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Il Papa, il Vaticano II e la Parola di Dio. L’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI

di Massimo Introvigne

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Nelle duecento pagine dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, datata 30 settembre 2010 ma resa pubblica il successivo 11 novembre, Benedetto XVI non si rivolge solo agli specialisti di esegesi biblica. Dal momento che la Parola di Dio è al centro di tutta la vita cristiana, anzi al centro del cosmo e della storia, l’esortazione apostolica è occasione per un’ampia ricognizione che parte dalla Bibbia ma si estende al rapporto tra fede e ragione, alla cultura, alla missione, all’instaurazione dell’ordine temporale e perfino all’arte e a Internet. Una particolare attenzione è dedicata all’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.

In un discorso ormai famoso tenuto il 22 dicembre 2005 ai membri della Curia Romana, Benedetto XVI ha criticato le interpretazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II che ne leggono i documenti secondo una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» (Benedetto XVI 2005) rispetto al Magistero precedente della Chiesa, purtroppo assai diffusa e anzi in molti ambienti prevalente, raccomandando invece una «giusta ermeneutica» (ibid.), insieme «del rinnovamento nella continuità» (ibid.) e «della riforma» (ibid.). Alcuni dei numerosi commentatori di questo storico discorso hanno rilevato che non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Si tratta in effetti ora di riprendere in mano i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, uno per uno, interpretandoli secondo la «giusta ermeneutica» e tenendo conto sia del Magistero precedente, sia di quello successivo.

Nella Verbum Domini Benedetto XVI fa appunto questo, e ci mostra la giusta ermeneutica – per così dire – in azione. Dopo la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si è celebrata in Vaticano dal 5 al 26 ottobre 2008 e ha avuto per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, il Papa rilegge metodicamente la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio Ecumenico Vaticano II, che definisce «pietra miliare nel cammino ecclesiale» (Benedetto XVI 2010, n. 3), servendosi sia del Magistero precedente – in particolare di Leone XIII (1810-1903) e del venerabile Pio XII (1876-1958) –, sia di documenti successivi al Concilio del servo di Dio Paolo VI (1897-1978), del venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) e dello stesso Benedetto XVI.

Il tema, evidentemente, è di grandissimo rilievo sia per il Concilio Ecumenico Vaticano II sia per la Chiesa e l’umanità in genere. Per gli uomini, infatti, la più grande «buona notizia» (ibid., n. 1) è che la Parola di Dio, «che rimane in eterno, è entrata nel tempo» (ibid.). «Non esiste priorità più grande di questa: riaprire all’uomo di oggi l’accesso a Dio, al Dio che parla» (ibid., n. 2). C’è un annuncio oggettivamente straordinario «che nel quotidiano rischiamo di dare per scontato: il fatto che Dio parli e risponda alle nostre domande» (ibid., n. 4). Per la Chiesa si tratta del «cuore stesso della vita cristiana» (ibid., n. 3): «la Chiesa si fonda sulla Parola di Dio, nasce e vive di essa» (ibid.). Benedetto XVI ricorda come questo tema sia stato particolarmente approfondito nel «pontificato di Leone XIII» (ibid.). Ma l’approfondimento ha raggiunto «il suo culmine nel Concilio Vaticano II, in modo speciale con la promulgazione della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum» (ibid.). Oltre a riconoscere «i grandi benefici apportati da questo documento» (ibid.), si tratta ora di effettuare una «verifica dell’attuazione delle indicazioni conciliari» (ibid.) e di affrontare, alla luce della Dei Verbum, «le nuove sfide che il tempo presente pone ai credenti in Cristo» (ibid.).

Il Papa pone il documento sotto il patrocinio di san Paolo, infaticabile annunciatore del Vangelo – ricordando che il Sinodo si è riunito durante l’Anno Paolino –, e di san Giovanni, che nel Prologo del suo Vangelo ci ha offerto «una sintesi di tutta la fede cristiana» (ibid., n. 5): «il Verbo, che dal principio è presso Dio, si è fatto carne e ha preso la sua dimora in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)» (ibid.). La trattazione è divisa in tre parti. La prima, Verbum Dei, illustra la nozione di «Parola di Dio» e riflette sulla sua ricezione e interpretazione, soffermandosi in particolare sull’esegesi biblica. La seconda, Verbum in Ecclesia, mostra come la Chiesa nella liturgia e nella vita ecclesiale custodisce e proclama la Parola di Dio. La terza, Verbum mundo, insegna che la Parola di Dio vivifica il mondo attraverso l’annuncio missionario e l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale, che comprende la cultura e la vita politica e oggi si estende a campi nuovi come Internet.

I. Verbum Dei

A. Dio parla

1. Parla Dio Padre

Insegna la Dei Verbum che «Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 2). «Ma non avremmo ancora compreso a sufficienza il messaggio del Prologo di san Giovanni – nota Benedetto XVI – se ci fermassimo alla constatazione che Dio si comunica amorevolmente a noi» (Benedetto XVI 2010, n. 6). Le cose sono un poco più complesse. Il Papa propone una ricognizione delle «diverse modalità con cui noi utilizziamo l’espressione “Parola di Dio”» (ibid., n. 7), con un uso che è sempre «analogico» (ibid.), distinguendo fra quattro diversi significati. Anzitutto, la Parola di Dio è la persona di Gesù Cristo, l’eterno Logos del Padre che si fa uomo. In secondo luogo, è Parola di Dio «la stessa creazione, il liber naturae» (ibid.): Dio Padre ha parlato attraverso la creazione, dove tutto «porta in modo indelebile la traccia della Ragione creatrice che ordina e guida» (ibid., n. 8): «tutto ciò che esiste non è frutto di un caso irrazionale, ma è voluto da Dio» (ibid.). In questo senso san Bonaventura (ca. 1217 o 1221-1274) ha potuto scrivere che «ogni creatura è parola di Dio perché proclama Dio» (cit. ibid.). Ed è per questo che nella natura è iscritta quella che «la tradizione filosofica chiama “legge naturale”» (ibid., n. 9).

In terzo luogo, Dio parla nella storia della salvezza, nella predicazione degli Apostoli e nella «Tradizione viva della Chiesa» (ibid., n. 7). Non si devono contrapporre Parola di Dio e Tradizione, perché la Tradizione è essa stessa una Parola di Dio. Infine, nel quarto significato, l’espressione «Parola di Dio» si riferisce alla sacra Scrittura. Ma il terzo e il quarto significato non possono essere disgiunti. «Non essendo la fede cristiana una “religione del Libro”» (ibid.), che riposa esclusivamente su un testo scritto, è più esatta l’espressione di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) «religione della Parola di Dio […] [non di] una parola scritta e muta, ma del verbo incarnato e vivente» (cit. ibid.). Dunque, «la Scrittura va proclamata, ascoltata, letta, accolta e vissuta come Parola di Dio nel solco della Tradizione apostolica dalla quale è inseparabile» (ibid.). È questo l’insegnamento fondamentale del n. 10 della Dei Verbum.

Poiché Dio parla insieme attraverso la creazione e attraverso la Rivelazione «chi conosce la divina Parola conosce pienamente anche il significato di ogni creatura» (ibid., n. 10). Si tratta dunque di «cambiare il nostro concetto di realismo: realista è chi riconosce nel Verbo di Dio il fondamento di tutto» (ibid.), mentre quanto non è fondato su Dio ha solo un «carattere effimero» (ibid.). Di questo insegnamento «abbiamo particolarmente bisogno nel nostro tempo» (ibid.), segnato dal culto dell’effimero e del transitorio.

2. Parla il Signore Gesù

La «condiscendenza di Dio» (ibid., n. 11), che accetta di parlare agli uomini, «si compie in modo insuperabile nell’incarnazione del Verbo» (ibid.). «La Parola qui non si esprime innanzitutto in un discorso, in concetti o regole. Qui siamo posti di fronte alla persona stessa di Gesù. La sua storia unica e singolare è la Parola definitiva che Dio dice all’umanità» (ibid.). Il Papa vorrebbe trasmettere il senso, difficile da esprimere nel linguaggio umano, di «una novità inaudita e umanamente inconcepibile» (ibid.), che dovrebbe sempre suscitare «nel cuore dei credenti stupore per l’iniziativa divina» (ibid.).

Questo stupore è stato espresso dalla «tradizione patristica e medievale» (ibid., n. 12) con un’«espressione suggestiva» (ibid.) già richiamata da Benedetto XVI nella sua omelia per la notte di Natale del 2006 (Benedetto XVI 2006): «il Verbo si è abbreviato» (Benedetto XVI 2010, n. 12). «La Parola eterna si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile» (ibid., citando Benedetto XVI 2006). Ma c’è una profonda «unità del disegno divino nel Verbo incarnato» (Benedetto XVI 2010, n. 13). Richiamando un’altra sua omelia, quella per l’Epifania del 2009, il Papa – notoriamente appassionato di musica – spiega che Dio opera «mediante la “sinfonia” del creato. All’interno di questa sinfonia si trova, a un certo punto, quello che si direbbe in linguaggio musicale un “assolo”, un tema affidato ad un singolo strumento o ad una voce; ed è così importante che da esso dipende il significato dell’intera opera. Questo “assolo” è Gesù» (Benedetto XVI 2009, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 13).

Quel bambino nella mangiatoia di Betlemme è la Parola di Dio che si è fatta persona: ma lo è anche il Cristo in croce, dove pure «il Verbo ammutolisce, diviene silenzio mortale, poiché si è “detto” fino a tacere, non trattenendo nulla di ciò che ci doveva comunicare» (ibid., n. 12). Sulla croce, «Dio parla anche per mezzo del suo silenzio» (ibid., n. 21), e «questa esperienza di Gesù è indicativa della situazione dell’uomo che, dopo aver ascoltato e riconosciuto la parola di Dio, deve misurarsi anche con il suo silenzio» (ibid.): «momenti oscuri» (ibid.), diventati «esperienza vissuta da tanti santi e mistici, e che pure oggi entra nel cammino di molti credenti» (ibid.). Ma «nel mistero luminosissimo della risurrezione questo silenzio della Parola si manifesta nel suo significato autentico e definitivo» (ibid., n. 12): Cristo è per sempre «il Vincitore, il Pantocrator» (ibid.), la «luce definitiva sulla nostra strada» (ibid.).

Benedetto XVI insiste su un aggettivo: «definitivo». In Gesù Cristo Dio ha detto tutto quello che c’era da dire. «San Giovanni della Croce [1542-1591] ha espresso questa verità in modo mirabile: “Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire…”» (ibid., n. 14). Il Papa che ha commentato in modo profondo – visitando i rispettivi santuari – i messaggi di Lourdes, nel 2008, e di Fatima, nel 2010, si chiede come si concili questa definitività della rivelazione di Dio con le rivelazioni private. Queste vanno rigorosamente distinte dalla Rivelazione pubblica del Padre in Gesù Cristo. Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, di cui il Papa richiama qui il n. 67, il ruolo delle rivelazioni private «non è quello […] di “completare” la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica» (ibid.). Dunque, «il criterio per la verità di una rivelazione privata è il suo orientamento a Cristo» (ibid.), e la rivelazione privata autentica «si manifesta come credibile proprio perché rimanda all’unica rivelazione pubblica» (ibid.). La rivelazione privata «può introdurre nuovi accenti, fare emergere nuove forme di pietà o approfondirne di antiche. Essa può avere un certo carattere profetico (cfr I Tess 5,19-21) e può essere un valido aiuto per comprendere e vivere meglio il Vangelo nell’ora attuale; perciò non la si deve trascurare» (ibid.). Peraltro, nessuno è obbligato a occuparsi di rivelazioni private: «è un aiuto che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso» (ibid.).

3. Parla lo Spirito Santo

«Non v’è alcuna comprensione autentica della Rivelazione cristiana al di fuori dell’azione del Paraclito» (ibid., n. 15), dello Spirito Santo, che dapprima «ispira gli autori delle sacre Scritture» (ibid.), quindi «sostiene e ispira la Chiesa nel compito di annunciare la Parola di Dio» (ibid.). Quanto agli autori sacri, i due concetti fondamentali sono quelli dell’ispirazione e della verità. «Come il Verbo di Dio si è fatto carne per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria, così la sacra Scrittura nasce dal grembo della Chiesa per opera dello Spirito Santo» (ibid., n. 19). L’ispirazione dello Spirito Santo non è una mera dettatura: la Chiesa «riconosce tutta l’importanza dell’autore umano che ha scritto i testi ispirati e, al medesimo tempo, Dio stesso come vero autore» (ibid.).

Benedetto XVI insiste su «quanto il tema dell’ispirazione sia decisivo» (ibid.) per una «corretta ermeneutica» (ibid.). Se si misconosce l’importanza dell’autore umano si adotta – si potrebbe dire – l’atteggiamento che l’islam ha di fronte al Corano, considerato un testo letteralmente «dettato» e non semplicemente ispirato da Dio, e si cade in forme di fondamentalismo. Ma se «si affievolisce in noi la consapevolezza dell’ispirazione» (ibid.) divina, allora «si rischia di leggere la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come opera dello Spirito Santo» (ibid.). Ultimamente, è lo Spirito Santo che garantisce la verità delle Scritture come insegna la Dei Verbum: «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 11).

Quanto all’azione dello Spirito Santo in relazione alla comprensione della sacra Scrittura nella Chiesa, l’affermazione di Benedetto XVI è molto forte: «senza l’azione efficace dello “Spirito della Verità” (Gv 14,16) non è dato di comprendere le parole del Signore» (Benedetto XVI 2010, n. 16). Così hanno insegnato i Padri della Chiesa e i dottori. Per san Girolamo (347-419 o 420) «non possiamo arrivare a comprendere la Scrittura senza l’aiuto dello Spirito Santo che l’ha ispirata» (cit. ibid.). E «Riccardo di San Vittore [ca. 1110-1173] ricorda che occorrono “occhi di colomba”, illuminati ed istruiti dallo Spirito, per comprendere il testo sacro» (cit. ibid.).

Non si tratta di un’affermazione priva di conseguenze. «Riaffermando il profondo legame tra lo Spirito Santo e la Parola di Dio, abbiamo anche posto le basi per comprendere il senso ed il valore decisivo della viva Tradizione» (ibid., n. 17) nella sua relazione con la sacra Scrittura, e per interpretare correttamente la Dei Verbum. Ci appare allora come «il Concilio Vaticano II ricord[i] […] come questa Tradizione di origine apostolica sia realtà viva e dinamica: essa “progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo”; non nel senso che essa muti nella sua verità, che è perenne. Piuttosto “cresce… la comprensione tanto della cose quanto delle parole trasmesse”, con la contemplazione e lo studio, con l’intelligenza data da una più profonda esperienza spirituale e per mezzo “della predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”» (ibid.: i riferimenti tra virgolette sono al n. 8 della Dei Verbum). Se si legge la Dei Verbum meditando sull’azione dello Spirito Santo ci si convince che «la viva Tradizione è essenziale affinché la Chiesa possa crescere nel tempo nella comprensione della verità rivelata nelle Scritture» (ibid.): «in definitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci comprendere in modo adeguato la sacra Scrittura come Parola di Dio» (ibid.).

«Mediante l’opera dello Spirito Santo e sotto la guida del Magistero, la Chiesa trasmette a tutte le generazioni quanto è stato rivelato in Cristo» (ibid., n. 18). Ma questa trasmissione è impossibile senza che il corpo dei fedeli «sia educato e formato in modo chiaro ad accostarsi alle sacre Scritture in relazione alla viva Tradizione della Chiesa» (ibid.).

B. L’uomo risponde

1. Il dialogo con Dio

«Nella nostra epoca purtroppo si è diffusa, soprattutto in Occidente, l’idea che Dio sia estraneo alla vita ed ai problemi dell’uomo e che, anzi, la sua presenza possa essere una minaccia alla sua autonomia» (ibid., n. 23). Abbiamo visto invece che «Dio parla ed interviene nella storia a favore dell’uomo e della sua salvezza integrale» (ibid.). Anche il nostro tempo deve tornare a scoprire «che solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo!» (ibid.). Così, «l’intera esistenza dell’uomo diviene un dialogo con Dio» (ibid., n. 24), come mostrano mirabilmente i Salmi, dove «troviamo tutta la gamma articolata di sentimenti che l’uomo può provare nella propria esistenza e che vengono posti con sapienza davanti a Dio» (ibid.). Non si deve però credere che il dialogo tra Dio e l’uomo sia «un incontro tra due contraenti alla pari» (ibid., n. 22): «non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma puro dono di Dio» (ibid.), che è infinitamente superiore all’uomo e non ha bisogno di parlargli, ma liberamente decide di farlo per amore.

Insegna la Dei Verbum che «a Dio che si rivela è dovuta “l’obbedienza della fede”» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, 5): «con queste parole la Costituzione dogmatica Dei Verbum ha espresso in modo preciso l’atteggiamento dell’uomo nei confronti di Dio. La risposta propria dell’uomo al Dio che parla è la fede» (Benedetto XVI 2010, n. 25). Due libertà s’incontrano. Dio liberamente si rivela, l’uomo liberamente risponde a Dio con la fede. Questo implica pure «la possibilità drammatica da parte della libertà dell’uomo di sottrarsi a questo dialogo di alleanza con Dio per il quale siamo stati creati» (ibid., n. 26), e l’emergere nella storia del «peccato come non ascolto della Parola» (ibid.).

Il contrario del peccato è l’atteggiamento della Madonna. Per sfuggire radicalmente al peccato «è necessario guardare là dove la reciprocità tra Parola di Dio e fede si è compiuta perfettamente, ossia a Maria Vergine» (ibid., n. 27); «è necessario nel nostro tempo che i fedeli vengano introdotti a scoprire meglio il legame tra Maria di Nazareth e l’ascolto credente della divina Parola» (ibid.). E non solo i fedeli, ma anche «gli studiosi» (ibid.), che talora trascurano «il rapporto tra mariologia e teologia della Parola» (ibid.). Mentre da una parte «in realtà, l’incarnazione del Verbo non può essere pensata a prescindere dalla libertà di questa giovane donna» (ibid.), che vive «un’esistenza totalmente modellata dalla Parola» (ibid., n. 28), dall’altra «anche la nostra azione apostolica e pastorale non potrà mai essere efficace se non impariamo da Maria» (ibid.).

2. L’ermeneutica della sacra Scrittura nella Chiesa

Una parte cospicua – circa un quarto – dell’esortazione apostolica Verbum Domini è consacrata all’interpretazione del numero 12 della Dei Verbum. Si tratta di un passaggio d’importanza centrale della dichiarazione conciliare, che conviene anzitutto rileggere: «Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 12).

«Perciò – continua la Dei Verbum – dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio» (ibid.). Per interpretare questa parte della Dei Verbum il Papa dà rilievo anche al documento del 1993 della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Pontificia Commissione Biblica 1993), che cita ripetutamente anche se non ne riprende tutti i passaggi.

La chiave di lettura proposta da Benedetto XVI è subito enunciata: «il legame intrinseco fra Parola e fede mette in evidenza che l’autentica ermeneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale, che ha nel sì di Maria il suo paradigma» (Benedetto XVI 2010, n. 29). Questo è il «criterio fondamentale dell’ermeneutica biblica: il luogo originario dell’interpretazione scritturistica è la vita della Chiesa» (ibid.). L’esegesi biblica cattolica dev’essere condotta nella Chiesa e sotto la guida del Magistero. Diversamente, anziché interpretare la Bibbia la falsifica. «L’ecclesialità dell’interpretazione biblica non è un’esigenza imposta dall’esterno» (ibid., n. 30). Non si tratta di «un criterio estrinseco cui gli esegeti devono piegarsi, ma è richiesta dalla realtà stessa delle Scritture e da come esse si sono formate nel tempo» (ibid., n. 29). Dopo tutto, quali testi fossero da considerare sacra Scrittura è stato indicato dalla Chiesa. E «come dice mirabilmente sant’Agostino [354-430], “non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica”» (ibid.), mentre «san Girolamo ricorda che non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo nell’errore» (ibid., n. 30).

Ne consegue che «un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica» (ibid.), e ogni esegeta deve sentire come rivolto a se stesso l’ammonimento con cui «san Girolamo si rivolgeva a un sacerdote: “Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono”» (ibid.). «Approcci al testo sacro che prescindano dalla fede possono suggerire elementi interessanti soffermandosi sulla struttura del testo e le sue forme; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto» (ibid.). La stessa Pontificia Commissione Biblica, nel testo del 1993 che pure è molto tecnico, non ha mancato di sottolineare «la relazione tra la vita spirituale e l’ermeneutica della Scrittura» (ibid.): chi non vive quello di cui parla il testo facilmente va fuori strada.

Se passiamo a interrogarci «sullo stato degli attuali studi biblici» (ibid., n. 31), tenendo conto dello stesso documento del 1993 e nella linea tracciata dalla Dei Verbum, ci troviamo davanti a luci è ombre. Certo, «è necessario riconoscere il beneficio derivato nella vita della Chiesa dall’esegesi storico-critica e dagli altri metodi di analisi del testo sviluppati nei tempi recenti» (ibid., n. 32), e riaffermare che oggi per l’esegeta «l’attenzione a questi metodi è imprescindibile» (ibid.). Né si tratta di una novità, perché – come il Papa ha richiamato nel suo viaggio in Francia del 2008 e in altre occasioni – fin dalla «cultura monastica, cui dobbiamo ultimamente il fondamento della cultura europea» (ibid.), e in tutta la «sana tradizione ecclesiale» (ibid.), gli esegeti si sono sempre avvalsi della migliore cultura e scienza del loro tempo.

Dobbiamo però interpretare i riferimenti della Dei Verbum ai «nuovi metodi di analisi storica» (ibid., n. 33) alla luce del Magistero, servendoci in particolare delle «encicliche Providentissimus Deus [1893] di Papa Leone XIII e Divino afflante Spiritu [1943] di Papa Pio XII» (ibid.), di cui – ricorda Benedetto XVI, sempre attento agli anniversari – il venerabile Giovanni Paolo II ebbe occasione di celebrare insieme, nel 1993, rispettivamente il centenario e il cinquantenario. Questi due testi fondamentali ci aiutano a sfuggire a due errori contrapposti: interpretare la Bibbia con la sola ragione – che diventa razionalismo – prescindendo dalla fede; e leggerla con la sola fede – secondo un falso misticismo – prescindendo dalla ragione. L’enciclica di Leone XIII Providentissimus Deus «ebbe il merito di proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi del razionalismo, senza però rifugiarsi in un senso spirituale staccato dalla storia» (ibid.). Nell’enciclica Divino afflante Spiritu il venerabile Pio XII invece «si trovava di fronte agli attacchi dei sostenitori di un’esegesi cosiddetta mistica che rifiutava qualsiasi approccio scientifico» (ibid.). Il venerabile Pio XII, «con grande sensibilità, ha evitato d’ingenerare l’idea di una dicotomia fra l’“esegesi scientifica” per l’uso apologetico e l’“interpretazione spirituale riservata all’uso interno”» (ibid.). A ben vedere, «entrambi i documenti rifiutano “la rottura tra l’umano e il divino […]”» (ibid.), dunque fra fede e ragione.

Alla loro luce dobbiamo leggere «l’ermeneutica biblica conciliare» (ibid., n. 34) del Vaticano II che si è espressa nella Dei Verbum. Correttamente interpretato, il fondamentale n. 12 della costituzione conciliare da una parte «sottolinea come elementi fondamentali per cogliere il significato inteso dall’agiografo lo studio dei generi letterari e la contestualizzazione» (ibid.). Ma «dall’altra» (ibid.) «indica tre criteri di base per tenere conto della dimensione divina della Bibbia: 1) interpretare il testo considerando l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; 2) tenere presente la Tradizione viva di tutta la Chiesa; e, infine, 3) osservare l’analogia della fede» (ibid.).

Se non si tiene conto di questi criteri si separano – come in altri campi – ragione e fede, il che nell’esegesi biblica purtroppo oggi «avviene anche ai livelli accademici più alti» (ibid., n. 35), producendo una «ermeneutica secolarizzata» (ibid.) che è uno dei frutti avvelenati dell’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo l’ermeneutica della discontinuità e della rottura. Benedetto XVI indica tre caratteristiche dell’«ermeneutica secolarizzata»: legge la Bibbia come «un testo solo del passato» (ibid.); è convinta che «il Divino non appare nella storia umana» (ibid.) e «nega la possibilità dell’ingresso e della presenza del Divino nella storia» (ibid.), così che «quando sembra che vi sia un elemento divino, lo si deve spiegare in altro modo» (ibid.); e getta «un dubbio sui misteri fondamentali del cristianesimo e sul loro valore storico, come ad esempio l’istituzione dell’Eucarestia e la risurrezione di Cristo» (ibid.). E tutto questo avvelena anche la vita spirituale, la pastorale, «la preparazione delle omelie» (ibid.); «produce a volte incertezza e poca solidità nel cammino formativo intellettuale anche di alcuni candidati ai ministeri ecclesiali» (ibid.).

Il problema, insiste Benedetto XVI, non riguarda solo l’esegesi biblica ma «il corretto rapporto tra fede e ragione. Infatti, l’ermeneutica secolarizzata della sacra Scrittura è posta in atto da una ragione che strutturalmente vuole precludersi la possibilità che Dio entri nella vita degli uomini e che parli agli uomini in parole umane» (ibid., n. 36). Così, è opportuno che la Dei Verbum sia letta tenendo conto anche dell’enciclica Fides et ratio (1998) del venerabile Giovanni Paolo II, la quale – insieme a una serie d’interventi dello stesso Benedetto XVI, esplicitamente richiamati – può insegnarci da una parte che «occorre una fede che mantenendo un adeguato rapporto con la retta ragione non degeneri mai in fideismo, il quale nei confronti della Scrittura diventerebbe fautore di letture fondamentaliste» (ibid.), mentre dall’altra «è necessaria una ragione che indagando gli elementi storici presenti nella Bibbia si mostri aperta e non rifiuti aprioristicamente tutto ciò che eccede la propria misura» (ibid.).

In entrambi i casi – del fondamentalismo e del razionalismo – si apre la strada a «interpretazioni soggettivistiche ed arbitrarie» (ibid., n. 44) del testo sacro. Il fondamentalismo, che «tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito» (ibid.), in realtà «rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione» (ibid.). D’altro canto, «coltivare un concetto di ricerca scientifica che si ritenga neutrale nei confronti della Scrittura» (ibid., n. 47) significa precludersi la sua vera comprensione, con conseguenze molto gravi – quando questa forma di razionalismo penetra nelle università cattoliche e nei seminari – anche nella formazione dei candidati al sacerdozio.

L’ascolto della Tradizione e l’attenzione «dalla quale nessuno può prescindere» (ibid., n. 49) ai santi – ognuno dei quali parte, per così dire, da un versetto scritturistico e lo vive in pienezza, così che «costituisce come un raggio di luce che scaturisce dalla Parola di Dio» (ibid.) – aiuta anche a tornare all’antica questione della relazione fra senso letterale e senso spirituale della sacra Scrittura. Non dimenticando quanto «san Tommaso d’Aquino [1225-1274] afferma: “tutti i sensi della sacra Scrittura si basano su quello letterale”» (ibid., n. 37), il Papa ricorda come i medievali distinguevano fra quattro sensi delle Scritture – letterale, allegorico, morale e anagogico (gli ultimi tre, spiega, sono suddivisioni del senso spirituale) – citando, come aveva già fatto in Francia, il distico contenuto nel Rotulus pugillaris del domenicano Agostino di Dacia (?-1282) e citato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 118: «Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia. La lettera insegna i fatti, l’allegoria che cosa credere, il senso morale che cosa fare e l’anagogia dove tendere» (ibid.).

Questo tradizionale riferimento ai sensi spirituali ci indica che «Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerlo occorre un trascendimento e un processo di comprensione» (ibid., n. 38), di cui il numero 12 della Dei Verbum ci indica una via maestra: «un tale trascendimento non può avvenire nel singolo frammento letterario se non in rapporto alla totalità della Scrittura» (ibid.). Qui, per comprendere «quanto affermato nel numero 12 della Costituzione dogmatica Dei Verbum, indicando l’unità interna di tutta la Bibbia come criterio decisivo per una corretta ermeneutica della fede» (ibid., n. 39), «rimangono per noi una guida sicura le espressioni di Ugo di San Vittore [ca. 1096-1141]: “Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento”» (ibid.).

Anche qui il problema è l’equilibrio tra fede e ragione. Se guardiamo solo «l’aspetto puramente storico o letterario» (ibid.) della Bibbia, i «singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi» (ibid.), per non parlare delle «pagine oscure» (ibid., n. 42) dove si riferiscono, senza disapprovarli, eventi storici dove i capi del popolo d’Israele, che pure è popolo scelto da Dio per una missione provvidenziale, si comportano con «violenza» (ibid.) e «immoralità» (ibid.). La fede, in dialogo con la ragione, legge in particolare l’Antico Testamento in modo «tipologico» (ibid., n. 41), vedendo nelle opere di Dio del Vecchio Testamento una prefigurazione di quanto nella pienezza dei tempi Dio compirà nella persona di Gesù Cristo. La lettura tipologica, richiamata anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 128, non è una fantasia, «non ha carattere arbitrario ma è intrinseca agli eventi narrati nel testo sacro» (ibid.).

Non deve tuttavia «indurre a dimenticare» (ibid.) che l’Antico Testamento ha anche un «valore suo proprio» (ibid.), così che lo studio della «comprensione ebraica della Bibbia» (ibid.) può sia aiutare l’esegeta sia favorire il dialogo interreligioso con gli ebrei. Così come il fatto che la Bibbia vada letta nella Chiesa non esclude l’utilità di studi prodotti da cristiani non cattolici e il dialogo ecumenico, senza mancare però di riconoscere con franchezza anche gli aspetti che «ci vedono ancora distanti, come ad esempio la comprensione del soggetto autorevole dell’interpretazione della Chiesa e il ruolo decisivo del Magistero» (ibid., n. 46). Tornando agli ebrei, «il concetto di adempimento delle Scritture è complesso, perché comporta una triplice dimensione: un aspetto fondamentale di continuità con la rivelazione dell’Antico Testamento, un aspetto di rottura e un aspetto di compimento e superamento» (ibid., n. 40). Così le importanti affermazioni del venerabile Giovanni Paolo II sullo speciale legame tra cristiani ed ebrei «non significano misconoscimento delle rotture affermate nel Nuovo Testamento nei confronti delle istituzioni dell’Antico Testamento e meno ancora dell’adempimento delle Scritture nel mistero di Gesù Cristo, riconosciuto Messia e Figlio di Dio. Tuttavia, questa differenza profonda e radicale non implica affatto ostilità reciproca» (ibid., n. 43), né deve far dimenticare l’insegnamento di san Paolo, tante volte richiamato e commentato dallo stesso Papa Wojtyla, secondo cui per gli ebrei «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,28-29)» (ibid.).

Tutto rimanda al tema centrale della Dei Verbum, ribadito nel numero 10 della costituzione conciliare: «La sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 10, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 47). Questo è il vero «insegnamento del Concilio Vaticano II» (ibid.): «lo studio della Sacra Scrittura» (ibid.) deve avvenire «nella comunione della Chiesa universale» (ibid.) e – come afferma ancora la Dei Verbum al numero 23 – «sotto la vigilanza del Sacro Magistero» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 23, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 45).

II. Verbum in Ecclesia

1. La liturgia

La Dei Verbum afferma al numero 1 che la Chiesa sta «in religioso ascolto della parola di Dio» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 1, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 51). Con queste parole ci è offerta «una definizione dinamica della vita della Chiesa» (ibid.), «comunità che ascolta ed annuncia la Parola di Dio» (ibid.), e che guarda alla Parola del Padre detta definitivamente in Gesù Cristo non come a un «evento semplicemente passato» (ibid.), ma come a una «relazione vitale» (ibid.) che continua ancora oggi.

«L’ambito privilegiato in cui Dio parla a noi nel presente» (ibid., n. 52) è la liturgia: «ogni azione liturgica è per natura sua intrisa di sacra Scrittura» (ibid.). Anzi, in un certo senso «l’ermeneutica della fede riguardo alla sacra Scrittura deve sempre avere come punto di riferimento la liturgia» (ibid.). Per comprendere questa affermazione occorre riflettere su quello che Benedetto XVI chiama «il carattere performativo della Parola» (ibid., n. 53) che, in quanto è Parola di Dio onnipotente, sempre nella storia «realizza ciò che dice» (ibid.). Questo carattere emerge in modo particolarmente evidente nell’Eucarestia, dove «la Parola di Dio si fa carne sacramentale» (ibid., n. 55). Qui vediamo l’efficacia performativa immediata delle parole di Gesù Cristo, e oggi del sacerdote, e comprendiamo qualcosa del carattere performativo della Parola di Dio in genere: «senza il riconoscimento della presenza reale del Signore Gesù nell’Eucaristia, l’intelligenza della Scrittura rimane incompiuta» (ibid.). «In analogia alla presenza reale» (ibid., n. 56) emerge anche una «sacramentalità della Parola» (ibid.), su cui amava insistere il venerabile Giovanni Paolo II.

Naturalmente, perché tutto questo possa essere ben compreso dai fedeli – e le difficoltà non mancano – è necessaria una cura particolare alla liturgia. L’attuale struttura del Lezionario, nota Benedetto XVI, ha arricchito «l’accesso alla sacra Scrittura che viene offerta in abbondanza» (ibid., n. 57): ma ci sono «difficoltà che permangono» (ibid.) e che «devono essere considerate alla luce della lettura canonica, ossia dell’unità intrinseca di tutta la Bibbia» (ibid.). È necessario anzitutto che coloro che proclamano le letture nella Messa «siano veramente idonei e preparati con impegno» (ibid., n. 58), cioè siano sia dotati di cultura «biblica e liturgica» (ibid.) sia conoscano «l’arte di leggere in pubblico» (ibid.), che non s’improvvisa.

Del tutto fondamentale per proporre ai fedeli il coordinamento tra le diverse letture e l’unità intrinseca della Bibbia è poi l’omelia. Il Papa lo raccomanda con insistenza: è indispensabile «migliorare la qualità dell’omelia» (ibid., n. 59). «Si devono evitare omelie generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio, come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico» (ibid.). L’omelia «è veramente un’arte che deve essere coltivata» (ibid., n. 60) non solo attraverso lo studio, ma anche con la preghiera e la vita spirituale, se necessario con futuri «sussidi adeguati» (ibid.) tra i quali il Papa pensa a un «Direttorio sull’omelia» (ibid.).

Quello che vale per la Messa, vale anche per altri ambiti – confessione, unzione degli infermi, liturgia delle ore, benedizioni, celebrazioni della Parola – dove il Papa esorta allo studio e al rigoroso rispetto delle prescrizioni della Chiesa e fornisce pure prescrizioni e suggerimenti pratici. Tra questi, il consiglio di «educare il Popolo di Dio al valore del silenzio» (ibid., n. 66), evitando lungaggini e verbosità inutili; l’invito a «valorizzare quei canti che la tradizione della Chiesa ci ha consegnato […]. Penso in particolare all’importanza del canto gregoriano» (ibid., n.. 70); l’attenzione particolare a forme liturgiche specifiche per «i non vedenti e non udenti» (ibid., n. 71); e la reiterata prescrizione che nella Messa «le letture tratte dalla Sacra Scrittura non siano mai sostituite con altri testi» (ibid., n. 69), dal momento che al Sinodo diversi padri sinodali hanno riferito al riguardo seri «abusi» (ibid.) in questo senso.

2. La vita ecclesiale

Benedetto XVI ha richiamato più volte in tema di sacra Scrittura la figura decisiva di san Girolamo. «Così egli consiglia la matrona romana Leta per l’educazione della figlia: “Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura… Alla preghiera faccia seguire la lettura, e alla lettura la preghiera… Che invece dei gioielli e dei vestiti di seta, essa ami i Libri divini» (ibid., n. 72). L’esortazione apostolica è un fermo richiamo allo studio serio, alla luce della Dei Verbum correttamente interpretata, della Scrittura da parte di tutti – vescovi, studiosi accademici, sacerdoti, religiosi, diaconi permanenti e anche laici; e ancora giovani, anziani, ammalati – perché è ancora san Girolamo a ricordarci che «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (cit. ibid., n. 73). Trascurare questo studio ha un costo: si pensi, per esempio, alla «proliferazione di sette, che diffondono una lettura distorta e strumentale della sacra Scrittura. Là dove non si formano i fedeli ad una conoscenza della Bibbia secondo la fede della Chiesa nell’alveo della sua Tradizione viva, di fatto si lascia un vuoto pastorale in cui realtà come le sette possono trovare terreno per mettere radici» (ibid.). Beninteso, «non si tratta, quindi, di aggiungere qualche incontro in parrocchia o nella diocesi, ma di verificare che nelle abituali attività […] si abbia realmente a cuore l’incontro con Cristo che si comunica a noi nella sua Parola» (ibid.).

Il primo ambito in cui favorire questo incontro è la catechesi, senza trascurare anche per i bambini «un’intelligente memorizzazione di alcuni brani biblici particolarmente eloquenti dei misteri cristiani» (ibid., n. 74), e purché si ricordi che «l’attività catechetica implica sempre l’accostare le Scritture nella fede e nella Tradizione della Chiesa» (ibid.). Dunque «è importante sottolineare la relazione tra la sacra Scrittura e il Catechismo della Chiesa Cattolica» (ibid.), che è «rilevante espressione attuale della Tradizione viva della Chiesa, e norma sicura per l’insegnamento della fede» (ibid.). Un altro ambito su cui Benedetto XVI insiste è quello della pastorale del matrimonio e della famiglia. Non solo i genitori «sono davanti ai propri figli i primi annunciatori della Parola di Dio» (ibid., n. 85), ma oggi è necessario difendere una istituzione come la famiglia «posta per molti aspetti sotto attacco dalla mentalità corrente. Di fronte al diffuso disordine degli affetti e al sorgere di modi di pensare che banalizzano il corpo umano e la differenza sessuale, la Parola di Dio riafferma la bontà originaria dell’uomo, creato come maschio e femmina e chiamato all’amore fedele, reciproco e fecondo» (ibid.).

Il Papa si preoccupa poi d’insegnare nuovamente a tutti i fedeli, attingendo alla grande tradizione patristica, come si debba leggere il testo sacro nella lectio divina. «Si deve evitare il rischio di un approccio individualistico» (ibid., n. 86): al contrario, «il testo sacro deve essere sempre accostato nella comunione ecclesiale» (ibid.). Benedetto XVI offre una guida ai cinque tempi della lectio divina, Questa «si apre con la lettura (lectio) del testo, che provoca la domanda circa una conoscenza autentica del suo contenuto» (ibid., n. 87): «senza questo momento si rischia che il testo diventi solo un pretesto per non uscire mai dai nostri pensieri» (ibid.). Il secondo tempo è «la meditazione (meditatio)» (ibid.), dove ciascuno applica il testo a se stesso consapevole che «non si tratta di considerare parole pronunciate nel passato, ma nel presente» (ibid.). Il terzo tempo è il «momento della preghiera (oratio)» (ibid.), che è propriamente la risposta di fede dell’uomo a Dio che parla. Segue – quarto tempo – «la contemplazione (contemplatio)» (ibid.), dove la Parola di Dio diventa «criterio di discernimento» (ibid.), ci cambia e ci converte. Ma «la lectio divina non si conclude nella sua dinamica fino a quando non arriva all’azione (actio)» (ibid.), il suo quinto tempo che mostra come del cambiamento e della conversione si debba dare prova in tutti i campi dell’esistenza umana. Il Papa invita anche a non trascurare la dottrina delle indulgenze, cui la Chiesa non rinuncia, e ricorda che la lectio divina protratta per almeno mezz’ora assicura, alle consuete condizioni, l’indulgenza plenaria.

La lectio divina, peraltro, non è l’unico modo di entrare in contatto con la Parola di Dio. «Memore della relazione inscindibile tra la Parola di Dio e Maria di Nazareth» (ibid., n. 88), la Chiesa raccomanda come «uno strumento di grande utilità» (ibid.) per «meditare i santi misteri narrati dalla Scrittura […] la recita personale e comunitaria del Santo Rosario» (ibid.), così come la preghiera dell’Angelus e gli inni mariani della tradizione orientale. Né si può trascurare il pellegrinaggio verso la Terra Santa, che è in un certo senso «il quinto Vangelo» (ibid., n. 89). «Più volgiamo lo sguardo e il cuore alla Gerusalemme terrena, più si infiammano in noi il desiderio della Gerusalemme celeste, vera meta di ogni pellegrinaggio, e la passione perché il nome di Gesù, nel quale solo c’è salvezza, sia riconosciuto da tutti (cfr. At 4,12)» (ibid.).

III. Verbum mundo

1. La missione

Il quinto tempo della lectio divina è l’actio. L’azione segue l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio e ha due momenti: la missione e l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale. Dobbiamo porci «non soltanto come destinatari della Rivelazione divina, ma anche come suoi annunciatori» (ibid., n. 91). «La Chiesa è missionaria nella sua essenza» (ibid.) e «ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio» (ibid.). La missione «non può essere considerata come realtà facoltativa» (ibid., n. 93), e occorre comprendere bene il suo contenuto: «il Regno di Dio (cfr Mc 1, 14-15), il quale è la stessa persona di Gesù (l’Autobasileia), come ricorda suggestivamente Origene [185-284]» (ibid.). Leggendo, secondo la consueta corretta ermeneutica, un documento del servo di Dio Paolo VI, l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, troveremo conferma del fatto che la vera missione «non si limita a suggerire al mondo valori condivisi: occorre che si arrivi all’annuncio esplicito della Parola di Dio. Solo così saremo fedeli al mandato di Cristo» (ibid., n. 98). Insegna appunto la Evangelii nuntiandi: «Non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati» (Paolo VI 1975, n. 22, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 98).

Non si può rinunciare alla missio ad gentes, cioè a evangelizzare i popoli non ancora raggiunti dal Vangelo. «In nessun modo la Chiesa può limitarsi ad una pastorale di “mantenimento”, per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo» (ibid., n. 95). Per questo il Papa esorta pure a «continuare profeticamente a difendere il diritto e la libertà delle persone di ascoltare la Parola di Dio, cercando i mezzi più efficaci per proclamarla, anche a costo della persecuzione» (ibid.): «non cessiamo di alzare la nostra voce perché i governi delle Nazioni garantiscano a tutti libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente» (ibid., n. 98).

Nel richiamare «l’importante opera del Venerabile Giovanni Paolo II» (ibid., n. 118) per il dialogo interreligioso con i musulmani, il Papa auspica che in tale dialogo «possano essere approfonditi il rispetto della vita come valore fondamentale, i diritti inalienabili dell’uomo e della donna e la loro pari dignità» (ibid., n. 118). «Il dialogo non sarebbe fecondo se questo non includesse anche un autentico rispetto per ogni persona, perché possa aderire liberamente alla propria religione» (ibid., n. 120). Lo stesso venerabile Giovanni Paolo II, parlando nel 1985 a Casablanca, in Marocco, ha insistito sul tema caro a Benedetto XVI della reciprocità: «il rispetto e il dialogo richiedono la reciprocità in tutti i campi, soprattutto per quanto concerne le libertà fondamentali e più particolarmente la libertà religiosa» (Giovanni Paolo II 1985, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 120).

Oggi poi la missio ad gentes può talora svolgersi in Paesi di antica tradizione cristiana dove è in atto il «fenomeno complesso dei movimenti migratori» (ibid., n. 105), da gestire coniugando due principi, «la sicurezza delle nazioni e l’accoglienza» (ibid.). Con l’immigrazione «un grande numero di persone che non conoscono Cristo, o che ne hanno un’immagine inadeguata, si insediano in Paesi di tradizione cristiana» (ibid.), offrendo «rinnovate possibilità per la diffusione della Parola di Dio» (ibid.). «È necessario che le diocesi interessate si mobilitino» (ibid.), tenendo sempre presente il contenuto della missione: «i migranti hanno il diritto di ascoltare il contenuto del kerygma, che viene loro proposto, non imposto» (ibid.) e che va al di là della mera assistenza umanitaria. Al migrante in difficoltà non ci si può limitare a offrire cibo e coperte: è un grave dovere annunciargli anche la Parola di Dio. Lo stesso vale per i poveri in genere, «bisognosi non solo di pane, ma anche di parole di vita. La diaconia della carità, che non deve mai mancare nelle nostre Chiese, deve essere sempre legata all’annuncio della Parola e alla celebrazione dei santi misteri» (ibid., n. 107).

Accanto alla missio ad gentes c’è poi – in realtà già preannunciata dalla stessa Evangelii nuntiandi, prima che il venerabile Giovanni Paolo II ne facesse il programma del suo pontificato – la nuova evangelizzazione delle «Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni [che] vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza di una cultura secolarizzata» (ibid., n. 96). Si tratta, allora, di «intraprendere con tutte le forze la nuova evangelizzazione, soprattutto in quelle nazioni dove il Vangelo è stato dimenticato o soffre l’indifferenza dei più a causa di un diffuso secolarismo» (ibid., n. 122).

2. L’instaurazione cristiana dell’ordine temporale

«Tutta la storia dell’umanità sta sotto il giudizio di Dio» (ibid., n. 99): «nel nostro tempo ci fermiamo spesso superficialmente sul valore dell’istante che passa, come se fosse irrilevante per il futuro» (ibid.), mentre la Parola di Dio «ci ricorda che ogni momento della nostra esistenza è importante e deve essere vissuto intensamente, sapendo che ognuno di noi dovrà rendere conto della propria vita» (ibid.). Passare dalla lectio all’actio significa trasformare con la forza del Vangelo tutti i campi dell’agire umano, compresa la «vita politica e sociale» (ibid., n. 100). Il Papa ricorda che «non è compito diretto» (ibid.) della gerarchia ecclesiastica occuparsi della vita politica, «anche se a lei spetta il diritto ed il dovere di intervenire sulle questioni etiche e morali che riguardano il bene delle persone e dei popoli» (ibid.). È «compito dei fedeli laici, educati alla scuola del Vangelo, intervenire direttamente nell’azione sociale e politica» (ibid.), ed è loro dovere dotarsi di «un’adeguata formazione secondo i principi della Dottrina sociale della Chiesa» (ibid.) e della «legge naturale» (ibid., n. 101).

La riflessione sulla Parola di Dio dà l’occasione a Benedetto XVI di riflettere su due temi già in precedenza affrontati nel suo Magistero, e che hanno connessione con l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale: l’ecologia e la cultura. «La Rivelazione, mentre ci rende noto il disegno di Dio sul cosmo, ci porta anche a denunciare gli atteggiamenti sbagliati dell’uomo, quando non riconosce tutte le cose come riflesso del Creatore ma mera materia da manipolare senza scrupoli» (ibid., n. 108). Riprendendo la denuncia della tecnocrazia nell’enciclica del 2009 Caritas in veritate, il Papa nota come «l’arroganza dell’uomo che vive come se Dio non ci fosse porta a sfruttare e deturpare la natura, non riconoscendo in essa un’opera della Parola creatrice» (ibid.).

Particolarmente profonda è la riflessione che parte dal «rapporto tra Parola di Dio e cultura. Infatti, Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture» (ibid., n. 109), un rapporto che oggi «entra anche in una nuova fase» (ibid.) sia perché la missione ad gentes incontra culture nuove, sia perché emergono mondi in precedenza inediti come quello di Internet. «Ogni autentica cultura per essere veramente per l’uomo deve essere aperta alla trascendenza, ultimamente a Dio» (ibid.). Contro ogni relativismo, la Bibbia si presenta come «grande codice per le culture» (ibid., n. 110) e giudica le culture, che non sono tutte uguali. Nello stesso tempo, «trasfigura i limiti delle singole culture creando comunione tra popoli diversi» (ibid., n. 116).

Si parla molto d’inculturazione. Ma «l’inculturazione non va scambiata con processi di adattamento superficiale e nemmeno con la confusione sincretista che diluisce l’originalità del Vangelo per renderlo più facilmente accettabile» (ibid., n. 114). Questo va tenuto presente nel dialogo interreligioso, che va condotto «evitando forme di sincretismo e di relativismo e seguendo le linee indicate dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate sviluppate dal Magistero successivo dei Sommi Pontefici» (ibid., n. 117).

Due ambiti culturali su cui il Papa porta una speciale attenzione sono l’arte e Internet. Rilevando che l’arte cristiana affascina sempre più anche non cristiani – Benedetto XVI pensa per esempio, «all’antico linguaggio espresso dalle icone che dalla tradizione orientale si sta diffondendo in tutto il mondo» (ibid., n. 112) – il Papa celebra gli artisti che «hanno aiutato a rendere in qualche modo percepibili nel tempo e nello spazio le realtà invisibili ed eterne» (ibid.). Nello stesso tempo esorta a che, per quanto possibile, «si promuova nella Chiesa una solida formazione degli artisti riguardo alla Sacra Scrittura alla luce della Tradizione viva della Chiesa e del Magistero» (ibid.).

Con Internet «oggi la comunicazione stende una rete che avvolge tutto il globo, e acquista un nuovo significato l’appello di Cristo: “Quello che io vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze” (Mt 10,27)» (ibid., n. 113). Richiamando un importante documento del venerabile Giovanni Paolo II, il Messaggio per la XXXVI Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, del 2002 (Giovanni Paolo II 2002), Benedetto XVI invita a fare «emergere il volto di Cristo» (Benedetto XVI 2010, n. 113) anche «nel mondo di internet, che permette a miliardi di immagini di apparire su milioni di schermi in tutto il mondo» (ibid.). Internet «costituisce un nuovo forum in cui far risuonare il Vangelo, nella consapevolezza, però, che il mondo virtuale non potrà mai sostituire il mondo reale e che l’evangelizzazione potrà usufruire della virtualità offerta dai new media solo se si arriverà al contatto personale, che resta insostituibile» (ibid.). È una lezione particolarmente pertinente nell’epoca dei social network come Facebook, dove – se si vuole usare lo strumento per l’evangelizzazione – si tratta appunto di passare dal primo contatto virtuale all’insostituibile contatto personale.

In Internet, come altrove, deve alla fine emergere che «tutto l’essere sta sotto il segno della Parola» (ibid., n. 121), e che «sia nella sacra Scrittura che nella Tradizione viva della Chiesa» (ibid.) siamo di fronte «alla Parola definitiva di Dio sul cosmo e sulla storia» (ibid.). Il frutto dell’obbedienza a questa Parola sarà qualcosa che il mondo rischia di dimenticare: la gioia. «Si tratta di una gioia profonda che scaturisce dal cuore stesso della vita trinitaria e che si comunica a noi nel Figlio. Si tratta della gioia come dono ineffabile che il mondo non può dare. Si possono organizzare feste, ma non la gioia» (ibid., n. 123). Questa viene solo dal Signore per mezzo di Maria, che in quanto «Mater Verbi» (ibid., n. 123) è anche «Mater laetitiae» (ibid.).

Riferimenti

Per tutti i testi, che sono disponibili su Internet sul sito della Santa Sede vatican.va è fornito un indirizzo abbreviato con il sistema tinyurl. Nei riferimenti gli indirizzi tinyurl sono indicati da una T maiuscola. Per esempio «T b8f72» indica che per accedere alla pagina del sito della Santa Sede dov’è disponibile il documento occorre digitare http://tinyurl.com/b8f72.

Benedetto XVI. 2005. Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005. T b8f72.

Benedetto XVI. 2006. Omelia nella solennità del Natale del Signore, del 24-12-2006. T 2cwdbep.

Benedetto XVI. 2009. Omelia nella solennità dell’Epifania, del 6-1-2009. T 2ay3k27.

Benedetto XVI. 2010. Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, del 30-9-2010. T 3yf3ouy.

Concilio Ecumenico Vaticano II. 1965. Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, del 18-11-1965. T 6avj.

Giovanni Paolo II. 2002. Messaggio per la XXXVI Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali – Internet: un nuovo Forum per proclamare il Vangelo, del 24-1-2002. T 3xzp39j.

Paolo VI. 1975. Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8-12-1975. T 37ehsbt.

Pontificia Commissione Biblica. 1993. L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, del 15-4-1993. T 2sylu.