CESNUR - Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto da Massimo Introvigne
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Introduzione
Il lettore che prende in mano questo libro sarà colpito anzitutto dalla copertina, che raffigura un dipinto misterioso: Notizie, del pittore lituano Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911). A lungo sconosciuto in Occidente per una serie complessa di ragioni – l’ostilità del regime sovietico, la difficoltà di trasportare i suoi quadri, dipinti su materiali fragili a causa della povertà che lo perseguitò per tutta la vita, lontano dal museo di Kaunas, in Lituania, dove in maggioranza si trovano –, oggi è gradualmente riconosciuto, nonostante la sua vita breve – morì a trentasei anni – come uno dei padri della pittura del secolo XX. Čiurlionis rappresenta il passaggio dal simbolismo all’astrattismo, che si coglie in questo dipinto del 1905, Notizie. L’artista lituano non commentava mai i suoi quadri, e Notizie risale a un periodo in cui subiva molteplici influenze culturali. Vi è chi ha voluto vedervi un’allusione a teorie sulla reincarnazione. Sappiamo però con certezza che i grandi uccelli in Čiurlionis rappresentano sempre l’anima, che nel suo volo inquieto cerca di comprendere i misteri dell’universo. E chi si trova davanti, a Kaunas, a Notizie – sperimentando la verità per cui nessuna fotografia può davvero sostituire il contatto con l’opera d’arte concreta – rimane sbalordito, colpito da quella «scossa» che secondo Benedetto XVI ogni vero capolavoro trasmette: una scossa che strappa alla routine e porta a pensare che le domande veramente importanti sono quelle che ci poniamo meno spesso, sui significati ultimi dell’universo e della vita.
Con molto piacere ho accolto l’invito a riproporre il mio volume Le domande dell’uomo, pubblicato per la prima volta a Torino oltre un quarto di secolo fa, nell’ormai remoto 1985. Rileggendo il volume, mi sono reso conto che non è invecchiato, o forse è invecchiato bene. Tratta infatti di quei significati ultimi della vita e dell’universo: di filosofia, non di attualità, e la filosofia raramente cambia. Ho dunque resistito alla tentazione di riscriverlo, e ho mantenuto l’impianto del 1985, svecchiando solo qualche espressione e qualche parte – poche – che descriveva una realtà nel frattempo mutata, ma lasciando anche i riferimenti alle edizioni usate allora di libri che hanno poi avuto edizioni successive.
Ho inserito un nuovo sottotitolo: Filosofia per chi ha fretta. A scuola, in Italia, non si studia la filosofia ma la storia della filosofia, disciplina fondamentale e anzi indispensabile ma diversa dalla riflessione filosofica metodica e per temi sulle domande che gli uomini e le donne si pongono. Usciti dalla scuola, non si ha più tempo per la filosofia: si va – come ci ricorda oggi spesso Papa Francesco – troppo di fretta per riflettere.
Qualche anno fa è uscito un libro sulla fretta contemporanea particolarmente importante: Il tempo breve. Nell’era della frenesia: la fine della memoria e la morte dell’attenzione (Garzanti, Milano 2010) del giornalista economico milanese, da anni residente a Londra, Marco Niada. Non è un testo di sociologia – anche se deve molto a Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero (trad. it., il Mulino, Bologna 2009) del sociologo polacco Zygmunt Bauman – e lo stile giornalistico comporta talora qualche imprecisione storica. Il problema su cui attira l’attenzione è tuttavia cruciale per la sociologia, per la cultura in genere e anche per la Chiesa. Attiene a quella che il filosofo cattolico belga Marcel de Corte (1905-1994) chiamava accelerazione della storia.
Mentre storici e sociologi dibattono sulla portata della grande rivoluzione culturale degli anni Sessanta del secolo XX e del 1968 – con il rapido mutamento dei costumi sessuali indotto dalla pillola e dalle leggi sull’aborto, la contestazione, la crisi nelle Chiese e comunità cristiane –, ecco che i decenni 2000 e 2010 rischiano già di passare alla storia come quelli di una nuova rivoluzione.
Niada ricorda anzitutto la sua storia personale. Dopo ventisei anni di giornalismo economico al Sole 24 Ore, di cui sedici come corrispondente a Londra, e una riflessione sulla crisi economica del 2008 – una delle maggiori nella storia dell’economia –, nel febbraio del 2009 decide di «staccare la spina» e di prendersi un periodo di riflessione in un monastero benedettino inglese. Benché Niada dichiari di non avere il «fortissimo senso religioso» dei monaci, i figli di San Benedetto (480-547) lo hanno insieme affascinato e aiutato a riflettere sul deterioramento della risorsa fondamentale che permette agli uomini di vivere, di operare e anche di produrre beni e servizi: il tempo. Mentre è possibile gestire la crisi di altre materie prime – il petrolio, il gas, perfino lo stesso denaro – la crisi del tempo è sostanzialmente ingestibile e comporta una vera rivoluzione antropologica.
Niada parte dalla crisi economica iniziata nel 2008, di cui identifica le radici in un rapporto distorto con il futuro. Attraverso prodotti finanziari che pretendono di vendere ai risparmiatori di tutto il mondo il debito di persone cui è stato concesso con grande facilità e senza garanzie un mutuo per l’acquisto di un’abitazione, promettendo interessi mirabolanti, presunti geni della finanza ritengono di avere trovato la formula magica per possedere il tempo, vendendo il futuro per arricchirsi nel presente. Ma il tempo si vendica, e l’intera costruzione frana addosso agli apprendisti stregoni della finanza. Se questa analisi della crisi non è completamente nuova, Niada va oltre e si chiede che tipo di persone può avere concepito piani così evidentemente fallaci.
Il giornalista milanese ne trae occasione per un’indagine storica sul tempo, ancora scandito secondo la divisione sessagesimale – l’ora di sessanta minuti, il minuto di sessanta secondi – inventata dai Sumeri, che neppure la Rivoluzione francese – un cui comitato per convincere il mondo a dividere le ore e i minuti in cento parti anziché in sessanta ha continuato a operare fino al 1905 prima di gettare la spugna – è riuscita a mettere in discussione. Il tempo rimane però qualche cosa di abbastanza vago e impreciso, fino a quando la Chiesa introduce insieme una profonda riflessione filosofica sulla sua natura, collegata anche alla scansione temporale delle ore della Passione di Cristo, e i progressi tecnici dei monaci, inizialmente intesi a fissare con precisione le ore della preghiera secondo la regola benedettina. In questo ambiente matura anche l’invenzione dell’orologio, già celebrato da Dante Alighieri (1265-1321), nell’Italia della fine del XIII secolo. Il tempo dei mercanti, inteso a scandire il lavoro e il commercio seguendo gli orologi delle torri comunali, entra in qualche modo in concorrenza con il tempo della Chiesa. Ma tra i due tipi di tempo non si manifesta mai una radicale incompatibilità.
O, almeno, non si manifesta fino agli anni 2000. La nuova rivoluzione non è tanto, secondo Niada, quella di Internet, ma quella dei telefoni cellulari di nuova generazione, i cosiddetti smartphone, che diventano sempre di più computer portatili in costante collegamento con il Web e la posta elettronica. Non senza umorismo, Niada descrive i manager che fissano costantemente il loro Blackberry, qualche volta – è successo davvero – facendosi travolgere dalle auto mentre attraversano la strada senza smettere di rispondere alle mail, e i politici che durante le conversazioni osservano i loro interlocutori con un occhio solo perché l’altro è rivolto al «telefono intelligente».
La vita è radicalmente cambiata non con l’avvento del Web ma con quello prima del Blackberry – un attrezzo per manager e professionisti – e poi dell’iPhone, che è per tutti e specialmente per i giovani. La divisione del tempo fra lavoro, famiglia, studio, vacanza è finita. Tutti si aspettano che un giornalista o un imprenditore sia collegato alla posta elettronica e alle notizie diciotto ore al giorno – ma qualcuno è disposto ormai a farsi interrompere anche le ore di sonno –, e sarebbe inconcepibile che una persona che voglia farsi considerare affidabile non risponda a un messaggio entro qualche minuto o al massimo qualche ora, o che un giovane non sia più o meno sempre reperibile su Facebook o sullo smartphone. L’uomo – e il giovane – di oggi che porta con sé il Blackberry o l’iPhone come una protesi è diverso in un modo fondamentale dall’uomo di dieci o vent’anni prima. E l’avvento dell’iPad ha complicato ulteriormente il quadro.
Il giornalista italiano non è un nemico della tecnologia. Ammette che gli smartphone, i social network, le reti sempre più veloci hanno risolto molti problemi e perfino salvato delle vite. Impegnato in un progetto di costruzione di scuole nelle aree più remote e difficili dell’Afghanistan, Niada spiega che i risultati sono cominciati ad arrivare solo quando gli Stati Uniti hanno garantito la copertura dei cellulari e di Internet in gran parte del Paese, così permettendo ai testi e alle lezioni di arrivare immediatamente online o via telefono nei villaggi, senza dovere passare per lunghi viaggi a piedi e attraversare valichi infestati dai Talebani.
Nessun attacco indiscriminato alle nuove tecnologie, dunque, ma un richiamo a problemi reali. Il primo è stato studiato da psicologi e psichiatri già da molti anni: il rischio di una dipendenza da Internet e dai cellulari che ricorda la dipendenza dalla droga e che isola chi ne è vittima, bambini compresi, dal mondo reale. Il secondo problema è al centro dello studio sociologico di Internet da molti anni: si tratta del cosiddetto information overload, il sovraccarico d’informazioni. Grazie a, o per colpa di, Internet riceviamo più informazioni di quante siamo capaci di assorbire, vagliare e organizzare, e alla fine entriamo in crisi. Niada aggiunge, citando dati di diversi studi, due ulteriori elementi: la crisi della memoria – chi vive di Google ha sempre meno memoria, perché è abituato a cercare le informazioni sul Web e non tra i propri ricordi –, e la «morte dell’attenzione». Il nostro tempo di attenzione si assottiglia sempre di più, e senza attenzione – come insegnavano appunto i monaci del Medioevo – non può nascere la riflessione e neppure la preghiera.
Le riflessioni laiche – ma non troppo, se si considera l’attenzione riservata alla Chiesa e ai monaci – di Niada ricordano quanto scriveva profeticamente nel 2002 san Giovanni Paolo II (1920-2005) nel suo Messaggio per la XXXVI Giornata delle comunicazioni sociali: «La caratteristica essenziale di Internet consiste nel fornire un flusso quasi infinito di informazioni, molte delle quali durano solo un attimo (…). Internet ridefinisce in modo radicale il rapporto psicologico di una persona con lo spazio e con il tempo. Attrae l'attenzione ciò che è tangibile, utile, subito disponibile. Può venire a mancare lo stimolo a un pensiero e a una riflessione più profondi, mentre gli esseri umani hanno bisogno vitale di tempo e di tranquillità interiore per ponderare ed esaminare la vita e i suoi misteri e per acquisire gradualmente un maturo dominio di sé e del mondo che li circonda».
Anche san Giovanni Paolo II, come Niada, non esortava a fuggire da Internet. Chiedeva piuttosto di farne uno «spazio umano autentico» e di evangelizzarlo. Per umanizzare la società del «tempo breve» è necessaria un po’ di filosofia, intesa non come storia di quello che i filosofi hanno pensato ma come riflessione sulle domande fondamentali dell’uomo. A chi si stupisse di vedersela proporre da chi, come me, insegna Sociologia delle religioni, mi permetto di fare osservare che sono forse un ex cultore di filosofia ma non sono un dilettante: a suo tempo, ho conseguito il primo grado accademico (B.A.) in filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Eccomi dunque qui a proporre una filosofia rapidissima, per i giovani – e i meno giovani – di un’epoca che è tentata di pensare che Internet abbia congedato la filosofia.
Nel suo libro Eros in agonia (trad. it., Nottetempo, Roma 2013) uno dei più influenti filosofi contemporanei, il coreano che insegna in Germania Byung-Chul Han, polemizza con un articolo del 2008 di Chris Anderson, il redattore capo dell'autorevole rivista d'informatica Wired, intitolato «La fine della teoria». Secondo Anderson siamo finalmente arrivati al punto in cui non abbiamo più bisogno di teorie, cioè d’interpretazione e spiegazione dei dati. La psicologia, la sociologia e la filosofia potrebbero andare in pensione. Google ci abitua infatti inesorabilmente ad «allineare» semplicemente i dati, senza cercare cause e spiegazioni: «la correlazione sostituisce la causalità» e, se la causalità non serve più, non servono più nemmeno le scienze umane. Neppure per spiegare la correlazione, perché questa deriva dalla macchina che gestisce le ricerche di Google, e non c'è più nulla da spiegare.
Ma Anderson, scrive Han, ha «un concetto di teoria debole e ridotto». La teoria non è mai solo un modello per rappresentare e unificare dati. La teoria ci dice «cosa deve essere e cosa no» e «fa apparire il mondo in tutt’altra luce» rispetto a quella che può offrire una lampada, o anche tutte le lampade del mondo. La filosofia, dunque, serve ancora nell’epoca di Internet: e forse serve anche questo volume.
Il testo nasceva, e nasce, da una constatazione: l’informazione quotidiana, più ricca in quantità che in qualità, censura spesso le domande più importanti che ogni uomo porta con sé, e rischia perfino di creare uomini senza domanda. Tra il 1983 e il 1984 tenni a Torino, per iniziativa di Alleanza Cattolica, una serie d’incontri sul tema Le domande dell’uomo, per riflettere sugli interrogativi e sulle sfide che danno significato al nostro essere uomini. Le dispense raccolte in questo volume costituiscono la traccia di tali incontri, e denunciano nella loro redazione – particolarmente nel modo di procedere schematico – la loro natura di testo di seminario, di «libro da fare», destinato non soltanto alla lettura, ma principalmente all’uso come schema in iniziative analoghe.
Il contenuto muove da una prima domanda fondamentale, che riguarda l’uomo: la persona umana, con la dinamica dei suoi giudizi, dei suoi gesti, della sua libertà, dei suoi diritti. Solo dopo avere affrontato la domanda sulla persona è possibile riflettere ulteriormente sulle domande della persona, interrogarsi sui rapporti dell’uomo con le cose – la scienza, il lavoro, l’arte – e con gli altri: l’amicizia, l’amore, la politica.
Il metodo che è stato seguito vorrebbe tentare di partire dall’esperienza concreta nella vita quotidiana: dal vissuto piuttosto che dai testi scritti, senza disprezzare i libri, ma ritenendo che partire dall’esperienza possa meglio consentire di aggirare i pregiudizi delle ideologie. Esistono tuttavia, naturalmente, anche libri che, talora con lo scopo di riconquistare verità antiche, partono dall’esperienza e dal vissuto, e di alcuni fra questi si è tenuto conto nel corso del seminario.
Il lettore riconoscerà nello schema del testo, particolarmente nella prima parte, il progetto antropologico di Karol Wojtyla – san Giovanni Paolo II –, così com’è esposto in Persona e atto (trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982) e in Amore e responsabilità (trad. it., 3a ed., Marietti, Torino 1980). L’antropologia filosofica a suo tempo elaborata dal cardinale Wojtyla è abbondantemente presente nell’enciclica di san Giovanni Paolo II Laborem exercens (1981), ai cui principi è ispirato lo schema sul lavoro del nostro testo. Ho tenuto conto anche di alcuni elementi del commento di Rocco Buttiglione, L’uomo e il lavoro. Riflessioni sull’enciclica «Laborem exercens» (CSEO, Bologna 1982).
Nello schema sull’arte ho fatto spesso esplicito riferimento all’estetica personalista del filosofo e teologo francese don Maurice Nédoncelle (1905-1976), così come in tema di amicizia ho richiamato il pregevole testo dello scrittore inglese Clive Staples Lewis (1898-1963) I quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità (trad. it., Jaca Book, Milano 1982). Le «figure ambigue» di cui mi sono servito nello schema sulla conoscenza provengono dallo psicologo tedesco, nato in Estonia, Wolfgang Köhler (1887-1967), tra i fondatori della psicologia detta «gestaltica», e sono state commentate per le loro implicazioni filosofiche da padre Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995) ne La fenomenologia della percezione (2a ed. riveduta, Morcelliana, Brescia 1961).
A proposito della vita sociale e politica, illustrando il principio di sussidiarietà, ho tenuto conto del saggio del giurista e specialista di dottrina sociale della Chiesa cileno Hugo Tagle Martinez, «Il principio di sussidiarietà» (trad. it., Cristianità, anno X, n. 81, gennaio 1982, pp. 3-10). In argomento, mi permetto di rimandare anche ai miei «Fisco, libertà e morale sociale» (Cristianità, anno XII, n. 105, gennaio 1984, pp. 5-10) e «Un po’ meno Stato, un po’ più solidali» (Avvenire, 20 gennaio 1983, p. 5).
Il seminario per cui questi schemi erano stati predisposti era stato volutamente circoscritto nell’ambito di un’indagine filosofica, non teologica, ed era stato poi effettivamente seguito da un secondo seminario, più specificamente dedicato alla revisione della stessa problematica alla luce esplicita dell’annuncio cristiano. Benché non sia messa a tema, anche in questo libro quella domanda più grande di lui che l’uomo porta in sé costituisce un orizzonte cui gli schemi proposti continuamente si aprono. Infatti, una meditazione senza paure e senza divieti sulle domande dell’uomo non può non condurre a riconoscere un’ultima domanda, più profonda, su dove andiamo e da dove veniamo, sul senso della nascita e della morte: la domanda più scandalosa e censurata, la domanda religiosa, cui propriamente può rispondere solo Dio.
C’è un luogo storico, però, in cui non solo Dio è la risposta, ma anche in cui Dio dà risposte: è la Rivelazione, dove comincia l’avventura della Chiesa. La risposta adeguata alle domande dell’uomo è sempre allora, almeno implicitamente, cristologica: solo la risposta di Cristo salva davvero la dignità dell’uomo ed è quindi capace di trasformare, anzi – se accolta – chiede di trasformare i rapporti, i giudizi, la trama della società e della storia.
Con la scoperta della dimensione cristologica della risposta adeguata alle domande dell’uomo si è già oltre l’orizzonte di antropologia filosofica proprio di questo fascicolo e si apre il discorso sulla fede nel Redemptor hominis: fede cui le osservazioni che propongo possono costituire modesti preambula di ragione e di esperienza, e fede che, per chi è pronto ad accoglierla integralmente, sarà capace di farsi amicizia e vita, cultura e impegno sociale.