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Joe l’idraulico e il Papa. La crisi economica mondiale e la Chiesa

di Massimo Introvigne e Pier Marco Ferraresi

papa

1. Perché la crisi

«Joe l’idraulico», Joe the Plumber, è stato il personaggio più citato – in effetti, è stato menzionato più spesso del terrorista Osama bin Laden – nei dibattiti televisivi che hanno preceduto le elezioni presidenziali americane del 4 novembre 2008. In questi dibattiti Joe l’idraulico è diventato il simbolo del cittadino statunitense messo al tappeto dalla crisi economica. Joe the Plumber, peraltro, non è un personaggio immaginario. È una persona reale: un certo Samuel Joseph Wurzelbacher, che il 15 ottobre 2008 a Holland, nell’Ohio, ha rivolto una serie di domande imbarazzanti al candidato democratico, e futuro presidente, Barack Hussein Obama. Successive indagini hanno mostrato che Wurzelbacher non è ingenuo e genuino come sembra – è un attivista repubblicano con un certo grado di preparazione politica, e il suo intervento aveva lo scopo preciso di mettere in difficoltà Obama –, e forse non è neppure un vero idraulico (non ha la licenza necessaria per svolgere questo mestiere, anche se sembra che lo abbia di fatto svolto in passato). Ma il vero Wurzelbacher è irrilevante. È pressoché sparito di fronte al simbolo di Joe l’idraulico, che sta ormai a significare per molti americani il cittadino tanto lontano dalle astrazioni degli economisti quanto concretamente colpito dalla crisi economica.

Come ha fatto Joe l’idraulico a trovarsi in tali e tante difficoltà? E che cosa hanno da dire a Joe l’idraulico il Papa e la dottrina sociale della Chiesa? Questo testo – scritto a quattro mani da un sociologo e da un economista – vorrebbe rispondere, nel modo semplice che sia la metafora di Joe l’idraulico sia gli interventi di Benedetto XVI suggeriscono, a quesiti che spesso spaventano proprio per la loro complessità.

La crisi economica internazionale del 2008 – la più grave dopo la Seconda guerra mondiale, e che ha avuto il suo momento destinato a passare alla storia come «l’11 settembre dell’economia» il 15 settembre 2008, con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers – comincia a essere analizzata con uno sguardo retrospettivo non solo da economisti ma da storici, sociologi e politologi. Alcune delle analisi che riscuotono maggiore successo – così, per esempio, quella proposta dal giornalista economico Dave Kansas nel suo best seller dal titolo The Wall Street Journal Guide to the End of Wall Street As We Know It («La guida del Wall Street Journal alla fine di Wall Street così come la conosciamo»: Kansas 2009), mentre scriviamo uno dei libri più venduti negli Stati Uniti – sembrano avere insieme il pregio e il difetto di offrire una spiegazione immediata, basata su poche o su una sola causa.

Uno dei fattori che spaventano è che, nonostante gli strumenti raffinati di cui la scienza economica afferma di disporre, la crisi non era stata prevista, se non parzialmente da alcune analisi, in particolare quelle dello studioso libanese Nassim Taleb, professore alla New York University – che a rigore non s’interessava direttamente a una possibile crisi economica, ma ai limiti delle nostre capacità di prevedere eventi straordinari, da lui chiamati, con un’espressione mutuata dal filosofo Karl Popper (1902-1994), «cigni neri» (Taleb 2008) –, e dell’economista e uomo politico italiano Giulio Tremonti (2008), così come gli scritti di un altro autorevole economista italiano, Mario Deaglio, che nel 2007 descriveva una situazione di estrema instabilità, in un’economia mondiale che riusciva a mantenere un ritmo di crescita impetuoso ma… «a cavallo di una tigre» (Deaglio 2007). Gli attori dell’economia si erano in qualche modo assuefatti a una situazione che vivevano come inevitabile, di cui apprezzavano le possibilità di guadagno a breve termine rifiutandosi di guardare dentro il baratro futuro, sicché le teorie e le analisi di chi aveva previsto qualcosa sono state prese internazionalmente sul serio, applicate a quanto è avvenuto negli Stati Uniti e citate da numerosissimi commentatori, solo ex post. La complessità della crisi è ora innegabile e invita a tenere conto di cause molteplici.

Tra queste, tre che non sempre emergono ma che hanno certamente avuto un ruolo importante sono:

È del tutto evidente che il secondo e terzo fattore richiedono, per essere correttamente inquadrati, un giudizio di carattere morale, e corrispondono a problemi che Benedetto XVI va segnalando in modo accorato dall’inizio del suo pontificato, tanto più da quando è esplosa la crisi economica. Ben lungi dal costituire appelli moralistici o lontani dalla realtà, le osservazioni del Pontefice in tema di declino demografico e consumismo irresponsabile lo qualificano al contrario come una delle poche voci che affrontano l’attuale crisi in modo realistico.

Vi è tuttavia un quarto fattore della crisi che nella maggioranza delle analisi emerge come il principale (non l’unico), almeno nel senso di causa immediata di un processo che ha nello stesso tempo radici più antiche e cause più remote. Si tratta della politica della casa perseguita in vari Paesi da partiti e governi di centro-sinistra negli anni 1990, e proseguita – qualunque fosse il colore dei partiti al governo – negli anni 2000. In effetti, la promessa secondo cui i governi avrebbero favorito l’accesso alla proprietà della casa di abitazione della maggior parte dei cittadini ha avuto un ruolo cruciale nelle vittorie elettorali dei democratici statunitensi, dei laburisti inglesi e dei socialisti tedeschi che hanno segnato l’ultimo decennio del XX secolo. Si tratta di un tema tipico della sinistra, che tuttavia in alcuni Paesi (Spagna, Irlanda) è stato ripreso anche da forze politiche di centro-destra.

In assoluto, non vi è nulla di sbagliato nell’idea di aumentare il numero di cittadini proprietari della propria casa. La sicurezza dell’abitazione è una delle prime e più legittime aspirazioni. La Carta dei diritti della famiglia del Pontificio Consiglio per la Famiglia, del 1983, al numero 11 prevede: « La famiglia ha il diritto a una decente abitazione, adatta per la vita della famiglia e proporzionata al numero dei membri» (Pontificio Consiglio per la Famiglia 1983, n. 11).

Peraltro, diritto all’abitazione e diritto alla proprietà dell’abitazione non sono la stessa cosa. Il fondamentale diritto ad avere un tetto sotto cui vivere è perfettamente compatibile con il soggiorno in una casa di cui non si è proprietari, ma inquilini. È vero, peraltro, che la dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto nell’acquisizione della proprietà immobiliare uno dei modi più raccomandabili per diffondere la proprietà privata nel corpo sociale. Il Beato Papa Giovanni XXIII (1881-1963) nell’enciclica Mater et magistra raccomanda «una politica economico-sociale che incoraggi ed agevoli una più larga diffusione della proprietà privata […] dell’abitazione» (Giovanni XXIII 1961, n. 102). La dottrina sociale della Chiesa ha raccomandato di perseguire questo scopo in modi diversi. I Papi hanno elogiato il movimento cooperativo, e in particolare le cooperative sorte per costruire o acquistare una casa di cui poi i soci della cooperativa diventano proprietari (così si esprime Pio XII [1876-1958] nel Radiomessaggio del 10 settembre 1944, citato dal Beato Giovanni XXIII nella stessa Mater et magistra, n. 71).

Non si deve neppure dimenticare che il movimento delle case popolari nasce nel secolo XIX nell’ambito del cattolicesimo sociale. All’inizio sono privati imprenditori che costruiscono case da affittare, o anche cedere in proprietà con pagamenti dilazionati e favorevoli, ai loro operai. Si può ricordare il coinvolgimento nel movimento delle case popolari del grande architetto cattolico Antoni Gaudí (1852-1926), il quale tra l’altro si batte perché queste case siano non solo decorose e funzionali ma anche per quanto possibile belle. In Italia un esempio delle preoccupazioni manifestate in Spagna da Gaudí, per cui le case popolari non dovevano essere necessariamente palazzoni brutti e anonimi ma potevano anche rispettare le esigenze della bellezza, è offerto nell’epoca dello stile Liberty torinese dal villaggio fatto costruire alla periferia di Torino dall’industriale (protestante) di origine svizzera Napoleone Leumann (1841-1930), e che da lui prende tuttora il nome.

Quando però, in periodi storici particolari, i privati non riescono a soddisfare la domanda di abitazioni, lo Stato può intervenire senza violare il principio di sussidiarietà, cioè quel principio fondamentale della dottrina sociale della Chiesa secondo cui lo Stato non deve fare quello che i privati possono fare da soli. Per esempio si calcola che dopo la Seconda guerra mondiale, anche dopo che lo sforzo dei privati si era ampiamente esercitato, ancora nel 1950 in Italia mancassero all’appello oltre tre milioni di abitazioni che sarebbero state necessarie. Di qui l’elogio della Chiesa alla costruzione di case popolari, e la sua «massima considerazione per questi problemi dell’abitazione popolare» (Paolo VI 1964). Se Paolo VI (1897-1978) nel 1964 elogia i programmi italiani negli anni 1960, una politica di edilizia popolare in Italia era già iniziata agli inizi del XX secolo e, per la verità, dopo la Prima guerra mondiale – in una situazione di crisi analoga a quella che avrebbe fatto seguito alla Seconda – era stata oggetto di un vasto programma attuato dal regime fascista.

Tuttavia l’espressione «case popolari» copre diverse realtà. Può trattarsi di case costruite dallo Stato e affittate a chi ne ha bisogno. Oppure di case che lo Stato costruisce e di cui quindi trasferisce la proprietà a particolari categorie di persone a condizioni favorevoli. O, ancora, di case costruite dallo Stato e affittate a utenti che dopo un certo numero di anni ne diventano proprietari. In Italia e altrove il movimento delle case popolari ha attraversato diverse fasi, con una svolta di tipo assistenzialistico che si è verificata a partire dagli anni 1970, mentre in precedenza lo Stato tendeva a sostenere lo sforzo di chi cercava di diventare proprietario della propria casa pur partendo da condizioni disagiate.

La dottrina sociale vede nell’acquisizione della proprietà della propria casa un potente strumento di promozione sociale. Quello che è sbagliato, tuttavia – come i fatti della recente crisi si sono incaricati di dimostrare –, è pensare che alla proprietà della casa debbano accedere tutti e comunque, che se lo possano permettere o no. Un mercato immobiliare sano comprende case di proprietà e case in affitto. Pretendere che tutti diventino proprietari della propria abitazione significa, in ultima analisi, affidare allo Stato il ruolo paternalistico di agenzia che dirige tutto il mercato immobiliare: e questa è un’idea tipicamente socialista. Né è obbligatorio che una politica di diffusione della proprietà immobiliare sia affidata a mutui che coprono anche il cento per cento del valore dell’immobile. Al contrario, questa pratica favorisce una cultura del debito che non è conforme alla dottrina sociale della Chiesa.

Negli Stati Uniti è certamente ben presente l’idea che diventare proprietari di una casa è parte del sogno americano: si tratta perfino di una «ossessione nazionale» (Zandi 2009, 45), soprattutto dopo che tanti hanno perso la casa nella Grande Depressione del 1929, che in questo senso è a suo modo una radice remota della crisi mondiale del 2008. Il diritto alla casa è letto come diritto all’accesso al mutuo soprattutto con l’idealistica presidenza di James Earl «Jimmy» Carter, il quale nel 1977 – appena eletto – introduce misure per riparare alle vere o presunte discriminazioni che le banche sono accusate di praticare quando si tratta di concedere mutui agli afro-americani, agli statunitensi di lingua madre spagnola e agli abitanti di quartieri disagiati. Di fatto, le misure di Carter – la cui sconfitta elettorale nel 1980 apre la strada a dodici anni d’ininterrotta occupazione della Casa Bianca da parte di presidenti repubblicani – rimangono ampiamente disapplicate fino al ritorno dei democratici alla presidenza con William Jefferson «Bill» Clinton nel 1992.

È Clinton a rendere effettive le norme di Carter con una serie di misure ispettive e altre pressioni sulle banche. Come risultato, mentre il numero di proprietari di case statunitensi nel decennio che inizia nel 1990 cresce del 7%, la cifra sale al 13% fra gli afro-americani e al 18% fra gli statunitensi di lingua madre spagnola (ibid., 150). È vero che nel 2000 alla Casa Bianca tornano i repubblicani con George Walker Bush. Ma non è meno vero che la presidenza Bush è segnata, pochi mesi dopo il suo esordio, dall’avvenimento cruciale dell’11 settembre 2001, in seguito al quale – per evitare i prevedibili effetti recessivi del maggiore attentato terroristico della storia moderna (temibili non per il danno materiale degli attentati, trascurabile rispetto all’insieme dell’economia mondiale, ma per il danno morale inferto a quello che è il principale motore di ogni mercato capitalistico, la fiducia nel futuro) – l’allora presidente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, Alan Greenspan (certamente non socialista, anzi discepolo della teorica del capitalismo senza freni Ayn Rand, 1905-1982), ritiene di rilanciare l’economia favorendo la concessione di mutui al più gran numero possibile di americani. Nel 2001 Greenspan è convinto che un boom edilizio, favorito dalla facilità di ottenere mutui, sia una componente cruciale di un pacchetto di misure che scongiuri le più temute conseguenze economiche dell’11 settembre. La strategia di Greenspan ha successo. Ma ha troppo successo, nel senso che l’esplosione del mercato edilizio determina un aumento dei prezzi ogni oltre previsione, una «bolla» destinata come tutte le bolle a scoppiare.

Negli anni 1990 e 2000 negli Stati Uniti – seguiti dalla Gran Bretagna e, poiché l’esempio sembra buono, sostanzialmente da tutto il mondo – un gran numero di persone è così incoraggiato ad acquistare immobili con un modesto pagamento iniziale (di solito, del venti per cento) – o addirittura con nessun pagamento – e a contrarre mutui. Questi sono concessi anche se sono privi di qualunque garanzia (per le banche, mutui a rischio o subprime), ovvero se sono considerati «alternativamente sicuri» (alternative-A o alt-A), cioè trattati come mutui sicuri (prime) o «di categoria A» anche in presenza di elementi che indurrebbero alla cautela in condizioni normali ma che, nel clima di euforia immobiliare, sono volutamente ignorati. Il fenomeno dei mutui facili non diffonde soltanto nel corpo sociale la proprietà (peraltro spesso ipotecata) di case di abitazione, ma determina in effetti un boom del mercato immobiliare senza precedenti nei tempi moderni. Se tutti possono acquistare una casa, tutti la vogliono, la domanda supera costantemente l’offerta, e in certe zone degli Stati Uniti, a Londra o a Dublino dal 2002 al 2006 i prezzi salgono ogni anno del quindici per cento, con punte del venticinque per cento nelle aree urbane dove la richiesta è maggiore (Kansas 2009, 17). Il Joe l’idraulico di turno – cui ora dobbiamo tornare –, incoraggiato dalle promesse del suo politico di riferimento, si reca dalla banca locale e, con qualche migliaio di dollari, è immesso nel possesso di una bella casetta non appena ha firmato i documenti per un mutuo ipotecario.

La teoria sociologica della rational choice, la quale postula che le persone compiano nella maggior parte dei casi scelte che a loro appaiono razionali (anche quando non lo sono agli occhi di «esperti» di vario genere) spiega facilmente il comportamento di Joe l’idraulico e del politico che gli ha promesso la casa. Il politico vuole che Joe voti per lui ora: pochissimi politici ragionano sul lungo periodo. La scelta di Joe è razionale, se la si riferisce al fatto che possedere una casa è un’aspirazione molto diffusa, negli Stati Uniti come si è visto perfino ossessiva. Joe sa che rischia di non poter pagare le rate del mutuo, ma si fida del politico e della banca che gli dicono che lo aiuteranno. Pensa inoltre che se l’economia nel suo insieme continua ad andare bene, dopo tutto riuscirà a pagare il mutuo con i proventi del suo lavoro.

Quello che dev’essere davvero spiegato è il comportamento della banca. Dal momento che Joe è al di sotto della soglia di garanzia (subprime, appunto), perché la banca gli concede il mutuo? Anzi, perché concede mutui subprime – che un tempo erano rifiutati – tutti i giorni (nei due principali centri del mercato immobiliare americano, la California centrale e il Sud della Florida, nel 2006 un terzo dei mutui erano subprime: Zandi 2009, 34)? Anche la banca, in realtà, si comporta in un modo che crede razionale, e lo fa per tre ragioni.

Tuttavia, la tesi secondo cui «il prezzo degli immobili cresce sempre» si è rivelata falsa. Se il prezzo sale eccessivamente la «bolla» scoppia. Inoltre anche il mercato degli immobili è vulnerabile al passaggio di quelli che Taleb – con espressione ormai quasi passata in proverbio – chiama, come si è visto, «cigni neri», eventi non prevedibili dai modelli economici e matematici correnti e che tuttavia accadono. Se Joe l’idraulico non riesce a pagare il mutuo la banca può anche essere contenta perché gli pignora la casa e la rivende a un prezzo più alto. Se però negli Stati Uniti ci sono un milione di personaggi come Joe l’idraulico, e le banche pignorano e rimettono in vendita un milione di case, l’esito finale è che si offrono in vendita più abitazioni di quante il mercato sia disposto a comprare, e i prezzi scendono rapidamente. Tanto più che il milione di pignoramenti comincia a rendere le banche più restie a concedere mutui, il che fa ulteriormente diminuire il numero di potenziali acquirenti d’immobili.

Un milione? No: di più. Nell’anno 2007 i mutuatari inadempienti negli Stati Uniti sottoposti a pignoramento sono stati un milione e settecentomila (Madrick 2009, 16). Come conseguenza, il mercato immobiliare è crollato, e con esso la convinzione che gli inadempimenti ai mutui siano qualche cosa che il sistema può comunque assorbire. Ne è nato un effetto domino sull’intera economia. Non riuscendo a vendere la casa pignorata a Joe l’idraulico (perché di Joe l’idraulico insolventi ce n’erano ormai troppi) la banca locale non ha più potuto pagare l’interesse alla banca d’affari che aveva rilevato il suo credito (o a Fannie Mae, o a Freddy Mac), e queste agli investitori che avevano comprato lo stesso credito – o la sua riassicurazione – attraverso gli strumenti creativi inventati dai geni di Wall Street o dai premi Nobel. Così le banche d’affari (cioè quelle banche che, a differenza delle banche commerciali, non raccolgono depositi agli sportelli ma offrono servizi di consulenza e vendono e acquistano azioni e altri prodotti finanziari: la separazione anche giuridica fra i due tipi di banca è più netta negli Stati Uniti che altrove) – esposte per migliaia di miliardi – agl’inizi del 2008 hanno cominciato a rischiare il fallimento.

L’allungamento della catena tra Joe l’idraulico e l’istituzione finanziaria che detiene i titoli di debito in cui il suo mutuo è incluso rende difficile comprendere quale sia l’effettivo livello di rischio di tali titoli, mentre la teoria economica richiede un’assoluta trasparenza per la suddivisione efficiente del rischio (Deaglio 2008). E proprio la difficoltà di comprensione dei nuovi prodotti finanziari, anche da parte delle agenzie di rating, ha ritardato l’allarme, mentre il sistema retributivo dei manager della finanza, centrato sui risultati di breve periodo, ha incentivato l’assunzione di rischi eccessivi.

Ma la finanza non è solo matematica, è soprattutto fondata sulla fiducia: così come la fiducia dovrebbe essere alla base del mutuo concesso dalla «banca dell’angolo» a Joe l’idraulico, la fiducia è alla base del meccanismo che consente alle banche di prestarsi reciprocamente liquidità per far fronte all’operatività quotidiana.

Sotto questo aspetto gli organi di stampa non sono senza colpa: l’uso di un linguaggio dai toni eccessivi, l’enfasi sugli aspetti negativi, mentre gli accenni di ripresa passano in sordina, la semplificazione dei ragionamenti che crea incertezza tra i risparmiatori sono formidabili meccanismi di propagazione della sfiducia.

Le voci di debolezza su una banca ne fanno scendere il valore del titolo. Quindi i suoi prodotti finanziari perdono valore, e il valore del titolo scende ancora. Non solo: le norme bancarie, finalizzate a tutelare il risparmio, sono soggette a un perverso fenomeno di eterogenesi dei fini. Infatti se il valore delle azioni di una banca scende questa, secondo tali norme, deve ricapitalizzare: per farlo può vendere i titoli che ha in portafoglio, deprimendo così il mercato, oppure può chiedere nuovo capitale, rafforzando in questo caso in un circolo vizioso le voci sulla sua debolezza.

Quando le banche cominciano a non fidarsi più l’una dell’altra, non si prestano più denaro tra di loro e il meccanismo di circolazione della liquidità s’inceppa: la crisi finanziaria è precipitata pesantemente sulla testa, reale, di Joe l’idraulico, al quale non è più concesso credito, ma è a rischio anche il suo posto di lavoro, poiché anche la sua impresa comincia ad avere problemi, sia di domanda sia di accesso al credito.

La crisi inizia ufficialmente con la caduta nel marzo 2008 della banca d’affari Bear Stearns, salvata dal fallimento da una banca commerciale, la J.P. Morgan Chase, che la rileva con il supporto del governo degli Stati Uniti. All’inizio del mese di settembre 2008 la crisi entra nella fase acuta: a rischio fallimento sono i colossi Fannie Mae e Freddie Mac, che insieme si sono assunti circa la metà dei mutui americani (il cui importo globale è di tredicimila miliardi di dollari). L’amministrazione americana decide di trasformarli da «imprese sponsorizzate dal governo» in società direttamente controllate dallo Stato, in pratica nazionalizzandole.

L’amministrazione Bush pensa però di non potere salvare tutte le banche d’affari, e il 15 settembre 2008 lascia fallire la Lehman Brothers: un errore, secondo molte analisi retrospettive. In effetti, dopo il fallimento della Lehman Brothers, il governo si fa parte diligente per salvare il colosso delle assicurazioni AIG (American International Group), che ha investito in modo massiccio nei prodotti finanziari collegati ai mutui, e per evitare il fallimento della Merrill Lynch (acquistata anch’essa da una banca commerciale, la Bank of America), mentre anche la Goldman Sachs e la Morgan Stanley (quest’ultima dopo un intervento della giapponese Bank of Tokyo - Mitsubishi UFJ, che ne rileva il 21%) sono protette attraverso la trasformazione da banche d’affari in banche commerciali. Nel 2009 si può dire che le banche d’affari – che, da molti punti di vista, erano Wall Street– non esistano più a New York: parlare di «fine di Wall Street» non è dunque esagerato.

A lungo, la crisi è stata sottovalutata. Molti hanno prima affermato che riguardava solo un settore circoscritto, quello dei mutui subprime e dei prodotti finanziari da questi derivati. Poi si è sostenuto che concerneva solo le banche d’affari, o il sistema bancario in genere: la crisi, si diceva, è finanziaria e non economica, le sue cifre sono virtuali e non riguardano l’«economia reale» di chi vende automobili o vestiti. Ma in realtà le banche d’affari sono legate a filo doppio alle banche commerciali. E, se le banche sono in crisi, non prestano denaro, o lo prestano a condizioni sfavorevoli, alle aziende produttive, che sono abituate – chi più chi meno – a lavorare con il denaro degli istituti di credito. Se le aziende entrano in crisi e licenziano, entrano in crisi anche le famiglie nel loro insieme: diminuiscono i consumi, il che aggrava la crisi delle imprese. Né si salvano gli Stati, perché se diminuiscono i consumi e i profitti delle imprese diminuiscono le tasse: per tacere del fatto che interi piccoli Stati (come l’Islanda) vivevano della loro simbiosi con le banche, e molti enti locali (fra cui diversi grandi comuni in Italia) avevano ampiamente investito il denaro dei contribuenti in prodotti finanziari legati ai mutui, quando non in azioni Lehman Brothers.

Così, la crisi è veramente globale. Parte da Wall Street ma arriva anche al bar dell’angolo – negli Stati Uniti come in Giappone e in Italia – dove molti che hanno perso il lavoro (nei soli Stati Uniti e nel solo anno 2008 si tratta di 3,6 milioni di persone: «La crisi ti fa brutto Obama» 2009) o temono di perderlo non si recano più a prendere per pranzo il consueto panino. Si tratta, effettivamente, del più grande sommovimento mondiale del mondo dell’economia dopo la Grande Depressione del 1929.

È ancora impossibile valutarne tutte le conseguenze, ma alcune caratteristiche dello scenario che avremo davanti dopo la tempesta sono forse già intuibili: in primo luogo è facile che peggiori la qualità del tessuto produttivo e finanziario, poiché grandi banche e imprese inefficienti verranno mantenute in vita per salvare posti di lavoro, mentre imprese dinamiche medie e piccole usciranno dal mercato, strangolate dalla difficoltà di accesso al credito. In secondo luogo, dopo la tempesta, il ruolo dello Stato, l’inflazione e la pressione fiscale saranno probabilmente cresciuti all’interno di tutti i sistemi economici, mettendo una seria ipoteca sulla libera iniziativa e la crescita. Infine, gli equilibri internazionali vedranno probabilmente una riduzione del ruolo degli Stati Uniti, e un incremento di quello di Paesi dove l’utilizzo di modi di produzione tipici dell’economia di mercato non è fondato sulla stessa attenzione alla libertà e alla persona.

Ci si chiede già di chi è la colpa, e chi deve essere – se del caso – punito. Il dibattito è spesso ideologico. Negli Stati Uniti chi ha idee politiche di tipo conservatore accusa i democratici e la politica di affirmative action che ha indotto le banche a concedere mutui subprime a esponenti di minoranze etniche che non avrebbero mai potuto restituirli. In un articolo di The Wall Street Journal che ha suscitato molte discussioni uno dei più noti manager statunitensi, Harvey Golub, già amministratore delegato della società di gestione di carte di credito American Express, ha sostenuto che «la radice della crisi sta nelle politiche governative che volevano aumentare il numero dei proprietari di case, in gran parte fra le persone che chiunque considererebbe mutuatari non prime – cioè persone senza un sufficiente reddito documentato, senza un impiego sicuro, senza un conto in banca. L’inizio intellettuale di questo disastro sta in uno studio pieno di pregiudizi della branca di Boston della Federal Reserve, pubblicato nel 1992, il quale riteneva di aver dimostrato che le minoranze erano trattate peggio dei bianchi al momento di decidere se concedere mutui. Questo studio portò a una crescente pressione politica sulle banche perché modificassero i loro standard […] in particolare con i regolamenti dell’amministrazione Clinton che chiedevano “uguali diritti” nei mutui» (Golub 2008). In un testo precedente che ha avuto una certa fortuna anche in Italia l’avvocato ed ex banchiere Charles W. Morris (2008) ha sostenuto, al contrario, che il colpevole del disastro non è lo Stato, ma la cupidigia dei banchieri aiutata dalla mancanza di vigilanza di chi avrebbe dovuto sorvegliarli. Per Morris non c’è stato troppo Stato, ma troppo poco.

2. La risposta della Chiesa: come ripartire (per davvero) dai poveri

Chi ha ragione fra Golub e Morris? È colpa dello Stato o è colpa del mercato? Benedetto XVI, nelle sue riflessioni sulla crisi contenute nel Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2009, suggerisce, in qualche modo, che la ragione di tutto sia rintracciabile in una paradossale mancanza di grandi ambizioni: nell’ansia di risultati di breve periodo ci si è dimenticati di ciò che gli economisti chiamano «efficienza dinamica», ossia della capacità di garantire una stabile e diffusa crescita economica nel tempo.

In questo quadro il problema della lotta alla povertà diviene centrale non solo perché costituisce uno dei pilastri della pace, ma anche perché riporta la persona al centro degli obiettivi economici.

Il Papa apre il suo discorso sottolineando come la povertà materiale sia spesso il riflesso di povertà spirituali e, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, di povertà culturali: «ad esempio, nelle società ricche e progredite esistono fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale […] . Non dimentico poi che, nelle società cosiddette “povere”, la crescita economica è spesso frenata da impedimenti culturali, che non consentono un adeguato utilizzo delle risorse» (Benedetto XVI 2008, n. 2).

Sono quindi illustrati cinque grandi ambiti di povertà materiale che hanno a loro fondamento povertà morali.

La lotta alla povertà è proposta attraverso quattro strumenti.

Il discorso si conclude ribadendo la doppia valenza della globalizzazione: da un lato essa è un fatto economico, e come tale in qualche modo neutrale, tanto nella sua capacità di diffondere la ricchezza quanto nel rischio che le distorsioni e le ingiustizie presentino prima o poi il conto all’intero pianeta. Ma la globalizzazione ha anche una valenza morale e spirituale: essa ci ricorda che «siamo tutti partecipi di un unico progetto divino, quello della vocazione a costituire un'unica famiglia in cui tutti – individui, popoli e nazioni – regolino i loro comportamenti improntandoli ai principi di fraternità e di responsabilità» (ibid., n. 2). In questo quadro la globalizzazione chiede che le potenzialità che da essa derivano siano guidate da un’attenzione speciale per i poveri, ma questa non può che fondarsi su una conversione del cuore di ogni uomo.

3. Riflessioni conclusive: la crisi economica e il messaggio del Papa

Il messaggio del Papa sulla povertà è un messaggio ai Paesi ricchi: non solo, però, per richiamarli alle loro responsabilità ma, alla luce della crisi in atto, anche per far suonare un campanello di allarme. Il fallimento di un welfare state che ha preteso di accompagnare l’individuo dalla culla alla tomba, che ha deresponsabilizzato il singolo e il settore privato in generale, che ha distrutto il ruolo dei corpi intermedi, della famiglia prima di tutto, rischia ora di fare riemergere il dramma della povertà anche laddove si pensava che fosse stata definitivamente estirpata.

Il mondo ha paura, e ha buone ragioni per averla. Per superarla, però, non basta guardare al singolo dettaglio: occorre alzare lo sguardo verso l’orizzonte, e il magistero di Benedetto XVI ci aiuta in quest’opera, per almeno quattro ragioni.

In primo luogo, la crisi tra vent’anni sarà storia economica, ma i problemi strutturali non risolti saranno povertà concreta. Il Papa ci presenta una prospettiva non distributiva, congiunturale, di emergenza del problema povertà; al contrario, lo inquadra all’interno dell’ineludibile necessità di produrre valore. Riscritto, e ridotto, in termini tecnici, il problema va dunque inquadrato, giustamente, all’interno delle teorie della crescita, e non delle «teorie del ciclo». Si tratta di un passo importante, poiché mentre lo studio dei cicli economici contrappone spesso le visioni «interventiste» a quelle «liberiste», le teorie della crescita hanno sempre avuto il pregio di avere l’uomo, e non lo Stato, al centro della loro attenzione.

In secondo luogo proprio la centralità della persona, mai delle istituzioni, è il motivo che ritorna nel discorso di Benedetto XVI. Egli enuncia infatti i pericoli che corre oggi la persona umana e li presenta come altrettanti elementi di debolezza del processo di crescita economica. Ebbene, l’uomo è anche al centro della crisi finanziaria, anzitutto nelle sue origini, che hanno visto l’avidità trasformarsi nella maggiore virtù delle istituzioni finanziarie, alla ricerca di rendimenti a due cifre in un mondo che cresceva a una cifra, e in presenza di tassi d’interesse straordinariamente bassi (Deaglio, 2008). È una ricerca che ha dato anche ai governi un’immagine quasi magica della finanza: la stessa immagine magica che avevano spesso avuto in anni precedenti in relazione agli effetti moltiplicativi della spesa pubblica. Ma l’uomo è al centro della crisi anche nella sua espansione, che come si è accennato vede l’annullamento del ruolo della persona e del rapporto personale del debitore con la banca attraverso la cartolarizzazione, e considera l’individuo come un oggetto spendibile, per tradurre in denaro sonante la crescita dei valori immobiliari attraverso i cosiddetti «prestiti predatori». L’uomo, infine, resta al centro della crisi nel suo epilogo come crisi dell’economia reale, che rischia di schiacciare i più deboli nei Paesi ricchi, e di emarginare ulteriormente i Paesi poveri. Per questi motivi anche nelle soluzioni che oggi si cercano alla crisi occorre favorire quegli strumenti che sono in grado di portare le risorse il più vicino possibile alle persone.

In terzo luogo, il Pontefice afferma in modo netto la complementarità tra il principio di solidarietà e il principio di sussidiarietà. Il tema della solidarietà non può essere ricondotto ed esaurito nell’ambito del paternalismo di Stato, anzi occorre che le politiche redistributive lascino il posto a una coerente comprensione della natura e delle cause della ricchezza economica. Lo Stato non è un totem al quale sacrificare il bene personale, ma non è richiesto neanche il sacrificio della legittima ricerca della ricchezza, s’intende nella misura in cui è e rimane legittima. Compito dello Stato sarà piuttosto garantire la certezza del diritto, promuovere l’azione e la formazione dei corpi intermedi intorno alla persona, intervenire direttamente solo in via sussidiaria e temporanea (cfr. sul punto Felice 2009). La solidarietà è dunque compito di chi è più vicino alla persona, ma questo può realizzarsi solo laddove il principio di sussidiarietà impedisce al governo centrale di invadere le competenze delle aggregazioni intermedie, a cominciare dalla famiglia, che è la realtà più vicina all’individuo.

Queste considerazioni sono applicabili sia alle radici, sia al possibile rischioso epilogo della crisi in atto. All’origine della crisi c’è la rinuncia dello Stato a svolgere il suo compito di creare un quadro chiaro di regole. Se questa può essere vista come un’inevitabile conseguenza dello sviluppo di nuovi strumenti finanziari complessi, in qualche modo una sorta di prezzo da pagare all’innovazione anche in campo finanziario, è anche vero che la disattenzione è al tempo stesso ingenua e colpevole. Ingenua poiché, crollato il mito della spesa pubblica con la crisi del welfare state, si cerca nella finanza la nuova pozione magica in grado di eliminare in modo rapido le diseguaglianze e di garantire a tutti la realizzazione del sogno della casa di proprietà. Colpevole, poiché deriva dalla pretesa di poter manipolare i rapporti economici senza tener conto dell’insegnamento della storia e della tradizione, nell’illusione di poter pianificare i propri risultati senza doversi preoccupare, prima o poi, di pagare un tributo alla realtà.

In fin dei conti l’assoluto laissez faire finanziario fiorisce sullo stesso terreno ideologico del socialismo: si tratta di un liberismo che presuppone un uomo infallibile, una posizione ben diversa da quella dello stesso liberismo delle origini ma soprattutto della dottrina sociale della Chiesa, che riconoscono l’imperfezione dell’uomo e che su di essa fondano una visione che considera importanti sia  la libertà, sia le regole e la tradizione. Perché, posto che l’uomo non è perfetto, la ricerca di una società perfetta rischia di portare a una soluzione totalitaria. Dunque, tenendo conto dell’imperfezione umana, il mercato dovrà essere sottomesso a un’etica economica, a una legge naturale di cui la tradizione è sedimento e portatrice.

L’epilogo rischioso della crisi comporta un ulteriore indebolimento del principio di sussidiarietà, con la famiglia ancora più debole, penalizzata nell’accesso al credito e nel valore della casa, con lo Stato che si sostituisce in modo diretto all’iniziativa privata, assumendo un ruolo rilevante nel sistema finanziario e iniettando non regole chiare, ma rigidità e inefficienze laddove prima regnava l’anarchia. Qualche esempio? In Italia ora vogliamo che i prefetti controllino l’operato delle banche, e ovunque si propongono tetti ai compensi dei manager delle aziende private come condizione perché queste, in crisi, possano ricevere aiuti dallo Stato. Ma quello che ha causato la crisi è il sistema degli incentivi ai manager (che li spingeva ad assumersi rischi per far realizzare alle aziende quei profitti a breve termine cui era legato l’incentivo), non il livello della loro retribuzione: l’introduzione di un tetto alle retribuzioni porterà prevedibilmente nelle aziende beneficiarie degli aiuti di Stato i manager di livello più scadente.

La quarta ragione della rilevanza del messaggio del Papa risiede nell’invito a rimettere la persona al centro dell’economia, il che ha una duplice valenza: tecnica e morale. Dal punto di vista tecnico l’invito equivale a suggerire misure che restituiscano vigore ai corpi intermedi, alla famiglia in particolare, che favoriscano una finanza vicina alla persona e che realizzino concretamente l’opzione preferenziale per i poveri. Come ha scritto l’economista e manager italiano Ettore Gotti Tedeschi, «una risposta coraggiosa e non a breve termine c’è: valorizzando la domanda potenziale dei Paesi poveri, mettendoli in condizione di partecipare al piano di risanamento globale […] Si tratta di un progetto di bolla umanitaria. Resta però il problema di come finanziarla. […] La bolla umanitaria si potrebbe […] fondare sulla speranza di crescita del reddito e del valore degli investimenti in Paesi popolati da persone desiderose di migliorare e piene di dignità. […] I governi stessi che hanno garantito i mutui “subprime” potranno facilmente garantire opere infrastrutturali; potranno, con un po’ di sforzo, garantire imprese produttive da insediare in joint venture nei paesi poveri e in settori chiave come quello alimentare. […] Il rischio è scarso nei popoli poveri. Essi danno in garanzia un bene superiore: la loro stessa vita» (Gotti Tedeschi 2008).

Per attuare un simile progetto nel lungo termine, tuttavia, occorre affrontare in modo preliminare alcuni fondamentali nodi morali. Ricorda il Papa che «ci si arresta infatti spesso alle cause superficiali e strumentali della povertà, senza raggiungere quelle che albergano nel cuore umano, come l'avidità e la ristrettezza di orizzonti. I problemi dello sviluppo, degli aiuti e della cooperazione internazionale vengono affrontati talora senza un vero coinvolgimento delle persone, ma come questioni tecniche, che si esauriscono nella predisposizione di strutture, nella messa a punto di accordi tariffari, nello stanziamento di anonimi finanziamenti. La lotta alla povertà ha invece bisogno di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di autentico sviluppo umano» (Benedetto XVI 2008, n. 13).

I Paesi poveri non sono un terreno idilliaco fertile per ogni tipo di iniziativa: un’azione efficace richiede nel concreto la capacità di superare i problemi posti dalla corruzione delle élite denunciati con tanto vigore da Benedetto XVI nel viaggio in Camerun e Angola del 17-23 marzo 2009. Se questi possono essere in parte aggirati attraverso strumenti tecnici come il microcredito, i destinatari, nei fatti, sono spesso disperati che hanno perso, o non hanno mai saputo cosa fosse, la voglia di migliorare.

Risvegliare il desiderio di salvezza, e anche il banalissimo ma legittimo desiderio di benessere, nonché la fiducia nella propria capacità di lavorare in modo produttivo e il senso del valore del lavoro sono obiettivi che fanno parte di quello sviluppo umano che deve essere seminato nel cuore di ciascuno: è un’opera che non può essere delegata ai soli governi. Deve essere compiuta non in astratto «vicino ai poveri», ma in concreto vicino a ciascun povero, da uomini e donne di buona volontà. Non è impossibile, perché la speranza, come la povertà, ha anch’essa una diffusione epidemica. E perché si può sempre contare sulle risorse quasi infinite della creatività umana. Se è il simbolo della crisi il vero «Joe l’idraulico», Joseph Wurzelbacher, è anche il simbolo di come l’ingegno umano consenta di superarla. Forse ha davvero perso casa e lavoro ma è diventato così famoso che, registrando e dando in licenza il marchio «Joe l’idraulico» per ogni genere di prodotti, dai bicchieri alle magliette, sbarca più che decorosamente il lunario.

Riferimenti

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