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Schopenhauer e la parabola del porcospino

di Massimo Introvigne (Corriere della Sera, 17 febbraio 2011, inserto Sette)

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«L’unico sistema filosofico la cui conoscenza è imprescindibile per capire la mia opera è la filosofia di  [Immanuel] Kant [1724-1804]. Tuttavia, ancor meglio sarebbe la conoscenza della filosofia platonica. Se poi il lettore fosse anche iniziato alla sapienza del Veda, i cui segreti sono stati rivelati dalle Upanishad, avrebbe allora una preparazione adeguata per intendere quanto dico». Così scrive, ne Il mondo come volontà e rappresentazione Arthur Schopenhauer (1788-1860), dando ragione a chi definirà la sua filosofia come una sintesi tra Kant e l’Oriente.
Con Kant Schopenhauer afferma che del mondo conosciamo solo una «rappresentazione», la quale nei termini di un certo platonismo e del mito indiano di Maya nasconde come sotto un velo la vera realtà, la kantiana «cosa in sé». Senonché, appena si comincia a ragionare sulla «cosa in sé», secondo Schopenhauer, si rischia di scivolare o nella «filosofia dell’oggetto», il materialismo, o nella «filosofia del soggetto», l’idealismo. L’idealista, che pensa di dedurre la materia dallo spirito, e il materialista, che fa nascere lo spirito dalla materia, percorrono entrambi strade senza uscita.
Ma il piano del ragionamento, per Schopenhauer, non è l’unico. Siamo spirito, ma anche corpo, che vive e soffre. Attraverso l’esperienza dolorosa del vivere riusciamo a squarciare il velo di Maya e a scoprire la radice della «cosa in sé», la volontà. Una volontà che tutto pervade, che è irrazionale, che non ha nessun fine, che lavora per la morte.
Schopenhauer è qui vicino alle versioni del buddhismo più spesso accostate all’ateismo. Per quanto citi volentieri mistici cristiani, Schopenhauer, come diceva di lui Friedrich Nietzsche (1844-1900), è «il primo ateo dichiarato e irremovibile» della modernità.
Un cristiano ne può concludere che, se si abbandona il cristianesimo per le dottrine orientali reinterpretate alla luce della filosofia moderna, si finisce nel nichilismo. Come gli antichi pagani di san Paolo nella Lettera agli Efesini, i moderni europei che sono andati – ma a modo loro – verso Oriente si sono ritrovati «senza speranza e senza Dio nel mondo».
Che cosa rimane al cristiano che voglia aprire nonostante tutto un dialogo con chi si ispira a questa miscela disperante di dottrine dell’India e di relativismo post-illuminista? Resta l’appello al buon senso. È quello che si ritrova nella parabola di Schopenhauer del branco di porcospini: quando fa freddo se stanno troppo vicini si pungono con i loro aculei, se stanno troppo lontani muoiono congelati, così che solo la via media di una vicinanza ragionevole ma non troppo stretta permetterà loro di sopravvivere. Lo stesso tema del buon senso emerge ne Il giudizio degli altri. Soffriamo perché temiamo quello che gli altri penseranno di noi. Se ne prescindiamo totalmente perdiamo il senso dell’onore, che è invece necessario. Se abbiamo troppo paura degli altri, la sofferenza ci divora. Schopenhauer consiglia dunque di ridurre la nostra dipendenza dal giudizio altrui «a una misura ragionevolmente giustificabile, a un cinquantesimo mettiamo di quella attuale».
Piccoli brandelli di buon senso, da cui si può partire per avviare un dialogo che raggiunga nella sua disperazione anche chi la pensa come Schopenhauer. Il buon senso, in effetti, è spesso l’anticamera del ritorno al reale.