Per
comprendere i processi di adattamento delle religioni dei migranti è necessario
indagare non solo le loro dinamiche interne ma comprendere la relazione fra
queste e le influenze ambientali cui sono esposte. In particolare, va
individuata la posizione che esse occupano nel mercato religioso: i rapporti
con le istituzioni storicamente presenti e con altre di più recente impianto e
l’influenza delle forme che assume la pietà e la religiosità nel paese d’accoglienza.
Una
recente ricerca ha ad esempio mostrato come non sarebbe possibile render conto
del Buddhismo degli immigrati dallo Sri Lanka in Italia, senza indagare
l’attività dell’Unione Buddhisti Italiani volta a far dialogare i diversi
buddhismi promuovendo lo scambio di esperienze e di leader religiosi; la domanda
potenziale di maestri ed esperti di meditazione derivante dall’interesse per il
buddhismo di molti italiani e, infine, l’influenza del Cattolicesimo che porta
molti singalesi a frequentare, in parallelo o in alternativa al tempio, le
parrocchie e a partecipare a culti popolari – per lo più di santi e
protettori locali – attuando un sincretismo religioso che in alcuni casi porta
al passaggio al cattolicesimo
[1]
.
Queste
influenze assumono una forma più strutturata nel caso delle religioni cristiane
immigrate cui la Chiesa rivolge un’attenzione specifica di promozione del dialogo
ecumenico.
Basandomi
su una ricerca della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna cui ho partecipato,
tratterò degli effetti che le strategie ecumeniche comportano sulla vita e le
prospettive di alcune religioni, attraverso l’analisi di interviste ai loro
leader
[2]
.
Si tratta in particolare, di tre comunità ortodosse composte quasi
esclusivamente da stranieri (interviste all’archimandrita del Patriarcato
ecumenico di Costantinopoli a Bologna, a un Padre del Patriarcato di Mosca a
Modena e a un Padre del Patriarcato di Romania a Bologna) e di due comunità protestanti
composte prevalentemente da italiani nelle quali però la crescente presenza di
migranti impone cambiamenti significativi nell’organizzazione, nella liturgia,
nella spiritualità (interviste ai pastori responsabili della chiesa
metodista-valdese di Bologna e dell’Alleanza Evangelica Italiana di Ferrara).
Nella
prospettiva sociologica, il dialogo ecumenico non può essere affrontato senza
considerare parallelamente la posizione dei dialoganti e quindi la posizione relativa
di forza o debolezza delle diverse chiese. Solo considerando le posizioni di centralità o marginalità nel
campo religioso si può rendere conto di ciò che gli intervistati dicono e del
perché lo dicono.
Nel
caso italiano, la situazione di pluralismo
imperfetto o monopolio di fatto che secondo molti Autori caratterizza il mercato religioso, fa sì che, nel
senso comune, le religioni diverse dalla cattolica siano poco conosciute,
svalutate o, in certi casi, disprezzate e si trovino, in generale, svantaggiate
rispetto alla chiesa maggioritaria
[3]
.
Questo
handicap strutturale si rispecchia, sul piano della legislazione, nei diversi
gradi di riconoscimento giuridico. Mentre la Chiesa gode delle tutele
concordatarie, nessuna delle comunità intervistate, se si esclude la piccola
comunità Metodista-valdese, è riconosciuta dallo Stato tramite una “intesa”.
Ciò significa che le esigenze rituali, devozionali o economiche, non sono
tutelate in modo specifico.
Il
presupposto è che nessun soggetto razionale si impegnerà in un confronto se non
spera di ottenerne un beneficio di qualsiasi genere – spirituale e
cognitivo, ma anche di rafforzamento della propria posizione – tantomeno
lo farà se prevede di uscirne danneggiato. Danni e benefici dipendono in gran
parte dalla posizione rispettiva dei dialoganti e dalla capacità di stabilire
le regole e i confini entro cui il confronto dovrà svolgersi: Di cosa si potrà
parlare? Quali argomenti saranno banditi? Chi potrà dialogare e chi dovrà
essere escluso? Chi sceglierà i temi?
L’ipotesi
è che l’insistenza degli intervistati su particolari aspetti teologici o
pastorali non dipenda solo dalla loro oggettiva rilevanza nel sistema
dottrinale, ma serva anche a porre all’interlocutore più forte – quindi
alla Chiesa – precise condizioni per la prosecuzione del dialogo
[4]
.
In
questa prospettiva, non analizzerò le argomentazioni dei leader religiosi dal
punto di vista della funzionalità al confronto ecumenico, ma come sintomo di tensioni o
conflitti che quel confronto include e, quindi, come espressione di strategie
volte a migliorare la posizione delle loro chiese.
1. Le chiese ortodosse
Gli ortodossi in Italia
sono circa un milione e in forte crescita particolarmente per l’immigrazione
dalla Romania
[5]
.
Se la tendenza dovesse continuare, l’ortodossia potrebbe divenire in breve
tempo la seconda religione in Italia, superando, per numero di fedeli l’islam.
La “debolezza” di questa religione nell’immigrazione non dipende quindi dalla
scarsità numerica – le tre comunità intervistate contano ciascuna alcune
migliaia di fedeli provenienti dall’est Europa – ma dalla difficoltà di
governare questa realtà.
I
tre pastori intervistati sono consapevoli della condizione di svantaggio
rispetto alla chiesa cattolica, in molte situazioni, a causa della impossibilità
di offrire adeguata assistenza spirituale a una popolazione crescente e
disseminata sul territorio. Ad esempio, nei casi crescenti di matrimoni misti
fra cattolici e ortodossi nei quali in genere il coniuge ortodosso segue il
cattolico anche nell’educazione religiosa della prole, oppure nell’insegnamento
della religione a scuola dove l’unica offerta disponibile è quella cattolica,
oppure nella formazione dei figli di genitori ortodossi che spesso frequentano,
per mancanza di alternative, le parrocchie come luoghi di socializzazione o,
ancora, nell’assistenza ai malati, ai carcerati, ai bisognosi. In tutti questi
casi, la presenza capillare della Chiesa nelle istituzioni ne fa spesso l’unico
riferimento spirituale disponibile e la trasforma in un polo d’attrazione per
gli immigrati.
Non si tratta di
proselitismo intenzionalmente svolto dagli operatori cattolici, ma di una
situazione ambientale sfavorevole derivante dalla posizione culturalmente
dominante della Chiesa di cui il Patriarca
della chiesa di Mosca è ben consapevole:
Ognuno comanda in casa propria, la
religione di maggioranza è di maggioranza, quindi molto raramente…ad esempio
nei matrimoni misti o nei battesimi misti si incomincia a informare l’altra
parte. E, in generale, l’altra parte siamo
noi quelli poco informati
[6]
. (Mosca)
Un’ulteriore
fattore di debolezza è la dipendenza sul piano logistico dell’Ortodossia dalla Chiesa che in molti casi concede gli spazi necessari al culto e alla socialità. Una
generosità che però mantiene quelle chiese dipendenti dalla buona volontà delle
autorità cattoliche e crea condizioni diseguali nel dialogo: è impossibile
dialogare alla pari col proprio benefattore.
Solo considerando la
posizione da cui parlano, si comprende l’insistenza dei tre intervistati sul
tema della “giurisdizione”. Un concetto che include tre principi: 1. la fede di ciascuno è quella ereditata dalla famiglia
e dall’appartenenza nazionale e non va cambiata con atti di proselitismo; 2. i
confini fra le fedi devono essere rigidamente mantenuti contrastando ogni
contaminazione, sia elaborata privatamente sia favorita dalle istituzioni; 3.
il dialogo ecumenico non deve riguardare temi controversi fra le fedi che
possano favorire il cambiamento di affiliazione.
I
tre principi sono così riassunti dal padre della chiesa rumena:
È chiaro che si sviluppa dentro di noi un rispetto
per l’altro, per la fede in cui è nato: i suoi genitori erano musulmani, erano
cristiani, ha questa identità spirituale religiosa che non si tocca. (…) Il discorso inter-religioso sulla fede mi sembra pericoloso –
cominciano a svegliarsi delle cose che non vogliamo! – il discorso della
convivenza, del rispetto, va benissimo, ma non credo in un dialogo teologico
inter-religioso approfondito: ci sono delle sensibilità e, allora, cominciano i
problemi. (Romania)
Possiamo
leggere nel rifiuto di tematizzare le differenze fra le due confessioni –
che potrebbero apparire secondarie, rispetto al grande patrimonio comune
– la preoccupazione che, data la situazione di svantaggio in cui opera
l’ortodossia, alcuni fedeli possano convincersi dell’equivalenza sostanziale
delle due religioni e passare a quella dominante, meglio strutturata e in grado
di offrire indubbi vantaggi.
Corollario di questa
visione è la condanna del proselitismo, qualsiasi forma esso assuma.
In primo luogo si denuncia quello aggressivo ed esplicito di gruppi come i Testimoni di
Geova o delle chiese pentecostali – che riscuotono successo fra gli
ortodossi, nei paesi d’origine e nell’immigrazione – la cui attività
missionaria è descritta dagli intervistati come un atto sacrilego contro la
chiesa ortodossa e ridotta a “raggiro e inganno diabolico”, negando qualsiasi motivazione
religiosa.
La
preoccupazione principale sembra essere, però, per il proselitismo implicito, ma
per questo più insidioso, di parroci e altri agenti cattolici che, essendo
spesso gli unici referenti spirituali in molte situazioni, soprattutto di
disagio – nelle carceri, negli ospedali, nei centri di assistenza –
favoriscono con la loro azione passaggi silenziosi al cattolicesimo. Si tratta
in questi casi di effetti della condizione ambientale di svantaggio che produce
determinati esiti senza che vi sia, il più delle volte, un’esplicita volontà
soggettiva. Lo stesso avviene, infatti, in senso inverso nei paesi a prevalenza
ortodossa.
Come [i TDG] d’altronde, hanno fatto [proselitismo] alcuni parroci cattolici – non tutti. Ci sono i parroci corretti e quelli, diciamo, scorretti. Questo è un fenomeno, se volete, ribaltabile perché è ovvio che in Grecia, in Russia, nei paesi super-ortodossi, in genere siamo noi la parte, diciamo, vincente rispetto a situazioni di minoranza. (Mosca)
È significativa a questo proposito, l’affermazione
di uno degli intervistati che dice di non essere interessato a conversioni di italiani alla sua chiesa. Affermazione
sorprendente per un pastore di anime che dovrebbe gioire per l’allargamento del
gregge, anche oltre i confini tradizionali d’appartenenza. Possiamo però
leggere in essa la proposta alla chiesa cattolica di un patto fra gentiluomini:
“io mi impegno a non favorire le conversioni e a non accogliere i convertiti, a
patto che anche tu faccia altrettanto”. Un patto che è però, come lascia
chiaramente intendere, la condizione posta per la prosecuzione del dialogo.
I miei fedeli vogliono ritrovarsi nella loro fede e nella loro chiesa; non sono neanche contenti se altri passano dalla loro fede nella nostra fede. Penso che questo desiderio non sia tanto umano o cristiano: cercare sempre di convertire, la cosa diventa sempre più complicata tra le chiese anche per il dialogo inter-religioso. (Romania)
Coerentemente
con queste posizioni, gli intervistati esprimono una fiera avversione alle
contaminazioni e al sincretismo; soprattutto all’abitudine, sviluppata da alcuni
ortodossi, di frequentare le due chiese e i due rituali. Hanno infatti
consapevolezza che è soprattutto nel rito che si esprime il senso di identità e
che ogni intreccio di simboli è un attentato al sentimento di appartenenza
etnico-religiosa. Ed è anche per questo che uno degli intervistati esprime la
sua repulsione per la comunità degli Uniati che incarna, in un certo senso, il sincretismo
fra ortodossia e cattolicesimo, mantenendo il rito orientale ma
prestando obbedienza al Papa. La loro religiosità “opportunista” (con noi fanno i cattolici; con voi, fanno
gli ortodossi) viene descritta come una chimera (non sono né carne ne pesce), una specie di mostro liturgico dalla
testa romana e il corpo ortodosso che semina confusione e genera angoscia;
soprattutto in chi ha interesse a mantenere una nitida distinzione fra le due
religioni.
Loro [gli Uniati] vestono e celebrano più o meno come noi ma sono uniti a Roma. L’ortodosso medio, queste cose, non le conosce. Riconoscono l’autorità di Roma, sono il frutto del concilio di Brest-Litovsk del 1598 o 1568 (sic!). Questi greci-cattolici non sono né carne né pesce: si sentono portati verso il rito orientale ma sono uniti a Roma. Con noi fanno i cattolici; con voi, fanno gli ortodossi. (Mosca)
In questa prospettiva, al
cui centro sta la netta separazione degli ambiti rituali e dottrinali, l’ecumenismo
deve consistere in un reciproco “riconoscimento” fra cattolicesimo e chiese ortodosse; che non sia solo astratto e di
principio né limitato alla concessione di spazi da parte della Chiesa, ma si
concretizzi nella leale e quotidiana collaborazione fra gli operatori
periferici di cui il patriarca di Mosca fornisce il modello.
Questo è ecumenismo reale, effettivo: è quello dell’infermiera cattolica che mi telefona ‘Padre, c’è un ortodosso che sta morendo, venga’. Questo è il vero ecumenismo. Poi, viceversa, arriviamo al punto che le badanti ortodosse per paura che la loro signora muoia senza sacramenti chiamino me. Poi, ovviamente, io avverto il parroco. (Mosca)
Questa
visione della religione come ascritta e immutabile rispecchia una
caratteristica storica delle chiese ortodosse che, nei paesi in cui sono
maggioritarie, si sono identificate con un territorio e una nazione. Nel
contesto dell’immigrazione questa identificazione viene adoperata per stabilire
i limiti del dialogo ecumenico. È in nome dall’appartenenza di ciascuno alla
sua religione che si chiede alla Chiesa di rispettare quella che viene
concepita come una “giurisdizione naturale” delle chiese ortodosse sui propri
fedeli e di resistere alla tentazione di approfittare della situazione di
vantaggio in cui si trova.
3. Due chiese protestanti
L’immigrazione
di decine di migliaia di protestanti, provenienti soprattutto dall’Africa, sta
modificando la fisionomia del protestantesimo nel nostro Paese sia a causa
della loro inclusione in chiese locali già esistenti, sia per la costituzione
di comunità indipendenti. Ne deriva una pluralità di esperienze. La prima è
relativa alle chiese tradizionalmente presenti in Italia, organizzate per lo
più in forma sinodale con gerarchia interna, associate alla FCEI (Federazione
delle chiese evangeliche in Italia). La maggior parte di queste chiese sono
oggi frequentate da immigrati di varie provenienze con prevalenza di africani,
la cui presenza, in alcuni casi maggioritaria, obbliga a un confronto
ravvicinato fra sensibilità religiose e dà luogo a importanti trasformazioni
sul piano liturgico. Per favorire l’incontro è stato istituito nel 2000 uno
specifico progetto denominato “Essere chiesa insieme” (ECI) che fornisce alle
comunità locali, “strumenti per la celebrazione di culti integrati nei quali si
[intrecciano] consuetudini, forme liturgiche e canti sia dei nazionali che
degli immigrati”
[7]
. Prevale,
quindi, nel protestantesimo tradizionale, la tendenza all’inclusione e
all’attenuazione delle barriere etniche in nome della comune fede che
favorisce, negli immigrati coinvolti, un buon livello di integrazione sociale.
Questa realtà riguarda comunque una minoranza.
La
maggioranza degli immigrati di fede protestante, infatti, appartiene a
congregazioni autonome, molte delle quali di matrice pentecostale. Si tratta di
comunità che nascono “spontaneamente”, ad opera spesso di energici imprenditori
religiosi, nei luoghi di aggregazione delle rispettive comunità (per lo più
nigeriane e ghanesi). Anche a causa di questi caratteri di spontaneità e
indipendenza, sappiamo poco su di esse. Sappiamo tuttavia da alcune ricerche,
che queste realtà hanno trovato nella forma congregazionale un modo efficace di
esprimere il forte bisogno di appartenenza etnica. A differenza della FCEI, che
impone i suoi criteri dottrinali e organizzativi alle chiese aderenti, il
pentecostalismo privilegia la dimensione locale, periferica e si esprime in
forme elastiche che consentono ampia libertà nell’organizzazione, nella
leadership, nella ritualità. Le congregazioni sono comunità autosufficienti sia
sul piano finanziario e organizzativo sia su quello dottrinale e liturgico;
sono orgogliose della loro indipendenza e propense al proselitismo. Solo in un
secondo tempo decidono, eventualmente, di aderire a una “denominazione” (come
la rete ELIM) o alla FCP (Federazione delle Chiese Pentecostali) che non impone
però un controllo rigoroso sull’attività dei pastori e delle chiese associate.
La libertà di elaborazione teologica e liturgica permette di inserire nel culto
elementi animisti e di possessione, tipici del bagaglio culturale degli
immigrati, oppure di praticare culti estranei al protestantesimo tradizionale
come esorcismi, benedizioni, unzioni con olio sacro, guarigioni miracolose o,
infine, di accogliere forme teologiche originali come il Prosperity Gospel che interpreta il Vangelo come strumento per
ottenere successo e benessere.
Il
protestantesimo offre quindi agli immigrati due modelli di integrazione. Da un
lato l’offerta mainline, di
rielaborazione culturale, inclusivismo etnico ed ecumenismo; dall’altro quella
etnico-religiosa, esclusivista e sincretista. La prima offre un superamento
dell’identità ristretta in direzione di una piena incorporazione sociale, la
seconda una riscoperta identitaria che in molti casi si presenta come una sorta
di socializzazione primaria attraverso riti di passaggio fortemente etnicizzati
[8]
.
Questo
quadro d’insieme ci aiuta a capire la posizione delle due piccole chiese
intervistate: la comunità “evangelicale” di Ferrara, aderente all’Alleanza
Evangelica Italiana (AEI) – espressione di un protestantesimo “conservatore”
[9]
– e la chiesa metodista-valdese di Bologna – associata alla FCEI
– ciascuna delle quali conta alcune decine di fedeli italiani. Entrambe
sono in contatto con singoli immigrati o comunità protestanti già organizzate,
il cui numero sopravanza ormai quello degli italiani. Questa presenza, che se
integrata potrebbe essere un fattore di forza e visibilità, sembra tuttavia essere
soprattutto fonte di problemi organizzativi e pastorali e non aiuta queste
chiese a uscire dalla condizione di minoranza.
Da
un lato, i tentativi di comunicazione o integrazione sono spesso frustrati
dalla diffidenza delle comunità etnico-religiose presenti sul territorio,
gelose della loro identità nazionale o linguistica poco interessate a
confondersi con italiani in nome della fede comune. Dall’altro lato il lavoro
d’integrazione nelle chiese locali di immigrati protestanti che condividono la
stessa impostazione religiosa rappresenta un aggravio organizzativo che assorbe
molte energie ma non si trasforma in elemento di maggiore consistenza e
visibilità della comunità locale.
Il
principale fattore di debolezza, denunciato concordemente dagli intervistati,
si può però far risalire alla struttura del mercato religioso italiano,
caratterizzato dalla posizione egemone del cattolicesimo, che fa sì che nel
senso comune e nelle prassi istituzionali si identifichi spesso il cristianesimo con
la chiesa cattolica o anche, la religione con le autorità vaticane,
rendendo le piccole chiese protestanti di fatto invisibili. Ad esempio,
denunciano gli intervistati, appare naturale nelle occasioni pubbliche,
invitare come rappresentante del cristianesimo un’autorità cattolica,
dimenticandosi dell’esistenza di altre confessioni. E, viceversa, sembra
naturale a un sindaco, che dovrebbe rappresentare l’intera cittadinanza,
partecipare a eventi cattolici.
Anche
se le due chiese si collocano su due versanti distinti, e spesso contrapposti,
del panorama protestante, entrambi i pastori esprimono un medesimo disagio per la
condizione di minoranza e invisibilità e pongono come presupposto per il
dialogo che la controparte cattolica accetti con più rigore la separazione fra
sfera religiosa e sfera statale.
Nel
caso della chiesa evangelicale la richiesta è articolata sul tema della laicità: una categoria, definita sul
modello americano, che prevede la rigida separazione, costituzionalmente garantita,
fra le istituzioni civili e le molte religioni presenti sul territorio. La
condizione che egli pone è che la Chiesa rinunci ai suoi “privilegi”: da quelli
derivanti dal Concordato con lo Stato, alla “simbiosi con le istituzioni”, alla
“sintonia con le fondazioni bancarie”, eccetera. La posizione iniziale di
vantaggio, infatti, si ripercuote sul dialogo ecumenico che viene organizzato dalla
Chiesa in modo tale da escludere la vera posta in gioco, costituita dalle
condizioni diseguali in cui esso si svolge. La scelta dei temi non è neutrale e
chi ha il potere di deciderli escluderà quelli sui quali ha più da perdere che
da guadagnare.
Il fatto che si
privilegino temi universali su cui tutti
dovrebbero essere già d’accordo – i diritti umani, la pace,
l’accoglienza, eccetera – denuncia il pastore, non serve solo a
rifugiarsi in un unanimismo tranquillizzante (siamo tutti buoni!); serve soprattutto a occultare le posizioni di
potere. Un vero dialogo dovrebbe riguardare i punti in cui si è in disaccordo: le
diverse visioni della laicità, le divergenti concezioni della chiesa, della
grazia e della salvezza.
Io credo che la laicità, più dei diritti umani, sia una questione che può essere giocata o discussa in tutti i livelli: sia macro che di vissuto quotidiano. (…) fare un dialogo sulla salvezza – al di là del parlare della pace – e su come ci si salva, se di salvezza si può parlare. Facciamo un confronto tra Bibbia e Corano, fra testi sacri ma non in un’ottica storico-religiosa. Un comparativismo, però confessante. (…) Quando io incontro un islamico o un cattolico convinto è su questo che si parla – mica si parla della pace (!) di come siamo bravi tutti (!).
La
visione del dialogo esposta dal pastore è tipica delle chiese missionarie
votate al proselitismo; presuppone un mercato religioso, come quello americano,
aperto alla concorrenza e alle conversioni, nel quale tutte le chiese sono
poste sullo stesso piano, in competizione per convincere e accaparrarsi nuovi fedeli. Una
condizione che si oppone a quella italiana in cui – come egli afferma
– assetti anche più iniqui dal punto di vista della laicità vengono
difesi (dalla Chiesa) con i
denti e camuffati con argomenti come ‘il rispetto della maggioranza’ o ‘la
tradizione culturale’.
Poiché
mancano, nel mercato religioso condizioni favorevoli alla sua espansione, la chiesa
evangelicale si rifiuta di partecipare al confronto, proposto dalla chiesa
egemone, su argomenti “su cui sono tutti d’accordo”, nel quale non ha nulla da
guadagnare e molto da perdere.
È
diverso l’atteggiamento del pastore valdese-metodista che articola la sua
strategia ecumenica sul tema della secolarizazione.
Un atteggiamento che discrimina le realtà religiose anche all’interno del
protestantesimo. Da un lato c’è il protestantesimo mainline che l’accetta come valore positivo, inscritto nei
caratteri costitutivi del cristianesimo, soprattutto nella variante luterana:
libera scelta del fedele, libertà d’interpretare la Bibbia, assenza di una
gerarchia, autonomia delle diverse chiese. Dall’atro lato la visione
integralista, tipica delle sette pentecostali, sottoposte all’autorità
indiscussa del loro leader, ma anche della chiesa cattolica, nella misura in
cui privilegia il dogma, la gerarchia, l’obbedienza.
Questa
discriminante – che rende difficile i rapporti con le molte congregazioni
immigrate di matrice pentecostale – pregiudica la prosecuzione del
dialogo ecumenico. Poiché la Chiesa non accetta la secolarizzazione come valore
intimamente cristiano; non rinuncia ai “privilegi” di cui gode nella società italiana
e alla pretesa di avere il monopolio della verità gerarchicamente stabilita,
l’ecumenismo è di fatto impossibile. Si prosegue il dialogo in modo formale e
quasi burocratico per non contraddire decisioni assunte in passato e per non
darla vinta ai settori conservatori del cattolicesimo, più che per la speranza
di giungere a un qualche risultato.
Ci sentiamo, qui, veramente ignorati e discriminati. Ma la peggior discriminazione è quando i cattolici ci dicono ‘tanto, siete come noi’. Ora di religioni insegni!. (…) Per noi che non abbiamo un Magistero ufficiale che impone la sua visione, questo rende problematico il dialogo perché quando uno ritiene di essere ‘il’ depositario unico della verità, il dialogo è un monologo ed è una spinta che va verso il settarismo. (…) Come Sinodo, che è la nostra massima autorità sulla terra, abbiamo detto dobbiamo continuare anche se c’è tutto il quadro, soprattutto dalla parte cattolica, di disfare quello che si è fatto dichiarando che il protestantesimo è morto per la secolarizzazione, privilegiando il rapporto con le sette o con i Pentecostali. (…) Quindi ci troviamo in una situazione di profondo disagio. Vediamo con molti cattolici una desolazione totale e proprio per questo abbiamo detto che non possiamo abbandonare il quadro ecumenico perché faremmo un favore alle persone che vogliono tornare indietro.
Nonostante
le diversità fra loro, le due chiese pongono tuttavia un’analoga richiesta per
la prosecuzione del dialogo ecumenico: la necessità che il cattolicesimo accetti
fino in fondo il principio di laicità: rinunci ai rapporti privilegiati con lo
Stato, nelle sue diramazioni centrali e locali, rinunci alla pretesa di
detenere la verità, stabilita attraverso la gerarchia e accetti di agire alla
pari, come una delle molte chiese che costituiscono il pluralismo religioso in
Italia. E con queste motivazioni, si sottraggono di fatto al confronto che
percepiscono eccessivamente sbilanciato e svantaggioso. Le condizioni che essi
pongono appaiono infatti, difficilmente conciliabili con la storia del cattolicesimo
e dei rapporti fra Chiesa e società in Italia.
5. Conclusioni
L’ecumenismo,
come qualsiasi relazione sociale, non è immune dagli effetti di potere
derivanti dalla posizione reciproca degli attori coinvolti e dalla violenza
simbolica esercitata da chi si trova in posizione egemone. Come sappiamo, la
violenza simbolica è una forma di dominio che si esercita senza ricorso alla
violenza o alla repressione. Indipendentemente dalle intenzioni di chi la
esercita (che per lo più sono buone) – essa funziona a patto che chi si
trova in posizione di svantaggio abbia interiorizzato la gerarchia delle
posizioni in cui è inserito. A patto cioè che nel dialogo non si metta
all’ordine del giorno la legittimità di tali gerarchie, e si “parli d’altro”:
appunto, dell’ “ecumenismo”, in quanto processo “universale”, svincolato dagli
interessi dei dialoganti.
La
difficoltà che la Chiesa incontra nel dialogo ecumenico con le religioni qui
considerate dipende dal fatto che queste non sono disposte ad accettare la
gerarchia di potere entro la quale esso si svolge. Ciascun leader mostra di
conoscere i punti di forza e debolezza della sua religione e sa che essa
verrebbe danneggiata da un confronto male impostato. Rivendica quindi il
diritto di stabilire le regole entro cui dovrà svolgersi e chiede che siano
resi espliciti i rapporti di forza fra i dialoganti.
È
per questo che, mentre la Chiesa vorrebbe centrare l’attenzione sulle questioni
sulle quali più facilmente si potrebbe raggiungere il consenso, i leader
intervistati chiedono garanzie e cercano di usare le “aperture” della Chiesa
per attenuare la propria condizione minoritaria.
Essi
sanno infatti, che un confronto sui contenuti “ecumenici” che non includa i
motivi che spingono la Chiesa a sostenerli risulterà per loro dannoso. Il fatto
stesso di accettarlo, eventualmente raggiungendo un accordo, legittimerebbe, in
definitiva, il loro svantaggio.
È
per questo, ad esempio, che i leader ortodossi si oppongono al confronto
teologico o alle contaminazioni rituali col cattolicesimo che potrebbero far
apparire le due religioni troppo simili fra loro, a tutto vantaggio della più
forte. E i leader protestanti si rifiutano di parlare di temi “universali”,
come la pace o i diritti umani, senza affrontare, preliminarmente, il tema dei
“privilegi” materiali e simbolici della Chiesa, che rendendo le piccole
presenze protestanti di fatto invisibili.
Le
condizioni poste alla Chiesa sono tuttavia diverse e danno luogo a due modelli.
Il
primo – ipotizzato dagli ortodossi – potremmo definirlo del riconoscimento. Insistendo sul tema della
“giurisdizione” e accentuando l’immutabilità dell’appartenenza di ciascuno alla
religione ereditata, essi intendono garantirsi un territorio riservato e
contrastare l’emorragia di fedeli. Potremmo anche definire questo modello: dialogo non dialogante. Esso infatti, esclude
le questioni teologiche e rituali su cui c’è divergenza, che possono generare “confusione”
negli immigrati e stimolare conversioni al cattolicesimo. In questa
prospettiva, l’ecumenismo dovrebbe quindi consistere nel riconoscersi reciprocamente come titolari di un “diritto” pastorale
sui rispettivi fedeli e, in conseguenza, assicurare alle chiese ortodosse, in
affanno sui problemi logistici, uno spazio protetto in cui consolidarsi.
Il
secondo modello – proposto dai protestanti – si oppone al
precedente. Potremmo definirlo della concorrenza.
Auspica infatti, un dialogo a tutto campo che metta in competizione le offerte
religiose: le diverse letture dei testi sacri, le visioni dissonanti della
chiesa, della salvezza, del peccato e dell’autorità gerarchica. Ma, affinché esso
si svolga alla pari, i leader protestanti pretendono che la Chiesa accetti fino
in fondo il principio di “laicità” e rinunci alla pretesa di possedere la
verità gerarchicamente stabilita. Condizioni che la Chiesa difficilmente accetterebbe.
Il
primo modello è invece più facilmente integrabile nelle prospettive attuali
della Chiesa che, del resto, già “riconosce” e aiuta le comunità ortodosse. Queste,
inoltre, non contestano i “privilegi” della Chiesa perché sanno che lo stesso
avviene, in senso inverso, nelle Nazioni a maggioranza ortodossa. Ciò che
chiedono è solo maggiore collaborazione e rispetto delle appartenenze
ancestrali.
Tuttavia,
in una logica di “mercato” che vede la concorrenza fra le agenzie come uno
stimolo alla vitalità religiosa, il modello del riconoscimento potrebbe rivelarsi, nel lungo periodo, perdente
[10]
.
Portato alle sue logiche conseguenze, questo “ecumenismo” delegato alle
autorità religiose – che dovrebbero vigilare sui i confini teologici,
rituali e di appartenenza – si configura come un poco entusiasmante
cartello di chiese “rispettabili” che si impegnano a non farsi concorrenza e a
proteggersi dall’invasione delle sette.
Una
strategia difensiva con effetti deprimenti sulla domanda religiosa complessiva.
[1] Si veda: Lucà Trombetta, Trasformazioni del buddhismo singalese nell'immigrazione. In M. Sernesi, F. Squarcini (ed.). Il Buddhismo contemporaneo. Rappresentazioni, istituzioni, modernità. (pp. 131 – 151). FIRENZE: Società Editrice Fiorentina. (2006).
[2] La ricerca intendeva indagare la disponibilità al confronto attraverso interviste semistrutturate a leader di diverse comunità (non solo quelle qui considerate). L’obiettivo era di verificare l’apertura al dialogo, in generale – quindi di ciascuna comunità con la molteplicità delle religioni, cristiane e non cristiane, presenti sul territorio. Tuttavia poiché l’intervista era fatta per conto di una prestigiosa istituzione cattolica, come la Facoltà di teologia, i leader religiosi delle chiese da me analizzate – come emerge da molti brani delle interviste – erano convinti di dialogare, attraverso l’intervistatore, con la Chiesa e, nelle risposte esplicitavano le richieste e ponevano le condizioni per la prosecuzione del dialogo. Per i risultati della ricerca si vedano gli atti del convegno del 2 dicembre 2009 di prossima pubblicazione.
[3] Fra le molte analisi disponibili sul ruolo preponderante della Chiesa nel mercato religioso, si veda il recente testo di F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Il Mulino, Bologna, 2006. I dati riportati dall’Autore mostrano che circa l’86% degli italiani si dice cattolico meno del 5% dichiara di appartenere ad altre religioni e il 9% di non appartenere ad alcuna religione.
[4] Per una corretta analisi delle interviste non si può trascurare il fatto che l’intervista veniva fatta per conto di una prestigiosa istituzione, come la Facoltà di teologia e che gli intervistati, come emerge da molti brani delle interviste, erano convinti di dialogare, attraverso l’intervistatore, con la chiesa cattolica.
[5]
Appartenenza religiosa degli immigrati e degli
italiani alle religioni qui considerate.
|
Immigrati
(CARITAS 2008)
|
Immigrati
(CESNUR 2008)
|
Italiani
(CESNUR)
|
Ortodossi
|
1.129.630
|
836.000
|
57.500
|
Protestanti
|
138.825
|
180.000
|
409.000*
|
IMMIGRATI
IN ITALIA
|
3.987.112
|
|
|
*
Il dato sui protestanti italiani comprende, oltre ai circa 60.000 appartenenti
a chiese “storiche” (valdesi, luterani, riformati, calvinisti, battisti,
metodisti), altre componenti di più recente insediamento e, soprattutto, i
“pentecostali” che da soli costituiscono oltre la metà del totale (290.000).
Cfr.
Caritas Migrantes, Immigrazione. Dossier Statistico 2008. XVIII Rapporto,
Idos, Roma 2008 e il sito del CESNUR: https://www.cesnur.org/religioni_italia/introduzione_01.htm.
La discrepanza fra le due fonti è data da un diverso criterio di calcolo.
Mentre la CARITAS privilegia l’origine geografica degli immigrati imputando a
essi le stesse percentuali di appartenenza religiosa esistenti nei rispettivi
paesi di provenienza, il CESNUR si basa anche sul contatto diretto e la
rilevazione empirica delle forme organizzate della religione degli immigrati e
tiene conto dell’esistenza di piccole realtà, come ad esempio le chiese
pentecostali africane, che operano su scala locale e sfuggono alle rilevazioni
su vasta scala. Si veda anche su questi dati e le tendenze in atto: P. Naso e
B. Salverani (a cura di), Il Muro di
Vetro. L’Italia delle religioni. Primo rapporto 2009, EMI, Bologna 2009 p. 14 ss.
[6] Corsivi miei. In questa, come nelle altre citazioni, riporto in corsivo le espressioni che reputo significative degli atteggiamenti e delle prese di posizione segnalati nel testo. Fra parentesi è riportata la chiesa d’appartenenza dell’intervistato.
[7] Si veda su questo punto: P. Naso Le chiese africane in Italia. Mappe geografiche e teologiche in “Religioni e sette nel mondo” 2009/1, p. 156; e P. Naso e B. Salvarani, op. cit., p. 130 ss.
[8] Cfr. Naso op. cit. e P. Lucà Trombetta, Le religioni degli immigrati fra integrazione e esclusione sociale in “Religioni e sette nel mondo” cit. p. 25 ss.
[9]
L’Evangelicalismo è un movimento interno al
protestantesimo che supera le barriere denominazionali. Di impianto
fondamentalista, esso intende preservare la fede cristiana “storica” dagli
sviluppi moderni, percepiti come un suo tradimento o corruzione.
L'Evangelicalismo riconosce come unica autorità quella della Bibbia (inerranza) e enfatizza la necessità
della personale esperienza della conversione a Cristo (born again) in contrapposizione all'appartenenza ascritta a una
chiesa per tradizione familiare. L’AEI – che si riconosce in questo
movimento – fa parte della alleanza evangelica mondiale (WEA) che si definisce “l’organo più
rappresentativo del firmamento evangelicale”. Rivendica la rappresentanza di
160 milioni di credenti nel mondo. Si veda il sito del movimento: http://www.alleanzaevangelica.org/
[10] Sulla “teoria delle economie religiose” – affermatasi in USA a partire dagli anni Novanta del secolo scorso – cui mi sono liberamente ispirato in questa analisi, rimando per uno sguardo critico d’insieme, al numero monografico di “Inchiesta” 136/2002, da me curato.