NEL suo ormai celeberrimo libro sullo scontro delle civiltà Samuel P. Huntington, parlando della «Rinascita islamica», dice che l'uso della maiuscola è pienamente giustificato. La parola «Rinascita», scrive Huntington, «si riferisce ad un evento storico estremamente importante che coinvolge un quinto o forse più dell'umanità. Vale a dire che è importante almeno quanto la Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese o la Rivoluzione russa, la cui «r» viene di solito scritta in maiuscolo». Il libro dello studioso americano era stato pubblicato cinque anni prima dell'11 settembre 2001. Dopo quella data terrificante, molte se non tutte le tesi da lui sostenute hanno ottenuto, per così dire, il battesimo del fuoco, assumendo una corposità e una credibilità tali da situarle nell'alveo delle grandi opere sulle civiltà e le culture del mondo di uno Spengler e di un Toynbee. Fin dal 1996 Huntington osservava che fondamentalismo e terrorismo, per quanto rilevanti, andavano comunque considerati come elementi di supporto ideologico e militare di un più vasto movimento di Rinascita culturale, sociale, economica e politica dell'universo islamico nel suo complesso. In altre parole: l'islamismo integrale e militante e il suo culmine temibile, il terrorismo, non dovevano essere storicamente sopravalutati proprio perché non possono essere disgiunti dall'insieme delle componenti che caratterizzano l'evento della Rinascita. Che consiste nella riscoperta non solo bellica ma normativa della Jihad, nella diffusione delle scuole coraniche, nella radicalizzazione delle masse, nella ricchezza derivata dal petrolio, nella modernizzazione autoctona, non più legata ai metodi kemalisti basati sul presupposto umiliante dell'occidentalizzazione.
Terrorismo «rivincita di Dio»
A questo bisogna aggiungere il moltiplicatore demografico del mondo islamico, combinato con la progressiva semicolonizzazione dell'Europa mediante pressioni umanitarie e politiche, ininterrotti flussi migratori, ramificazioni di infrastrutture religiose, estensioni di basi d'indottrinamento e propaganda e di santuari terroristi nelle capitali e nelle periferie europee. Il tutto nel nome di quella onnipresente «rivincita di Dio» che oggi stimola e accompagna il risveglio islamico dal Mediterraneo al Pacifico. Ma anche nel nome e sotto lo scudo, si badi bene, di una jihad rinnovata, intelligente, selettiva, duttile, con più pesi e più misure. Mirata non soltanto, o non subito, a una guerra totale contro l'intero Occidente, bensì all'utilizzazione di un Occidente europeo assediato, infiltrato, reso morbido e pieghevole, contro un Occidente americano duro e reattivo. Ci sono molti indizi che l'Europa occidentale occupi un posto del tutto particolare nell'ottica della Rinascita e della nuova jihad. Lo sceicco Yussef al-Qaradawi, capo spirituale dei Fratelli Musulmani, spiegava nel 1997 che la legge islamica tende a classificare il «Popolo del Libro», ebrei e cristiani, in tre categorie. Anzitutto i «dimmi», i non musulmani protetti, viventi nei Paesi islamici che formano la «dimora della pace e della vera religione» chiamata «dar al-islam». Poi gli «harbi», i non musulmani dei Paesi nemici, raggruppati nella «dimora della guerra» chiamata «dar al-harbi». Infine i non musulmani dei Paesi della miscredenza o della «tregua provvisoria» («dar al-kufr»). Gli americani e l'America, gli israeliani e Israele appartengono palesemente alla «dimora della guerra» che coincide con la nefanda dimora del Grande Satana. Forse vi rientrano, come sottogruppo nemico, anche gli inglesi e l'Inghilterra. Dove, invece, le élite militanti, i dottori coranici e gli odierni studenti islamici mettono gli europei continentali e occidentali? Certo non possono considerarli come parte integrata nell'islamica «dimora della pace», così come non possono avere alcun interesse a respingerli nettamente nella «dimora della guerra» riservata agli ebrei e agli anglosassoni. Ma c'è, come abbiamo visto, una terza dimensione ambigua, la «dimora della tregua provvisoria», ed è in quel limbo ondeggiante che i fautori e strateghi del neoimperialismo islamico collocano mentalmente oggi l'Occidente europeo. Difatti: dove trovano accoglienza legale i tredici terroristi palestinesi espulsi dalla Cisgiordania? In Europa. Chi pone sullo stesso piano morale il terrorismo palestinese e le rappresaglie israeliane? L'Europa. Chi finanzia in maniera indiretta il terrorismo con sovvenzioni ufficialmente destinate all'autogoverno «democratico» della cosiddetta Autorità palestinese? L'Unione Europea. Chi pratica una politica lassista nei confronti dell'immigrazione e tollera il radicamento, sui propri territori, del separatismo culturale o «discriminazione positiva» delle comunità musulmane che rifiutano l'integrazione (diritti e doveri) nelle società democratiche che li ospitano? I governi europei. Per tacere delle sempre più serie discrepanze tra americani ed europei sulle rispettive strategie politiche in Afghanistan, in Medio Oriente, nei confronti dell'Iraq di Saddam Hussein. In tutti questi molteplici aspetti di acquiescenza europea davanti alle invasive migrazioni di massa e agli aggressivi dinamismi culturali e politici, collegati alla Rinascita islamica, s'intravvede l'insorgenza di una singolare sindrome storica e psicologica. Si nota da un pezzo, sui territori dell'Europa, la diffusione nei confronti del problema islamico di stati d'animo permissivi, di comportamenti omertosi e indulgenti, di calcolate sottomissioni e concessioni, di tolleranze legali dettate dalla paura della rappresaglia punitiva. In proposito s'era avuto qualche precedente sintomatico proprio in Italia. Basterà ricordare i giorni di Sigonella, quando il governo presieduto da Craxi concesse ad un gruppo di terroristi arabi, braccati dagli americani, di fuggire dalla Sicilia verso la Jugoslavia terzomondista a bordo di un aereo militare; si trattò di un'impennata nazionalista contro l'arroganza degli Stati Uniti, oppure di un cedimento di Craxi al proprio filoarabismo e a quello dei democristiani e dei comunisti? Insomma, fin dagli anni ottanta, s'avvertiva una strana predisposizione psicoideo-logica italiana ed europea a quella sorta di sovranità limitata che, nei secoli andati, aveva regolato i rapporti fra la burocrazia imperiale ottomana e certi limitrofi stati vassalli nei Balcani e nell'Asia sudoccidentale. Erano quelli, allora, i Paesi della «tregua provvisoria» ai quali l'Islam, ispirandosi alla legge della primigenia jihad arabica, concedeva in linea di massima un armistizio di dieci anni fra una guerra santa e l'altra.
Le trappole della «tregua»
Ma c'era e c'è di più. La sovranità limitata e la tregua, concesse alle nazioni tributarie e vassalle, non ancora o non più completamente islamizzate come la Serbia del XIX secolo, si prolungavano nello status della cittadinanza limitata imposto ai «dimmi» ebrei e cristiani all'interno dei Paesi coranici. Negli intenti delle moderne élite islamiste, che dalla fine degli anni ottanta manovrano il timone della Rinascita, l'Islam dovrebbe ingabbiare il continente europeo nella trappola geopolitica della «tregua» combinandola con la dimensione della «dimmitudine» concessa o, semplicemente, raccomandata ai cittadini europei. Gli stessi europei, che volenti o nolenti, consapevoli o meno, collaborano da tempo alla propria metamorfosi in «dimmi», dovrebbero partecipare da comprimari alla propagazione e all'affermazione finale della Rinascita in Europa e nel mondo. Ma, prima di sviluppare tale parte delicata quanto centrale del discorso, sarà opportuno andare a controllare il significato che ebbero in concreto, nel passato egemonico dell'Islam, i concetti di «dimmi» e di «dimmitudine». Mi devo rifare, qui, a qualcuna delle letture suggeritemi da questo scandaglio nell'ignoto che sta avviandosi alla conclusione. Fra i libri e i materiali esaminati, mi ha in particolare impressionato un saggio di 12 pagine pubblicato nel penultimo numero della rivista parigina Commentaire, fondata da un gruppo di discepoli liberali di Raymon Aron. L'autore si chiama Bat Ye'or, è uno studioso egiziano non musulmano, che però sul conto dei musulmani e della loro storia mostra di saperla assai lunga. La profondità analitica e critica dello scritto si preannuncia fin dal titolo: Juifs et chrétiens sous l'islam - dhimmitude et marcionisme. Ne enucleo i punti salienti. Ogni volta che nella loro storia espansionista i musulmani erano troppo deboli per conseguire la vittoria completa su un Paese infedele, gli offrivano una «tregua temporanea» che consentiva loro di rafforzarsi in attesa di un'eventuale ripresa bellica. Per fruire dell'armistizio gli Stati infedeli dovevano pagare un tributo al califfo o al sultano, collaborando alla progressione e al prestigio dell'Islam nella regione. La «tregua» veniva autorizzata solo se contribuiva al miglioramento delle posizioni musulmane e all'indebolimento degli infedeli. Essa non era uno stato naturale; bisognava acquistarla per mezzo del tributo; ma se gli infedeli non riuscivano a procurare agli islamici i vantaggi politici ed economici della neutralità temporanea, la parola, scaduti i dieci anni, poteva tornare di nuovo alle armi. Quanto ai «dimmi» protetti all'interno dei Paesi musulmani, essi erano anziani «harbi» sconfitti, che avevano ceduto i loro territori ottenendo in cambio la pace sotto la protezione islamica detta «dimma». E' tale protezione-sottomissione degli infedeli, ottenuta per mezzo della cessione delle loro terre all'autorità islamica, che Ye'or definisce «dimmitudine». Qui s'inserisce la spinosa questione del «collaborazionismo» delle Chiese cristiane con l'Islam remoto e redivivo. I rissosi patriarchi di Costantinopoli, d'Alessandria, di Antiochia, in eterno conflitto con altre Chiese e con i re cristiani, offrivano spesso consigli, servizi e complicità alle corti islamiche. Nel sistema della «dimmitudine», fondato sull'alternanza di carota e bastone, godevano perciò di un certo particolare riguardo i patriarchi collaborazionisti: questi, sovente, gestivano e manipolavano maggioranze cristiane a beneficio di una minoranza guerriera dominatrice. Secondo Bat Ye'or, tredici secoli di tensioni e collaborazioni islamico-cristiane non potevano non lasciare una profonda traccia di continuità fino ai giorni nostri.
Chi assolve il terrorismo
Egli, osservando che le migrazioni di tribù nomadi islamiche erano sistematiche nei territori tributari dell'Islam, scrive: «Si può constatare che l'Europa, come i Paesi della tregua nei secoli passati, seguita fin dal 1970 a praticare una politica d'insicurezza e di autovulnerabilità nei confronti dell'immigrazione. Questo stato di dimmitudine occulta, che ha le sue radici nella jihad millenaria, è però deliberatamente negato o non riconosciuto dagli attuali governanti europei. L'Europa preferisce ignorare la costituzione di una rete terroristica e finanziaria sul proprio territorio; essa spera di poter comprare la propria sicurezza mediante aiuti per lo sviluppo, elargiti a governi che mai hanno ricusato la demonizzazione dell'Occidente radicata nella cultura della jihad». Uno dei massimi servigi resi dall'Europa all'umma «consiste nella delegittimazione dello Stato di Israele». Tipico «servigio da dimmitudine» è quello con cui i mezzi di comunicazione europei assolvono il terrorismo palestinese e islamista, lasciando intendere che sono gli Stati Uniti e Israele a motivarlo e a promuoverlo. La conclusione di Bat Ye'or è severissima nella stringente correlazione ch'egli stabilisce tra il passato e il presente: «L'occultamento da parte europea dell'ideologia e della vera storia della jihad è rimpiazzato con scuse e rimorsi, con l'autoflagellazione per le crociate e le disparità di sviluppo tra Nord e Sud, infine con la criminalizzazione di Israele. Il male viene attribuito agli ebrei e ai cristiani per non urtare la suscettibilità del mondo musulmano, che rifiuta ogni critica al suo passato di conquiste e di colonizzazioni. Questo genere di rapporto diseguale è proprio del sistema della dimmitudine, il quale prevedeva la pena di morte per il dimmi che osava criticare l'Islam e il governo islamico. I notabili dimmi venivano perciò incaricati dall'autorità islamica a imporre l'autocensura ai loro correligionari (oggi si direbbe «la correttezza politica»). L'antico universo della dimmitudine, condizionato dall'insicurezza, dall'umiltà e dal servilismo come pegni di sopravvivenza, è stato così ricostituito nell'Europa contemporanea». Corollario di tale visione pessimistica è la critica erudita cui lo storico egiziano sottopone le varie Chiese cristiane impiantate nel Medio Oriente. Le accusa di smaccata dimmitudine filoaraba sul piano non solo politico, ma teologico, sottolineano che esse hanno ridato vita in funzione antigiudaica alle dottrine marcioniane della Chiesa d'Antiochia. Marcione, promotore dell'eresia che prese il nome di marcionismo, era quel patrista anomalo che voleva ridurre il verbo di Dio al solo Vangelo di San Luca e a dieci Lettere di San Paolo, contro il Vecchio Testamento ritenuto assertore di un Dio malvagio e ingiusto.
Prima il Corano poi la Bibbia
L'operazione teologica degli attuali neomarcioniani, disgiungendo il Vangelo dalle sue radici bibliche e giudaiche, adotta la visione islamica di un Gesù arabopalestinese: procedimento gnostico di confutazione e di separazione dal principale testo sacro del monoteismo, il che avvalora la pretesa islamica di un Corano eterno preesistente alla Bibbia e all'umanità. Sbocco finale è il consenso cristiano ad una unica e islamizzata storia sacra monoteista e giudeofobica da Adamo fino a Gesù Cristo. Questa tendenza alla fusione del cristianesimo evangelico con l'islamismo coranico sarebbe, secondo Bat Ye'or, perseguita dai cristiani palestinesi così ardentemente da spingerli, addirittura, a non considerarsi minoranza ai margini della maggioranza musulmana, bensì un tutt'uno religioso con essa. I minoritari cristiani arabi o arabizzati, rivendicando una totale compenetrazione con la maggioranza islamica, rivelerebbero un'attitudine caratteristica della «sindrome dimmi» fondata su una paura atavica: ovvero sul mimetismo per passare inossevati sotto gli occhi dell'oppressore. Lo scudo umano offerto dai padri francescani ai terroristi rifugiati nella basilica di Betlemme sembrerebbe convalidare, almeno sul piano mediatico, la tesi iperbolica ma non casuale dello studioso. Le iperboli storicamente ben motivate, che serpeggiano attraverso l'ardito saggio di Commentaire, costituiscono a mio parere un notevole contributo d'indagine su quanto sta accadendo all'alba del XXI secolo tra Islam, Europa, Israele e retaggio cristiano mediterraneo. L'iperbole, che è un'ipotesi al cubo, anche se non fotografa l'intera complessità di un processo storico, spesso ne antivede la tendenza. Se c'è difetto nello scritto apparso sulla rivista aroniana, è che esso dia già per concluso un processo di degrado continentale che è soltanto in corso. E che, come tutte le cose in movimento, resta sempre passibile di deviazioni, di arresti, o sorprendenti inversioni di rotta. E' quindi giusto prendere lucidamente atto delle insidiose linee di sviluppo della Rinascita islamica. Ma senza dare per compiuto quello che per ora è pericolosamente latente.
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