Il Papa parla all’Australia
Dal 12 al 21 luglio 2008 Benedetto XVI si è recato in Australia dov’era in programma – a Sydney – la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù. È un viaggio che, per chi parte da Roma, significa in effetti spingersi «sino agli estremi confini della Terra» (Atti 1, 8). Mentre il viaggio negli Stati Uniti d’America (15-21 aprile 2008) è stato occasione per una catechesi, appunto, sugli Stati Uniti, in Australia il Papa si è rivolto alla Chiesa universale, di cui è evento da molti anni significativo la Giornata Mondiale della Gioventù. Peraltro, Benedetto XVI non poteva mancare di dedicare, come ha fatto, alcuni cenni anche alla situazione australiana: e ha trattato, in particolare, tre temi.
(a) Il primo riguarda il valore dell’evangelizzazione dell’Oceania e dell’Australia, di cui il Pontefice ha dato un giudizio positivo che non è, nell’attuale dibattito culturale, scontato: e lo ha fatto da due diversi punti di vista. Il primo è l’indicazione come modelli di sacerdoti e religiose cattoliche che – in un momento in cui l’Australia considera parte della sua identità il legame con le tradizioni anglicana e protestante della madrepatria britannica, e la Chiesa Cattolica è a malapena tollerata – si battono, anche contro i pareri prudenziali dei loro vescovi, per un’aperta predicazione del cattolicesimo nel territorio australiano, dovunque e in tutti gli ambienti sociali. Così Benedetto XVI ha ricordato la figura di Padre Jeremiah O’Flynn O.C.S.O. (1788-1831), trappista dopo essere stato novizio francescano e primo sacerdote cattolico a evangelizzare l’Australia (in precedenza, alcuni sacerdoti erano stati deportati nel Paese oceanico come detenuti) (Benedetto XVI 2008g). Padre O’Flynn è una figura controversa, in quanto svolge attività di predicazione e celebra i sacramenti anche in zone dell’Australia in cui questo è, all’epoca, illegale così da venire espulso dal Paese nel 1818. Anche i successi nell’evangelizzazione dei giovani della Beata Mary MacKillop S. o S.J. (1842-1909), per il momento l’unica beata australiana, che Benedetto XVI ha ricordato più volte nel suo viaggio e di cui ha voluto visitare la tomba a Sydney, creano tensioni con le autorità coloniali sgradite al suo vescovo, che la scomunica nel 1871, il che non le impedirà di essere beatificata nel 1995. Celebrando la missione di queste figure decisive nella storia del cattolicesimo australiano, Benedetto XVI riafferma che ci sono circostanze in cui si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.
In secondo luogo, il Papa è intervenuto sulla questione degli aborigeni, che è al centro in Australia di un acceso dibattito (su cui cfr. Introvigne 2006, 67-69, dove discuto la controversia intorno all’opera di Windschuttle 2002). Da una parte, Benedetto XVI ha lodato le dichiarazioni e le iniziative volte a pubblicamente «riconoscere le ingiustizie commesse nel passato nei confronti dei popoli indigeni» (Benedetto XVI 2008b). D’altro canto, ha sottolineato come l’autentica «riconciliazione» consista nel «colmare il divario fra Australiani indigeni e non indigeni circa le aspettative di vita, i traguardi educativi e le opportunità economiche» (ibid.). Per il successo di quest’opera, ha aggiunto il Papa, l’evangelizzazione cattolica è una risorsa preziosa, sulla scia della testimonianza di tanti santi missionari e catechisti. Fra questi ha voluto ricordare san Pietro Chanel (1803-1841), patrono dell’Oceania, sacerdote marista francese martirizzato nell’isola di Futuna (oggi parte del Territorio d’Oltremare Wallis e Futuna della Repubblica Francese), e il catechista beato Peter To Rot (1912-1945), ucciso con un’iniezione letale nel 1945 nella Nuova Bretagna (oggi parte dello Stato Indipendente della Papua New Guinea) su ordine delle autorità di occupazione giapponesi perché si opponeva alla legalizzazione della poligamia da loro introdotta, «nella ferma convinzione che la guida di una comunità deve sempre rifarsi al Vangelo» (Benedetto XVI 2008c). Con queste memorie – tutt’altro che casuali – il Pontefice ricorda in modo eloquente che i martiri san Pietro Chanel e beato Peter To Rot avevano ragione, e i loro carnefici avevano torto. Annunciare il Vangelo agli aborigeni ed estirpare pratiche contrarie alla legge naturale come la poligamia aiuta, non ostacola alcune popolazioni a «colmare il divario» con altre. Si tratta di un’osservazione importante, in un momento in cui un’antropologia relativistica insegna che non esiste nessun «divario» e che tutte le culture sono di uguale valore. Quest’antropologia non rimane una pura posizione accademica ma si traduce in una politica per cui l’aborigeno deve rimanere aborigeno: anche perché, se «colma il divario» e inizia a fruire dei benefici della cultura occidentale, non è più interessante per gli antropologi, né per i turisti.
A questo proposito mi permetto di citare una recente esperienza personale. In Finlandia per partecipare a un congresso universitario, ho seguito con interesse il dibattito sui Sámi (il nome «politicamente corretto» per le popolazioni un tempo chiamate Lapponi). Lo slogan antropologico che risale agli anni 1970 «i Sámi devono rimandere Sámi» ha portato a considerare una disgrazia non solo l’evangelizzazione cristiana – il che è evidente anche in alcuni allestimenti museografici, dove il missionario è per definizione il «cattivo» – ma anche qualunque iniziativa educativa ed economica che, con il tempo, trasforma molti Sámi da tradizionali allevatori di renne, spesso nomadi, in costume tipico in operai, impiegati (e talora commercianti e imprenditori) vestiti in modo non dissimile dai loro concittadini di altra etnia, quindi poco interessanti per gli studiosi e per le migliaia di turisti che vorrebbero fotografarli. Ferma restando la giusta condanna di eventuali abusi, solo un relativismo assoluto può augurare al Sámi – e all’aborigeno australiano – di non «colmare il divario» e di rimanere a uno stadio di sviluppo evidentemente insoddisfacente pur di mantenere la sua identità (che, evidentemente, può essere difesa, in quanto ha di conforme alla legge naturale, in altri modi). A meno che si tratti di cinico sfruttamento turistico: il che porta alcuni Sámi a «fare i Sámi» come professione, vestendosi per otto ore al giorno in costume tipico a beneficio delle macchine fotografiche dei turisti, cui vendono pure «autentici» prodotti artigianali… fatti a Hong Kong, prima di rientrare alla sera a casa loro, indossare i blue jean e accendere la televisione (Olsen 2004). Se lo sfruttamento turistico è relativamente recente, l’ideologia relativistica – con sfumature neo-pagane e anticristiane – risale almeno al secolo XIX (Fewster 2006).
(b) Il secondo tema riguarda la secolarizzazione. A differenza degli Stati Uniti d’America, le cui statistiche religiose sono molto diverse – e più favorevoli alla religione – di quelle europee, l’Australia secondo i sociologi si comporta più o meno come l’Europa, di cui appare piuttosto un’appendice. Anche qui dunque «la religione e la fede sono in crisi», e si ragiona secondo una logica per cui «non abbiamo bisogno di Dio per essere felici, non abbiamo bisogno di Dio per creare un mondo migliore; Dio non è necessario, possiamo fare tutto da soli» (Benedetto XVI 2008a). La «crisi» secondo il Pontefice non è però necessariamente sinonimo di «declino», o almeno non ha il declino come esito necessario e inevitabile. In realtà in Australia come in Europa «la fede è sempre presente sotto nuove forme, forse in maniera minoritaria, ma è sempre presente in tutta la società» (ibid.). Anzi, proprio «in questo momento storico, cominciamo a capire di avere bisogno di Dio»: «in questo mondo occidentale ci sarà veramente una crisi della nostra fede, ma poi si verificherà sempre un ritorno alla fede, perché la fede cristiana è semplicemente vera e la verità sarà sempre presente nel mondo umano e Dio sarà sempre la verità. In questo senso, sono decisamente ottimista» (ibid.).
(c) Tra i problemi della Chiesa Cattolica in Australia Benedetto XVI ha dovuto evocare anche quello dei sacerdoti accusati di pedofilia, in un piccolo numero di casi (come sempre, amplificato da una certa stampa) effettivamente colpevoli. Secondo il Pontefice, «il problema qui è fondamentale analogo a quello degli Stati Uniti»: «dirò l’essenziale, le stesse cose che ho detto in America» (ibid.). Quando le accuse sono fondate, la Chiesa non ha difficoltà ad ammettere la sua «vergogna» di fronte a episodi che «devono essere condannati in modo inequivocabile», non solo moralmente ma anche collaborando con le autorità civili: «i responsabili di questi mali devono essere portati davanti alla giustizia» (Benedetto XVI 2008g). Come negli Stati Uniti, il Papa non si limita a parole di circostanza ma s’interroga sulle cause di questi episodi, limitati nel numero ma gravissimi. E ne trova la causa in errori nel campo della dottrina morale, che si sono diffusi in qualche misura anche nella Chiesa: «negli anni '50, '60 e '70 si è affermato il proporzionalismo etico, secondo cui non esiste una cosa cattiva in sé, ma sempre proporzionalmente ad altre. Così si pensava che alcune cose, anche la pedofilia, potessero in una certa proporzione essere buone. Ora, chiariamo che la dottrina cattolica non ha mai fatto sua questa idea. Esistono cose che sono sempre cattive, e la pedofilia è sempre cattiva» (Benedetto XVI 2008a).
La malattia: le ferite e le cicatrici del mondo
La catechesi che il Pontefice ha proposto ai giovani del mondo e al popolo australiano può essere articolata in due parti: una descrittiva e una propositiva. La prima è una descrizione della grave situazione in cui si trova un mondo pieno di «ferite» e di «cicatrici», un’espressione che ritorna nel discorso alla festa di accoglienza dei giovani sul Molo di Barangaroo a Sydney.
Il Papa muove dalla sua esperienza del lungo volo da Roma all’Australia, per lui «in qualche misura causa di apprensione» ma che nello stesso tempo gli ha offerto una «vista del nostro pianeta dall’alto […] davvero magnifica», tale da suscitare «un profondo senso di reverente timore. È come se uno catturasse rapide immagini della storia della creazione raccontata nella Genesi: la luce e le tenebre, il sole e la luna, le acque, la terra e le creature viventi» (Benedetto XVI 2008c). La stessa Australia, nelle parole dell’inno nazionale che il Papa cita e richiama, «abbonda nei doni della natura, di una bellezza ricca e rara» (Benedetto XVI 2008b).
Ogni volta che nel suo viaggio australiano il Papa richiama la natura – per ammirarne le meraviglie o per esprimere preoccupazione di fronte alle «necessità di proteggere l’ambiente ed esercitare un’amministrazione responsabile dei beni della terra» (ibid.) – usa una particolare tecnica retorica, che emerge soprattutto rileggendo i testi scritti dei discorsi. Va a capo e inizia il successivo periodo con un «vi è di più» (Benedetto XVI 2008c) o con espressioni analoghe. Questo «di più» rispetto al mondo naturale, «vertice della creazione di Dio» e non solo parte della natura, è l’uomo.
La preoccupazione rispetto alle «ferite» che si scorgono nell’«ambiente naturale» (ibid.), o almeno rispetto alle «cicatrici» che comunque rimangono anche quando si è cercato di curare le ferite, è reale e non è retorica. E tuttavia l’uomo è «di più» (ibid.). Lo è per il bene e per il male, perché anche le ferite inferte alla natura derivano dall’uomo che pensa di potere fare a meno di Dio. «Possiamo fare molte cose, ma non creare il nostro clima. Pensavamo di poterlo fare, ma non possiamo. Abbiamo bisogno del dono della terra, del dono dell'acqua, abbiamo bisogno del Creatore. Il Creatore riappare nel Suo Creato» (Benedetto XVI 2008a).
Così, le ferite e le cicatrici più profonde e più preoccupanti sono quelle del relativismo e del secolarismo, «un veleno che minaccia di corrodere ciò che è buono […] e distorcere lo scopo per il quale siamo stati creati» (Benedetto XVI 2008c). Il relativismo non è una semplice posizione filosofica. È alla radice di mali sociali come «l’abuso di alcool e di droghe, l’esaltazione della violenza e il degrado sessuale, presentati spesso dalla televisione e da internet come divertimento» (ibid.) «Vi è anche qualcosa di sinistro che sgorga dal fatto che libertà e tolleranza sono così spesso separate dalla verità. Questo è alimentato dall’idea, oggi ampiamente diffusa, che non vi sia una verità assoluta a guidare le nostre vite. Il relativismo, dando valore in pratica indiscriminatamente a tutto, ha reso l’“esperienza” importante più di tutto. In realtà, le esperienze, staccate da ogni considerazione di ciò che è buono o vero, possono condurre non ad una genuina libertà, bensì ad una confusione morale o intellettuale, ad un indebolimento dei principi, alla perdita dell’autostima e persino alla disperazione» (ibid.) Nei giovani i propagandisti del relativismo vedono «semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità» (ibid.). Senza verità non c’è «legge naturale» valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi, e questo spiega – è chiaro il riferimento all’aborto – come «lo spazio umano più mirabile e sacro, il grembo materno, sia diventato luogo di violenza indicibile» (ibid.). Nella veglia con i giovani all’Ippodromo di Randwick Benedetto XVI torna sulle «ferite che vanno in profondità» causate dal relativismo: «la società contemporanea subisce un processo di frammentazione a causa di un modo di pensare che è per natura sua di corta visione, perché trascura l’intero orizzonte della verità – della verità riguardo a Dio e riguardo a noi. Per sua natura il relativismo non riesce a vedere l’intero quadro. Ignora quegli stessi principi che ci rendono capaci di vivere e di crescere nell’unità, nell’ordine e nell’armonia» (Benedetto XVI 2008h). E il frutto del relativismo è «il deserto spirituale: un vuoto interiore, una paura indefinibile, un nascosto senso di disperazione» (Benedetto XVI 2008i).
Accanto al relativismo – ma non senza collegamenti con questo – a creare ferite e cicatrici è il secolarismo, che esclude la fede dalla vita sociale e politica. «Vi sono molti, oggi, i quali pretendono che Dio debba essere lasciato “in panchina” e che la religione e la fede, per quanto accettabili sul piano individuale, debbano essere o escluse dalla vita pubblica o utilizzate solo per perseguire limitati scopi pragmatici. Questa visione secolarizzata tenta di spiegare la vita umana e di plasmare la società con pochi riferimenti o con nessun riferimento al Creatore. Si presenta come una forza neutrale, imparziale e rispettosa di ciascuno. In realtà, come ogni ideologia, il secolarismo impone una visione globale. Se Dio è irrilevante nella vita pubblica, allora la società potrà essere plasmata secondo un’immagine priva di Dio. Ma quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire. Ciò che ostentatamente è stato promosso come umana ingegnosità si è ben presto manifestato come follia, avidità e sfruttamento egoistico» (Benedetto XVI 2008c).
Né il secolarismo riguarda solo gli «altri»: penetra anche nella Chiesa, dove qualcuno sostiene che escludere Dio e la religione dalla cultura e dalla politica in fondo è uno sviluppo positivo. Anche noi cattolici «troppo spesso […] ci ritroviamo immersi in un mondo che vorrebbe mettere Dio “da parte”. Nel nome della libertà ed autonomia umane, il nome di Dio viene oltrepassato in silenzio, la religione è ridotta a devozione personale e la fede viene scansata nella pubblica piazza. Talvolta una simile mentalità, così totalmente opposta all’essenza del Vangelo, può persino offuscare la nostra stessa comprensione della Chiesa e della sua missione. Anche noi possiamo essere tentati di ridurre la vita di fede ad una questione di semplice sentimento, indebolendo così il suo potere di ispirare una visione coerente del mondo ed un dialogo rigoroso con le molte altre visioni che gareggiano per conquistarsi le menti e i cuori dei nostri contemporanei. E tuttavia la storia, inclusa quella del nostro tempo, ci dimostra che la questione di Dio non può mai essere messa a tacere, come pure che l’indifferenza alla dimensione religiosa dell’esistenza umana in ultima analisi diminuisce e tradisce l’uomo stesso» (Benedetto XVI 2008g).
La religione deve riconquistare il suo ruolo al centro della «pubblica piazza». Per conseguire questo scopo è necessario un itinerario che ha carattere non solo culturale, ma anche – e necessariamente – ascetico: «l’autentico servizio richiede sacrificio e autodisciplina, che a loro volta si devono coltivare attraverso l’abnegazione, la temperanza e l’uso moderato dei beni naturali» (Benedetto XVI 2008e). «Il senso religioso radicato nel cuore dell’uomo apre uomini e donne verso Dio e li guida a scoprire che la realizzazione personale non consiste nella gratificazione egoistica di desideri effimeri»: la religione, «nel rammentarci la limitatezza e la debolezza dell’uomo, ci spinge anche a non riporre le nostre speranze ultime in questo mondo che passa» (ibid.). Non è vero che i giovani sono allontanati dalla proposta ascetica. Al contrario, «non è forse vero che quando si presentano loro ideali elevati, molti giovani sono attratti all’ascetismo e alla pratica della virtù morale […]?» (ibid.).
Parlando ai giovani della comunità di recupero dell’Università di Notre Dame di Sydney, molti dei quali segnati dall’esperienza della droga, della criminalità e del carcere, Benedetto XVI non si limita – ancora una volta – a un sermone di circostanza, ma propone un’articolata catechesi sugli «altri dei» che il Signore ingiunge a Mosé di non adorare (cfr. Dt 30, 19-20). «Potreste pensare che sia improbabile che nel mondo di oggi la gente adori altri dei. Ma a volte la gente adora “altri dei” senza rendersene conto. I falsi “dei”, qualunque sia il nome, l’immagine o la forma che loro attribuiamo, sono quasi sempre collegati all’adorazione di tre realtà: i beni materiali, l’amore possessivo, il potere» (Benedetto XVI 2008f). Per ognuna di queste tre realtà – beni materiali, amore e potere – il Pontefice propone un’analisi semplice e insieme profonda, che muove sempre dall’osservazione secondo cui si tratta «in sé» di «cose buone», trasformate in «false divinità» non dall’uso ma dall’abuso (ibid.). In verità – salvo il caso della chiamata alla vita religiosa, che non è la vocazione di tutti – Dio non propone la rinuncia ai beni del mondo, all’amore per una persona dell’altro sesso, o alla legittima aspirazione a emergere nella comunità come leader. Ma il rischio che ricchezza, amore e potere si trasformino in «falsi dei» è sempre dietro l’angolo. Per evitarlo, occorre di fronte ai beni e alle grandi scelte della vita, senza mortificare le proprie legittime aspirazioni, mettersi in atteggiamento di «adorazione dell’unico vero Dio» e «obbedire ai suoi comandamenti» (ibid.). Solo così, partendo da una prospettiva molto diversa rispetto a quella che ci è proposta dal relativismo e dal secolarismo, riusciamo ad analizzare il nostro atteggiamento rispetto ai beni materiali, all’amore e al potere in modo obiettivo, e a usare queste «cose buone» per la vita e non per la morte. «Cari giovani amici, il messaggio che oggi rivolgo a voi è lo stesso che Mosè formulò tanti anni or sono. “Scegli dunque la vita, perché tu e la tua discendenza possa vivere, amando il Signore tuo Dio” [Dt 30, 20]» (ibid.).
La terapia: la catechesi sullo Spirito Santo
Il tema della XXIII Giornata Mondiale della Gioventù è lo Spirito Santo. Benedetto XVI presenta il suo viaggio come un’occasione di catechesi sulle quattro dimensioni dell’opera dello Spirito Santo: in primo luogo «è lo Spirito operante nella Creazione. La dimensione della Creazione è molto presente, perché lo Spirito è creatore» (Benedetto XVI 2008a). In secondo luogo, «lo Spirito è anche l’ispiratore della Scrittura: nel nostro cammino, alla luce della Scrittura, possiamo andare insieme con lo Spirito Santo» (ibid.). In questa prospettiva, «i Padri della Chiesa amavano vedere le Scritture come un paradiso spirituale, un giardino dove possiamo camminare liberamente con Dio, ammirando la bellezza e l’armonia del suo piano salvifico mentre porta frutto nella nostra stessa vita, nella vita della Chiesa e lungo tutta la storia» (Benedetto XVI 2008g). Terzo: «lo Spirito Santo è Spirito di Cristo, quindi ci guida in comunione con Cristo» (Benedetto XVI 2008a). Quarto: «finalmente si mostra secondo San Paolo nei carismi, cioè in un grande numero di doni inaspettati che cambiano i diversi tempi e danno nuova forza alla Chiesa» (ibid.).
Questa catechesi è sviluppata nel corso del lungo dialogo di Benedetto XVI con i giovani in modo approfondito – e, francamente, impegnativo. Già nel primo incontro con il popolo della Giornata Mondiale della Gioventù al Molo di Barangaroo il Papa mostra come tutti i battezzati hanno incontrato lo Spirito di Gesù Cristo nel battesimo, diventando creature nuove, così inserite in un modo del tutto speciale in quell’unità della creazione che abbraccia il mondo e l’uomo, senza – come si è visto – che l’uomo sia una semplice parte del mondo giacché nella creazione e agli occhi di Dio la persona umana occupa invece un ruolo unico e irripetibile (Benedetto XVI 2008c).
Come però la trasformazione del Battesimo agisce di fatto nella società e nella cultura? Occorre lasciarsi davvero guidare e trasformare dallo Spirito Santo. Ma c’è, anzitutto, un modo sbagliato per entrare in relazione – o immaginarsi di farlo – con questa terza Persona della Trinità. È la scorciatoia di chi oppone, in modo superficiale, lo Spirito Santo come fonte dei carismi alla «cosiddetta Chiesa istituzionale» descritta come «rigida e priva dello Spirito» (Benedetto XVI 2008h). Chi ragiona così entra nella logica dell’«utopia spirituale» e nella tentazione «di costruire artificialmente una comunità “perfetta”» (ibid.). Il tentativo, che la Chiesa conosce fin dai tempi delle sue origini, è destinato al fallimento: «separare lo Spirito Santo dal Cristo presente nella struttura istituzionale della Chiesa comprometterebbe l’unità della comunità cristiana, che è precisamente il dono dello Spirito!» (ibid.).
Si tratta, appunto, di scorciatoie o di utopie. «Conoscere la persona dello Spirito Santo» «non è cosa facile!» (ibid.). «Lo Spirito Santo – confida Benedetto XVI – è stato in vari modi la Persona dimenticata della Santissima Trinità. Una chiara comprensione di lui sembra quasi fuori della nostra portata. E tuttavia quando ero ancora ragazzino, i miei genitori, come i vostri, mi insegnarono il segno della Croce e così giunsi presto a capire che c’è un Dio in tre Persone, e che la Trinità è al centro della fede e della vita cristiana. Quando crebbi in modo da avere una certa comprensione di Dio Padre e di Dio Figlio – i nomi significavano già parecchio – la mia comprensione della terza Persona della Trinità rimaneva molto carente. Perciò, da giovane sacerdote incaricato di insegnare teologia, decisi di studiare i testimoni eminenti dello Spirito nella storia della Chiesa» (ibid.). Lungo questo itinerario, il futuro Pontefice incontra sant’Agostino (354-430), cui dedica una parte di rilievo della sua produzione teologica. Sant’Agostino, spiega, è significativo non solo perché si è occupato a lungo e in modo approfondito dello Spirito Santo ma anche perché – prima della conversione – è egli stesso caduto vittima di «uno di quei tentativi che ho menzionato prima di creare un’utopia spirituale» aderendo al manicheismo (ibid.).
Benedetto XVI schematizza il pensiero di sant’Agostino sullo Spirito Santo in «tre particolari intuizioni», che rimandano tutte al suo ruolo di «vincolo di unità all’interno della Santissima Trinità»: «unità come comunione, unità come amore durevole, unità come donante e dono» (ibid.). Anzitutto, dunque, lo Spirito Santo rappresenta per sant’Agostino – già nel suo stesso nome dove «le due parole “Spirito” e “Santo” si riferiscono a ciò che appartiene alla natura divina» - «ciò che è condiviso dal Padre e dal Figlio […] la loro comunione» (ibid.). Per il Pontefice è importante notare che in ciascuna delle tre caratteristiche dello Spirito Santo rilevate da sant’Agostino è contenuto un insegnamento per noi. L’unità come comunione c’insegna che non possiamo «“definire” noi stessi» su una base individualistica, o anche sommando rapporti parziali: è solo nella comunione con Dio e con i fratelli con cui «riconosciamo il comune bisogno di Dio» che «l’identità umana si realizza appieno» (ibid.).
In secondo luogo, sant’Agostino studiando la Prima Lettera di san Giovanni giunge alla conclusione che le parole ivi contenute «Dio è amore» (1 Gv 4, 16) «pur riferendosi alla Trinità nel suo insieme, debbono intendersi anche come espressive di una caratteristica particolare dello Spirito Santo» (ibid.). Ma che cosa significa esattamente che «Dio è amore»? L’espressione si presta a evidenti equivoci sentimentali: rischiamo d’immaginarci l’amore di Dio come «indulgente o volubile» (ibid.). Invece la caratteristica dell’amore di Dio – come spiega sant’Agostino nel De Trinitate – è che permane, o meglio che «ha un fine da adempiere: quello di permanere» (ibid.). Ed è grazie allo Spirito Santo che l’amore di Dio permane nel mondo e in noi. «Quanto lo Spirito Santo offre al mondo» è dunque un amore qualitativamente diverso dall’amore che il mondo è capace di dare: «amore che dissolve l’incertezza; amore che supera la paura del tradimento; amore che porta in sé l’eternità; il vero amore che ci introduce in una unità che permane!» (ibid.).
«La terza intuizione» di sant’Agostino nasce da una riflessione sull’episodio biblico della donna samaritana, dove Gesù si presenta come «il datore dell’acqua viva» (Gv 4, 10). Se leggiamo questo brano nel contesto di tutto il Vangelo di Giovanni diventa chiaro che l’«acqua viva» è lo Spirito Santo, che si presenta qui come dono. Nell’economia trinitaria non solo «lo Spirito è il “dono di Dio” (Gv 4,10) – la sorgente interiore (cfr Gv 4,14) – che soddisfa davvero la nostra sete più profonda», ma è lo stesso «Dio che si concede a noi come dono» (ibid.). «Lo Spirito Santo è Dio che eternamente si dona; al pari di una sorgente perenne, egli offre niente di meno che se stesso. Osservando questo dono incessante, giungiamo a vedere i limiti di tutto ciò che perisce, la follia di una mentalità consumistica. In particolare, cominciamo a comprendere perché la ricerca di novità ci lascia insoddisfatti e desiderosi di qualcos’altro. Non stiamo noi forse ricercando un dono eterno? La sorgente che mai si esaurirà?» (ibid.).
Questa dottrina dello Spirito Santo fondata sul pensiero di sant’Agostino deve ancora essere chiarita nelle sue implicazioni con la nostra vita quotidiana. «Dio si dona»: ma questo come cambia la nostra vita? Vi è qui una riflessione che ha anche una dimensione ecumenica. Martin Lutero (1483-1546), con cui il Papa tedesco spesso si confronta, aveva messo al centro del suo pensiero una critica di quella che riteneva (peraltro a torto) fosse la tesi cattolica di una salvezza conquistata «da soli», grazie ai propri meriti e alle proprie opere, mentre la salvezza è un dono gratuito che si può soltanto accettare per fede. Benché sulla base di questa intuizione Lutero abbia poi costruito un intero sistema ricco di critiche ingiuste alla Chiesa Cattolica, d’interpretazioni unilaterali e di errori, nella sua intuizione di partenza c’è del vero, il che potrebbe e dovrebbe spingere a un confronto ecumenico che ritorni alla dottrina: «Dobbiamo stare in guardia contro ogni tentazione di considerare la dottrina come fonte di divisione e perciò come impedimento a quello che sembra essere il più urgente ed immediato compito per migliorare il mondo nel quale viviamo. In realtà, la storia della Chiesa dimostra che la praxis non solo è inseparabile dalla didaché, dall’insegnamento, ma anzi ne promana» (Benedetto XVI 2008d). In questo serio confronto con il mondo protestante, fondato appunto sulla dottrina, si potrebbe tranquillamente convenire che i doni dello Spirito – cioè Dio stesso che, per la salvezza, si dona – «non sono né un premio né un riconoscimento. Sono semplicemente donati. Ed essi esigono da parte del ricevente soltanto una risposta: “Accetto”! […] Ciò che costituisce la nostra fede non è in primo luogo ciò che facciamo, ma ciò che riceviamo» (Benedetto XVI 2008h).
Solo che – contrariamente a quanto si potrebbe dedurre da alcuni scritti di Lutero – l’«Accetto» non è la fine di un itinerario ma solo il suo inizio. L’«Accetto» più perfetto della storia umana è quello di Maria al momento dell’Annunciazione, un «Accetto» per di più pronunciato in un momento in cui «Maria, davanti al Signore, rappresentava tutta l’umanità. Nel messaggio dell’angelo, era Dio ad avanzare una proposta di matrimonio con l’umanità. E a nome nostro, Maria disse di sì» (Benedetto XVI 2008l). Ebbene, anche per Maria l’«Accetto» non è una conclusione, ma un inizio. «Nelle fiabe, i racconti terminano qui, e tutti “da quel momento vivono contenti e felici”. Nella vita reale non è così facile» e Maria ha dovuto più volte soffrire un’autentica «agonia» (ibid.). «Come sant’Ignazio di Loyola [1491-1556] vide in modo così chiaro, l’unico vero “standard” su cui ogni realtà umana può essere misurata è la Croce» (Benedetto XVI 2008g).
Sì, la Croce. Ma la grandezza dell’arte cristiana è stata capace di cogliere che la Croce è anche splendore e bellezza. Già nel corso del viaggio apostolico negli Stati Uniti, visitando la cattedrale di Saint Patrick a New York Benedetto XVI aveva espresso apprezzamento per uno stile particolare, quello neo-gotico, sulla base non di un giudizio strettamente artistico ma notando sia come il fascino che il Medioevo esercita così diffusamente nelle Americhe sia il fascino di un ambiente e di un arte particolarmente adatti a simboleggiare l’unità della creazione di Dio, sia come ricollegandosi attraverso le loro espressioni artistiche al Medioevo le Chiese più giovani affermino la loro continuità con la grande tradizione dell’Europa cattolica. Lo stesso vale per l’Australia, che «per la sua storia [è] parte del mondo occidentale» (Benedetto XVI 2008a): un mondo che dunque esiste, anche se oggi qualcuno lo nega, e dove la storia della «Magna Europa» creata dalla cultura e dall’evangelizzazione cristiana finisce per essere più decisiva della geografia (cfr. Cantoni e Pappalardo 2006, e all’interno di questo testo – con specifico riferimento all’Australia – Mazzeranghi 2006). E vale, si potrebbe aggiungere, per la vicina Nuova Zelanda, dove uno studio del 1993 dello storico delle religioni statunitense Robert Ellwood ci ha mostrato quanto anche forme di «spiritualità alternativa» molto lontane dal cattolicesimo siano state affascinate dal Medioevo (Ellwood 1993).
Visitando la cattedrale di Saint Mary a Sydney, Benedetto XVI si trova di nuovo di fronte a un’espressione particolarmente importante del Gothic Revival, e conferma che l’apprezzamento per Saint Patrick a New York non era di circostanza. La «stupenda architettura di questa cattedrale», afferma a Sydney, «proclama un messaggio», e annuncia il mistero della fede come mistero di luce e di bellezza (Benedetto XVI 2008g). La cattedrale di Saint Mary è celebre per le sue vetrate ottocentesche, realizzate dalla ditta inglese Hardman Hardman & Co. su disegni in particolare di John Hardman Powell (1827-1895), da molti considerate il vertice stesso dell’arte del vetro neogotica su scala internazionale. Tra queste vetrate spicca quella del coro, dedicata alla caduta di Eva e alla glorificazione di Maria. Celebrando la Messa in Saint Mary il Pontefice così conclude, con parole che partono dalla celebrazione di un’opera eminente dell’arte neogotica per elevarsi a preghiera e cantico che celebra la potenza dello Spirito Santo nella gloria di Maria e nella prospettiva escatologica della «redenzione del mondo». «Lasciatemi concludere queste riflessioni attirando la vostra attenzione sulla grande vetrata nel coro di questa cattedrale. In essa la Madonna, Regina del Cielo, è rappresentata sul trono con maestà a fianco del suo divin Figlio. L’artista ha raffigurato Maria come la nuova Eva, che offre a Cristo, nuovo Adamo, una mela. Questo gesto simboleggia il capovolgimento da lei operato della disobbedienza dei nostri progenitori, il ricco frutto che la grazia di Dio ha portato nella vita stessa di lei, ed i primi frutti di quell’umanità redenta e glorificata che Ella ha preceduto nella gloria del paradiso. Chiediamo a Maria, Aiuto dei cristiani, di sostenere la Chiesa in Australia nella fedeltà a quella grazia mediante la quale il Signore crocifisso continua ad “attirare a sé” tutta la creazione ed ogni cuore umano (cfr Gv 12, 32). Possa la potenza del suo Santo Spirito consacrare i fedeli di questa terra nella verità, produrre abbondanti frutti di santità e di giustizia per la redenzione del mondo e guidare l’intera umanità verso la pienezza di vita intorno a quell’Altare dove, nella gloria della liturgia celeste, siamo chiamati a cantare le lodi di Dio per l’eternità» (ibid.)
RIFERIMENTI
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