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Calvino? Non è lui il padre del capitalismo

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 8, n. 24, 13 giugno 2009)

calvino

Nel 2009 ricorre il quinto centenario della nascita di Giovanni Calvino (Jean Cauvin, 1509-1564), all’origine della corrente protestante detta riformata. Calvino fu un personaggio estremamente controverso in vita, e le controversie non mancano di riflettersi anche sul centenario. C’è chi ne ricorda l’acume teologico e politico, chi l’intolleranza verso gli oppositori, nei confronti dei quali a Ginevra applicava volentieri la pena di morte. Nel mondo cattolico a voci che insistono su un accostamento ecumenico se ne contrappongono altre meno «politicamente corrette» come quella del salesiano Roberto Spataro, professore a Gerusalemme, che in un denso articolo pubblicato sull’ultimo numero di Cristianità rievoca il tetro e violento assolutismo della Ginevra di Calvino e considera la sua teologia della predestinazione ai limiti del cristianesimo. I non addetti ai lavori – sulla scia d’innumerevoli libri di scuola – ripetono un po’ stancamente la tesi, attribuita a Max Weber (1864-1920), secondo cui Calvino avrebbe avuto il merito – che per altri, beninteso, è un demerito – di avere posto le basi del moderno capitalismo.

Ma in questa vulgata c’è un duplice errore. Anzitutto, la tesi di Weber sulle origini protestanti del capitalismo non è più condivisa da quasi nessuno storico dell’economia. In secondo luogo, Weber non pensava che Calvino fosse alle origini del capitalismo. Per capire come stanno le cose, dobbiamo però riflettere in modo più articolato sul nesso tra modernità e protestantesimo, in particolare nella versione riformata che risale a Calvino (l’altro filone storico originario, diverso, è quello luterano; un tempo si parlava di un terzo filone anglicano, ma oggi molti specialisti tendono a considerare la comunità anglicana più un tertium genus diverso sia dal cattolicesimo sia dal protestantesimo che una parte del mondo protestante).

Non è stato Max Weber il primo autore che ha identificato il protestantesimo con la modernità. Ben prima del sociologo tedesco, la scuola cattolica contro-rivoluzionaria ha identificato la modernità con la Rivoluzione – intesa come processo di progressivo allontanamento dell’Europa dalla verità cattolica – e ha visto nel protestantesimo la prima tappa della Rivoluzione. Forse l’analisi più dettagliata del protestantesimo da questo punto di vista è quella di Jaime Balmés (1810-1848), la cui opera El protestantismo rimane un punto di riferimento importante. Inserendosi in questa tradizione – in un’opera del suo primo periodo, «antimoderno» – Jacques Maritain (1882-1973) considera la Riforma, nel suo Tre riformatori, all’origine del «soggettivismo filosofico moderno», e anche di «uno sfrenato naturalismo, il quale in poco più di due secoli, rovinerà tutto il pensiero occidentale, prima di sboccare nell’immanentismo contemporaneo». Nella sua periodizzazione della Rivoluzione moderna, il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) vede nel protestantesimo uno degli elementi centrali della «Prima Rivoluzione», che precede la Seconda (liberale-illuminista), la Terza (social-comunista) e la Quarta (collegata alla dissoluzione e all’immoralismo contemporanei).

Si può dire, come fanno alcuni neo-weberiani contemporanei fra cui William Swatos, che la posizione di Weber è pressoché uguale nell’analisi, anche se opposta nella valutazione, a quella della scuola cattolica contro-rivoluzionaria? Quando s’incontrano affermazioni di questo genere è opportuno procedere con molta cautela e ritornare al testo originale di Weber, spesso più citato che letto.

Anzitutto – a differenza di quanto riteneva, per esempio, Balmés – Weber non pensava che i riformatori, e Calvino in particolare, avessero volontariamente voluto sovvertire l’etica e l’antropologia tradizionali per sostituirle con la visione del mondo moderna. «Si deve stabilire una volta per tutte – scriveva Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – un punto: i programmi di riforma etica non hanno mai rappresentato il punto di vista centrale per nessuno dei Riformatori […]. Essi non furono fondatori di società per la “cultura etica” o rappresentanti di aspirazioni di riforma sociale umanitaria o di ideali culturali. La salvezza dell’anima, e soltanto questa, è il punto cardinale della loro vita e del loro agire. I loro fini etici e gli effetti pratici della loro dottrina erano tutti imperniati su di questo, e furono soltanto conseguenze di motivi puramente religiosi. Noi dovremo perciò essere preparati a constatare che gli effetti culturali della Riforma furono in buona parte – anzi, per i nostri punti di vista specifici, in prevalenza – conseguenze impreviste o addirittura non volute del lavoro dei Riformatori, spesso lontane o addirittura contrastanti rispetto a ciò che essi vagheggiavano».

Weber non sostiene neppure che quello che chiama «spirito capitalistico» sia «soltanto […] emanazione di determinate influenze della Riforma», e meno ancora «un prodotto della Riforma»: questa tesi che definisce «scioccamente dottrinaria» cadrebbe di fronte alla semplice osservazione che «certe forme importanti di impresa commerciale capitalistica sono notoriamente assai più antiche della Riforma». Era questa la principale obiezione al recepimento di una vulgata weberiana in Italia – dove i Medici non avevano certamente atteso Lutero per dare prova di «spirito capitalistico» – formulata principalmente in un’opera, che ebbe a suo tempo vasta risonanza, di Amintore Fanfani (1908-1999), Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo (1934).

Weber fa però riferimento al concetto goethiano di «affinità elettive» – trasposto dalla psicologia letteraria alla sociologia – per sostenere che queste «affinità» (all’interno, però, di un processo di eterogenesi dei fini) hanno favorito lo sviluppo del capitalismo. Infine – ed è questo il punto a proposito di Calvino – Weber non sostiene neppure che tutto il protestantesimo si sia trovato in una situazione di «affinità elettiva» rispetto allo spirito del capitalismo. Il sociologo tedesco tende, anzi, ad escludere da queste «affinità» sia Martin Lutero (1483-1546) sia Calvino, o almeno Calvino come è stato interpretato durante la sua vita e nei primi anni dopo la morte. Per Weber è piuttosto un protestantesimo di seconda generazione, che chiama «protestantesimo ascetico», ad avere favorito il successo dello spirito moderno.

Certo, nel «protestantesimo ascetico» Weber rubrica «il calvinismo». Ma c’è un equivoco: Weber sta parlando del calvinismo «nella forma che esso ha assunto nelle principali regioni dell’Europa occidentale in cui è dominante, particolarmente nel corso del secolo XVII», quindi del calvinismo dopo Calvino, che è morto nel secolo precedente, il XVI. Chiarendo il suo pensiero, Weber afferma che si sta riferendo alle «sette sorte dal movimento battistico», cioè ai battisti che – secondo un’interpretazione delle loro origini non unanime, ma ancora oggi maggioritaria – non troverebbero le loro origini nella Riforma radicale degli anabattisti, di cui Calvino fu fiero avversario, ma costituirebbero piuttosto una riforma del calvinismo.

Weber discute i rapporti con l’economia dell’idea calvinista della predestinazione, ma quella che ha in mente è la sua versione nelle confessioni di fede battiste.

Anche per i calvinisti tardi che redigono questi testi fondatori del movimento battista – che, dopo tutto, sono dei buoni protestanti – salva la fede e non salvano le opere. Le buone opere e l’etica della vocazione e della professione non consentono di «comperare» la salvezza, ma – in quanto garantiscono il successo mondano, che è segno di predestinazione – liberano dalla domanda angosciosa circa la propria salvezza. La dottrina della predestinazione gioca così – paradossalmente, e (ancora una volta) contro le intenzioni dei suoi promotori – a favore del capitalismo. Ma gioca solo – e anche su questo punto Weber è stato spesso frainteso – in quanto spinge certe denominazioni protestanti a promuovere un’etica particolarmente rigorosa e severa, che – partendo dal mondo tardo-calvinista – contagia poi anche ambienti come il metodismo, le cui origini teologiche sono peraltro diverse e per qualche verso perfino opposte rispetto alla radice calvinista.

Calvino, per Weber, c’entra poco: perché per lui il rigore non si traduceva tanto in un’etica positiva del lavoro (questo è uno sviluppo che sopravviene, appunto, dopo la sua morte) ma in una morale negativa dell’austerità che vietava il lusso, le feste, i balli e tutto quanto connotava una vita più che modesta: una morale, in una prospettiva weberiana, non favorevole all’economia moderna in quanto piuttosto e anzitutto suscettibile di deprimere i consumi. Dopo la morte del riformatore sono i calvinisti di seconda e terza generazione – pure mantenendo aspetti del suo moralismo (evidenti, per esempio, nel movimento puritano) – a insistere sul valore del lavoro e, a poco a poco, anche della ricchezza materiale come segno di benedizione del Signore e di predestinazione. Dopo qualche generazione, gli stessi puritani sbarcati sul continente americano non erano più tanto puritani nel senso più corrente del termine: la valorizzazione del lavoro aveva condotto a uno sguardo positivo sulla ricchezza e, inesorabilmente, anche sui consumi. Vi è qui una certa influenza su processi economici, anche se parlare d’invenzione del capitalismo – che, come ricordava Fanfani, i banchieri toscani cattolici avevano già inventato molto prima della Riforma – è decisamente fuori luogo.

Sembra dunque opportuno separare la critica cattolica, soprattutto di scuola contro-rivoluzionaria, del protestantesimo e l’apologia weberiana del «protestantesimo ascetico» come fattore di modernizzazione soprattutto economica. L’unico elemento che queste due analisi del protestantesimo hanno in comune consiste nel metterlo in relazione con la modernità. La critica cattolica contro-rivoluzionaria vede però soprattutto nel primo protestantesimo di Lutero e Calvino – nell’affermazione del principio epistemologico della sola Scriptura, di un principio antropologico individualista e di un principio sociologico che diminuisce l’importanza della struttura gerarchica della Chiesa – una delle radici del processo rivoluzionario moderno. Weber vede invece nel secondo protestantesimo (pietista, metodista e battista, di quest’ultimo sottolineando appunto la radice tardo-calvinista) e nella sua etica del lavoro e del successo un elemento di modernizzazione economica.

È vero che alcuni sociologi contemporanei hanno collegato le due analisi, sostenendo – come ha fatto Peter Berger – che, proprio in quanto promuove (volontariamente o no) il capitalismo, il protestantesimo promuove un certo individualismo che dal capitalismo è inseparabile. Ma il nesso rimane problematico.

D’altro canto – come Weber osservava a proposito del suo «protestantesimo ascetico» – anche per quanto riguarda il primo protestantesimo si deve osservare che il contributo alla nascita del mondo moderno corrisponde in larga parte a un processo di eterogenesi dei fini. Calvino non era un uomo «moderno» nel senso più corrente del termine: per esempio – ma non si tratta di un punto secondario – il Diavolo giocava un ruolo tutt’altro che minore nella sua esperienza religiosa ed egli non si sarebbe mai sognato di promuovere una teologia secolarizzata come quella di certi ambienti riformati contemporanei da cui gli angeli, i demoni e l’Inferno venissero espunti.

Che cosa rimane del calvinismo nel XXI secolo? Per rispondere a questa domanda occorre ripercorrere, sia pure brevemente, la storia del calvinismo dopo Calvino.

In Svizzera Calvino aveva elaborato un modello di Chiesa dove l'autorità non risiede nei vescovi ma nel collegio dei pastori o in collegi misti di pastori e laici (presbitéri). Quando il movimento di Calvino si diffonde in Gran Bretagna, la corrente riformata si divide in un'ala «presbiteriana» e in una «congregazionalista». Nella seconda l'autorità ultima risiede nella congregazione locale, in una situazione di uguaglianza radicale fra pastori e laici. John Knox (1505-1572), che era stato allievo di Calvino a Ginevra, conquista al calvinismo la Scozia. La Chiesa di Scozia, che conta oggi circa un milione e mezzo di fedeli, è la Chiesa nazionale scozzese e la Chiesa madre del mondo riformato presbiteriano (ampiamente presente anche negli Stati Uniti, in Canada e Australia). Anche dopo l'Atto di Unione con l'Inghilterra del 1707 la Chiesa di Scozia riesce a mantenere la sua specificità riformata e presbiteriana, anche se i re d'Inghilterra ne diventano formalmente i capi (così come lo sono della Chiesa anglicana).

In Inghilterra – di fronte alla riforma anglicana – i calvinisti propugnano una Chiesa ulteriormente «purificata» dai residui cattolici, e sono perciò chiamati – originariamente in senso dispregiativo, con un termine che abbiamo già incontrato – «puritani». Perseguitati in patria, i puritani emigrano in massa nelle colonie americane, a partire dai famosi «Padri pellegrini» che nel 1620 partono a bordo del Mayflower. Non tutti, peraltro, erano partiti.

La minoranza riformata rimasta in Inghilterra costituirà la spina dorsale di un movimento di opposizione all'assolutismo reale sanzionato dalla Chiesa anglicana. Questo movimento porta nel 1643 all'abolizione dell'episcopato in Inghilterra e nel 1645 alla vittoria di Oliver Cromwell (1599-1658) che, alla testa di una coalizione composta da diversi gruppi di dissidenti religiosi, si impadronisce del potere, fa giustiziare nel 1649 il re Carlo I (1600-1649) e di fatto abolisce la monarchia. Dopo la morte di Cromwell (1658) i presbiteriani, più moderati dei congregazionalisti, favoriscono il ritorno della monarchia (1660). Presbiteriani e congregazionalisti sono «tollerati» in Inghilterra a partire dal 1689 (Act of Toleration), ma la Chiesa anglicana rimane la Chiesa nazionale.

Oltre che in Scozia e in alcuni cantoni svizzeri, le comunità calviniste costituivano nel diciassettesimo secolo la religione di Stato in Olanda, cioè nelle Province Unite protestanti che nel 1579 si erano separate dalle province meridionali cattoliche fedeli alla Spagna (che corrispondono, in gran parte, all'odierno Belgio). Nel 1618, in Olanda, il Sinodo di Dort aveva condannato il professore di Leida Jacob Arminius (1560-1609) per le sue idee revisioniste in tema di predestinazione. La condanna di Arminius – le cui idee sarebbero state parzialmente riprese dai metodisti – sottolineava come la dottrina della predestinazione rimanesse centrale per le comunità che si rifacevano a Calvino.

Nel Settecento – troppo spesso identificato solo con un protestantesimo di Stato freddo e formalista – il mondo calvinista è scosso da fenomeni di risveglio, a partire da quello guidato negli anni 1730 negli Stati Uniti da Jonathan Edwards (1703-1758). Nel XIX secolo il risveglio si estende a tutte le comunità calviniste europee e penetra anche, in Piemonte, nella Chiesa valdese, che fin dal XVI secolo aveva sostanzialmente accettato la teologia calvinista.

Le più grandi fra le comunità calviniste – riunite nell'Alleanza riformata mondiale, inizialmente composta da soli presbiteriani, e che dal 1975 accoglie anche congregazionalisti con il nome di Alleanza mondiale delle Chiese riformate – si trovano oggi negli Stati Uniti, dove originariamente erano sorte un gran numero di denominazioni collegate alla provenienza geografica dei diversi gruppi immigrati dall'Europa. A seguito di una serie di fusioni – che hanno superato anche le divisioni che si erano prodotte all'epoca della Guerra civile – nel 1983 si è formata la Presbyterian Church (U.S.A.), che con oltre due milioni e mezzo di membri, è la maggiore comunità calvinista americana, seguita dalla United Church of Christ, che conta un milione e mezzo di membri, anch'essa risultato di una serie di fusioni alle cui origini si trovano una serie di gruppi congregazionalisti. Molto forti sono le Chiese «di missione», particolarmente in Corea, Indonesia, Sudafrica, Malawi, Congo e Camerun. Nel mondo i calvinisti sono circa settanta milioni, ma queste statistiche comprendono, particolarmente in Europa, molti credenti «nominali» la cui pratica religiosa è pressoché inesistente. Le comunità calviniste hanno offerto anche nel XX secolo al mondo protestante alcuni dei suoi più influenti intellettuali e teologi, fra cui lo svizzero Karl Barth (1886-1968) e l'americano Rheinhold Niebuhr (1892-1971).

C’è però un mondo di origine calvinista che appare in condizioni di salute assai migliori rispetto ai riformati classici, ed è il mondo battista. Ritenere, come si è accennato, i battisti di origine prevalentemente calvinista non significa sostenere che i battisti non siano stati influenzati da correnti della Riforma radicale (anti-calvinista), in particolare dai mennoniti, da cui oggi sono tuttavia distanti nella teologia e nello stile di vita. I mennoniti hanno del resto influenzato soprattutto la corrente battista più antica ma destinata storicamente ad acquistare minore diffusione, quella dei cosiddetti «battisti generali» la cui fondazione si può fare risalire a John Smyth (1570-1612). Questo primo gruppo di «battisti» per la verità continua a muoversi nell'ambito di una teologia calvinista, ma critica il legame di talune Chiese calviniste (come della Chiesa anglicana) con lo Stato, che vede simboleggiato nel battesimo dei bambini. A quest'ultimo è sostituita la libera scelta del battesimo degli adulti (da qui il nome «battisti»). Dopo la morte di Smyth il gruppo che trae origine da lui adotta, sul problema della grazia e della predestinazione, la posizione arminiana (secondo cui la grazia è offerta a tutti), opposta al classico predestinazionismo calvinista. Con questa nozione «generale» della redenzione (per tutti, non per i soli predestinati) i «battisti generali» escono propriamente dal calvinismo.

A differenza dei «generali», i «battisti particolari» mantengono la nozione calvinista della predestinazione, ma rifiutano – come i «generali» – il battesimo dei bambini che la maggioranza dei calvinisti invece mantiene. La maggioranza delle denominazioni battiste attive oggi nel mondo deriva dai «battisti particolari», ma si è divisa su altre questioni. Negli Stati Uniti la Guerra civile e la questione della schiavitù dividono nel 1845 la Convenzione battista del Sud (oggi il più grande organismo battista del mondo per numero di fedeli, in maggioranza conservatore anche se un suo illustre membro, mai espulso nonostante le note scappatelle e tuttora praticante, è Bill Clinton) dalla Convenzione battista del Nord (chiamata oggi Chiese battiste americane), quest'ultima di orientamento teologicamente più liberale, contro cui hanno protestato – separandosene – una costellazione di denominazioni chiamate «primitive» o fondamentaliste.

Le divisioni della grande corrente battista (trentasette milioni di membri adulti e
«professanti», settanta milioni di «popolazione complessiva» che nelle statistiche battiste comprende anche i bambini e i simpatizzanti) hanno avuto qualche riflesso anche sulle missioni italiane. Come sviluppo di missioni che risalgono al 1863 nel 1956 è fondata l'U.C.E.B.I. (Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia), storicamente derivata dalla missione statunitense ma con statuto e responsabilità autonome. Alcuni gruppi battisti conservatori hanno però mantenuto una posizione indipendente, formando un network critico nei confronti dell'U.C.E.B.I. accusata di professare una teologia troppo liberale.

L’espressione «battisti riformati», oggi popolare anche in Italia, non indica una denominazione, ma una posizione teologica che intende essere insieme battista e calvinista. Nel XX secolo la reazione contro le posizioni liberal porta molti battisti a sottolineare come, per evitare la deriva progressista, sia necessario tornare alle originarie Confessioni di Fede Battiste («particolari») di Londra del 1644 e soprattutto del 1689, che hanno un forte sapore calvinista. I «battisti riformati» sono pertanto battisti conservatori (ancorché con diversi «gradi» di conservatorismo) che sottolineano le caratteristiche calviniste del battismo particolare del XVII secolo, rivendicando in particolare l’eredità dei puritani. Operano sia come correnti organizzate all’interno di denominazioni battiste, sia come comunità indipendenti. E, con il loro forte richiamo all’eredità di Calvino, sono uno dei luoghi dove il calvinismo vive e prospera, non perde fedeli ma ne guadagna.

Anche se molti professionisti cattolici dell’ecumenismo – che qualche volta hanno tendenza a ridurre tutto il protestantesimo alla sua variante liberal, spesso l’unica con cui mantengono un dialogo, e a prendere in esame la situazione europea piuttosto che quella nordamericana o latino-americana – non sembrano rendersene conto, il protestantesimo «tradizionale», erede della prima generazione dei riformatori, è quasi ovunque in crisi. Sembra che il protestantesimo classico, dopo avere «fatto il suo lavoro» e dato il suo contributo allo sviluppo dello spirito moderno, sia diventato superfluo all’ulteriore evoluzione di quest’ultimo. «Il declino del protestantesimo liberale – osserva oggi un sociologo rigorosamente ateo come Steve Bruce – suggerisce che, ben lungi dall’avere fallito, ha fatto il suo lavoro così bene che coloro che l’hanno accettato hanno la sensazione di non averne più bisogno».

Questo genere di osservazioni coincide solo in parte con il commento di Weber secondo cui agli inizi del secolo XX ormai lo spirito del capitalismo era «fuggito dalla gabbia» del protestantesimo ascetico. «In ogni caso il capitalismo vittorioso – osservava Weber nel 1904-1905 – da quando si fonda su una base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno». Anzitutto, il protestantesimo di prima generazione, calvinismo compreso – che Weber chiamava «tradizionale» – e il secondo protestantesimo «ascetico» non sono affatto la stessa cosa. In secondo luogo non sono esattamente la stessa cosa neppure l’individualismo moderno e l’etica protestante del lavoro e delle professioni. In termini weberiani, fra questi due aspetti della modernità, il primo è in qualche modo debitore del protestantesimo tradizionale, il secondo del protestantesimo ascetico. Ma è anche vero che il secondo può stare senza il primo (e viceversa). Mentre l’individualismo moderno – e il protestantesimo un tempo «tradizionale», oggi diventato «liberale», che lo promuove – difficilmente riescono a sfuggire alla crisi contemporanea della modernità, non è detto che l’etica della vocazione e del lavoro – e il protestantesimo «ascetico» che la sostiene – debbano subire la stessa sorte. Al contrario quelle componenti del protestantesimo ascetico che riescono a sottrarsi alla forza di attrazione del protestantesimo liberal sembrano continuare a prosperare.

Calvino, oggi, è in crisi nel calvinismo tradizionale delle Chiese riformate, coinvolte nella più generale crisi di fedeli e di vigore missionario che percorre tutto il protestantesimo storico e liberal – una crisi, beninteso, che non esclude la perdurante presenza di notevoli intellettuali e di prestigiose istituzioni culturali ma che sembra irreversibile. Calvino, invece, vive e in un certo senso prospera nella sua versione meno «progressista», quella dei battisti o più precisamente di quei battisti – anzitutto la Convenzione battista del Sud – che interpretano  la teologia riformata in modo più conservatore. Attenzione a non leggere male Weber: sono questi calvinisti conservatori – non i «progressisti», eredi più diretti dell’esperienza ginevrina – ad avere, per il sociologo tedesco, qualche cosa a che fare con il progresso economico anglo-americano.