parte finale del capitolo, Jenkins ammette che le espressioni politiche delle nuove cristianità sono oggi più complicate di quanto non fossero negli anni 1970 e 1980; diversi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina hanno leader politici cristiani di stampo populista-conservatore, che non possono essere semplicemente ridotti allo stereotipo dell’uomo politico di destra sostenuto dagli Stati Uniti popolare nell’epoca della Guerra Fredda. Jenkins, inoltre, difende il diritto di esponenti di Chiese e denominazioni teologicamente conservatrici di partecipare alla vita politica senza essere discriminati a causa della loro presunta “ignoranza reazionaria” (p. 162), e considera una forma di discriminazione religiosa odiosa il tentativo di impedire all’attuale ministro della Giustizia degli Stati Uniti, John Ashcroft, di pervenire alla sua attuale carica utilizzando come argomento contro di lui il fatto che si tratta di un fedele delle Assemblee di Dio, la più grande denominazione pentecostale mondiale, nota tra l’altro per le sue idee conservatrici nel campo della morale sessuale (cfr. p. 162).

 

Nell’ottavo capitolo (pp. 163-190) – dal significativo titolo “La prossima crociata” – Jenkins esamina idee di Huntington sul conflitto fra l’Occidente e l’islam, ma le reinterpreta alla luce della sua analisi precedente. Il conflitto – anche militare – gli appare probabile: ma quelle che Huntington chiama “guerre di faglia” si svilupperanno, secondo Jenkins, principalmente in aree dove il XXI secolo vedrà la presenza, fianco a fianco, di nazioni guida delle nuove cristianità (Zaire, Uganda) e di nazioni musulmane, ovvero ancora di regioni musulmane e cristiane comprese nello stesso Stato (Nigeria, Tanzania, Filippine), con la Nigeria – in particolare – identificata come la sede più probabile di una futura “collisione” (p. 172) fra le nuove civiltà cristiane e l’islam. Jenkins non si fa illusioni sul carattere aggressivo dell’islam contemporaneo. Benché “senza dubbio, i cristiani moderni abbiano commesso la loro parte di atrocità” (p. 170: per esempio, i serbi ortodossi in Bosnia), “nel mondo in generale, non c’è dubbio che la minaccia dell’intolleranza e della persecuzione venga principalmente dalla parte islamica dell’equazione” (p. 170). Da questo punto di vista, “il carattere provinciale dell’opinione pubblica occidentale colpisce. Quando un singolo omicidio motivato da ragioni religiose o razziali avviene in Europa o nell’America del Nord, l’evento determina un’ampia meditazione collettiva, ma quando migliaia di persone sono massacrate a causa della loro fede in Nigeria, in Indonesia o in Sudan, la storia appare raramente sui giornali. Certe vite contano più di altre. Una specie di pregiudizio religioso aiuta a spiegare il silenzio su quanto avviene in luoghi come il Sudan. I liberal occidentali non vogliono sembrare anti-musulmani o anti-arabi, e sono due volte dubbiosi prima di sostenere le sorti dei cristiani del Terzo Mondo” (pp. 163-164). Né si tratta solo dell’islam. Come Huntington, Jenkins rileva la crescita del fondamentalismo (o nazionalismo religioso) indù e la possibilità di uno scontro con le minoranze cristiane che appaiono in continua crescita in India, in cui è destinata a giocare un ruolo crescente la questione degli “intoccabili” (dalit), come mostrano le feroci polemiche in occasione della consacrazione del primo dalit come vescovo cattolico (di Hyderabad) nell’anno 2000. L’associazione dell’induismo, nell’immaginario popolare, soltanto alla “non violenza gandhiana e a una tolleranza senza limiti” (p. 183) costituisce un altro stereotipo occidentale. Jenkins aggiunge che “il Dalai Lama, una delle figure religiose preferite dagli occidentali” ha sottoscritto nel 2001 una dura dichiarazione contro i missionari cristiani predisposta da ambienti fondamentalisti indù (cfr. p. 185): forse anche l’immagine del buddhismo come movimento necessariamente apolitico e non violento dovrà essere rivista nel corso del prossimo secolo. Mentre Huntington dedica parecchie pagine alla prospettiva, disastrosa per l’Occidente, di una possibile alleanza fra la civiltà islamica e quella confuciana in funzione anti-occidentale, Jenkins considera anche lo scenario alternativo di uno scontro fra la Cina e l’islam. Non solo, qualora venisse meno la pressione persecutoria del comunismo, la Cina (dove le religioni tradizionali sono deboli) potrebbe sperimentare quella grande fioritura cristiana che molti osservatori ritenevano imminente prima dell’avvento del comunismo, ma già oggi è un fatto che le minoranze cristiane perseguitate in paesi come l’Indonesia e la Malaysia sono prevalentemente di etnia cinese, e sono attaccate sia in quanto cristiane, sia in quanto cinesi. La Cina ha già minacciato di intervenire a difesa di queste minoranze cristiane etnicamente cinesi, così che “il protettore e il patrono naturale delle comunità cristiane asiatiche nei prossimi anni potrebbe non essere gli Stati Uniti, o la Gran Bretagna o l’Australia, ma l’anti-religiosa Cina” (p. 190).

 

Il nono capitolo (pp. 191-209) esplora la possibilità di missioni delle nuove cristianità del Sud del mondo verso gli Stati Uniti e soprattutto verso l’Europa. Chiese pentecostali latino-americane e asiatiche (come la controversa IURD) e nuovi movimenti religiosi di origine cristiana nati in Africa sono già piuttosto attivi in diversi paesi europei. Ma, ancora una volta, queste iniziative piuttosto esotiche rischiano di distrarre l’attenzione dal fatto che sono movimenti cattolici (come il citato gruppo filippino El Shaddai) ovvero che appartengono al protestantesimo classico a essere stati esportati con maggiore successo dal Terzo Mondo verso l’Europa e gli Stati Uniti. L’interesse è forte soprattutto presso cristiani conservatori disorientati dal progressismo delle loro Chiese e comunità. Per esempio, l’arcivescovo anglicano del Rwanda, Emmanuel Kolini, e l’influente arcivescovo anglicano di Singapore, Moses Tay – entrambi di idee piuttosto conservatrici – hanno ordinato diversi occidentali come sacerdoti anglicani, e nel 2000 hanno consacrato anche due vescovi, di fatto creando una profonda divisione all’interno della Comunione Anglicana (cfr. p. 203).

 

Più in generale, le nuove cristianità asiatiche e africane si schierano a fianco della componente più tradizionale e ortodossa delle rispettive denominazioni nei dibattiti internazionali in tema di aborto, controllo delle nascite, omosessualità e relativismo religioso e morale. Jenkins rileva per esempio che il documento vaticano del 2000 Dominus Jesus, che è apparso “profondamente offensivo” agli intellettuali occidentali liberal, all’interno e all’esterno della Chiesa cattolica, è stato invece salutato con grande favore dalla maggioranza dei cattolici in Africa e in Asia. Il documento, nota Jenkins, “non era indirizzato ai liberal del Nord del mondo che praticano una varietà dilettantistica di religione da caffè, ma alle Chiese del Sud che crescono rapidamente e che chiedono regole pratiche per garantire la loro autenticità” (p. 197). Quanto all’omosessualità, in Occidente ci si rende conto raramente di quanto sia estranea, per esempio, al costume africano. Il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe (un personaggio almeno fino a qualche tempo fa popolare nel mondo liberal internazionale, e non particolarmente religioso) ha dichiarato che, fra gli abitanti del suo paese, considera gli omosessuali “a un livello più basso rispetto ai maiali e ai cani” (p. 201), sostenuto dal presidente della vicina Namibia (anch’egli celebrato come eroe della lotta anticoloniale), secondo il quale l’omosessualità in Africa è una “pratica straniera (…); la maggioranza degli accesi sostenitori di questi pervertiti sono europei, che pensano di essere all’avanguardia della civiltà e si considerano illuminati” (p. 201). La crescita delle nuove cristianità in Africa e in Asia – mentre in America Latina coesistono tendenze diverse – potrebbe, nel XXI secolo, determinare nuove maggioranze internazionali più legate, secondo Jenkins, all’ortodossia tradizionale all’interno delle grandi Chiese e comunità tradizionali, Chiesa cattolica compresa (per quanto sia pure possibile che – diventando, da minoranza, maggioranza – il cristianesimo asiatico e africano finisca per riprodurre al suo interno la pluralità di posizioni oggi tipica di quello occidentale).

 

Il decimo capitolo (pp. 211-220) trae le conclusioni dell’opera, con riferimento non solo alle tesi di Huntington (che sono, come si è visto, insieme accolte e “corrette”) ma anche al vivace dibattito sociologico in tema di secolarizzazione. Certamente quanto avviene nel Terzo Mondo dà ragione a chi afferma che le teorie della secolarizzazione si applicano, al massimo, a un limitato numero di paesi europei, in un arco di tempo storicamente determinato, e non costituiscono affatto una regola universale[13]. La tesi specifica di Jenkins, tuttavia, è che le nuove cristianità emergenti dell’Africa e dell’Asia non costituiscono un esotismo minore, o una nota a piè di pagina di questo dibattito, ma un elemento centrale di qualunque riflessione sullo stato delle religioni nel XXI secolo. Il movimento promosso da Huntington per un ritorno al significato centrale del concetto di “civiltà” diventa così, nell’analisi di Jenkins, un appello a riscoprire – ma in una chiave parzialmente nuova – le nozioni di “civiltà cristiana” e di “cristianità”, declinandole al plurale.

 



[1] Cfr. Philip Jenkins, Pedophiles and Priests. Anatomy of a Contemporary Crisis, Oxford University Press, New York-Oxford 1996; di cui cfr. la mia recensione Preti e pedofilia: fra realtà e mistificazione, in Cristianità, anno XXVI, n. 282, ottobre 1998, pp. 20-22.

[2] Cfr. P. Jenkins, Mystics and Messiahs. Cults and New Religions in American History, Oxford University Press, New York 2000; Id., The Great Anti-Cult Scare 1935-1945, relazione presentata al convegno annuale del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni) tenuto nel 1999 a Bryn Athyn, Pennsylvania, testo disponibile sul sito del CESNUR all’indirizzo https://www.cesnur.org/testi/bryn/br_jenkins.htm. Cfr. pure l’analisi di influenze esoteriche su temi teologici contemporanei, in particolare nel settore della cristologia, nella relazione dello stesso Jenkins al convegno annuale del CESNUR tenuto nel 2000 a Riga, in Lettonia: “The Jesus of the Cults”. How the Esoteric Christ Became the Christ of Scholars, testo disponibile sul sito del CESNUR all’indirizzo https://www.cesnur.org/conferences/riga2000/jenkins.htm.

[3] Idem, The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, Oxford University Press, New York 2002. I riferimenti tra parentesi nel seguito del testo rimandano tutti a quest’opera.

[4] Cfr. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. it., Garzanti, Milano 2000.

[5] David B. Barrett, World Christian Encyclopedia. A Comparative Study of Churches and Religions in the Modern World A.D. 1900-2000, Oxford University Press, Nairobi-Oxford-New York 1982.

[6] S. P. Huntington, op. cit., pp. 83-84.

[7] D. B. Barrett - George T. Kurian - Todd M. Johnson, World Christian Encyclopedia. A Comparative Survey of Churches and Religions in the Modern World, 2 voll., Oxford University Press, Oxford 2001.

[8] Ibid., p. 4. Secondo queste proiezioni, nel 2025 i musulmani saranno il 22,8% della popolazione mondiale, i cristiani il 33,4%; nel 2050 i musulmani saranno il 25% e i cristiani il 34,3%.

[9] Per una scheda su questa denominazione, presente anche in Italia, cfr. Massimo Introvigne - PierLuigi Zoccatelli - Nelly Ippolito Macrina - Verónica Roldán, Enciclopedia delle religioni in Italia, Elledici, Leumann (Torino), 2001, pp. 247-249.

[10] Grace Davie, Religion in Modern Europe. A Memory Mutates, Oxford University Press, Oxford 2000.

[11] Per una rassegna su queste indagini cfr. M. Introvigne - P. Zoccatelli - N. Ippolito Macrina - V. Roldán, Enciclopedia delle Religioni in Italia, cit., pp. 5-13.

[12] Cfr. sul punto il mio “Praise God and Pay the Tax”. Italian Religious Economy: An Assessment, lezione tenuta presso l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali di Pechino, 12 marzo 2002, testo disponibile sul sito del CESNUR all’indirizzo https://www.cesnur.org/2002/mi_italianrel.htm .

[13] Per una riflessione su questa problematica, con riferimento specifico a un caso concreto di applicazione delle teorie, cfr. il mio I Testimoni di Geova: già e non ancora, Elledici, Leumann (Torino) 2002.

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