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La crisi del cattolicesimo in Brasile e l’Azione Cattolica, 1937-1952

di Massimo Introvigne

imgLa crisi del cattolicesimo in Brasile

Nel 1933 – al culmine del Risveglio Cattolico brasiliano iniziato nel 1916 – la «vittoria schiacciante» (Todaro Williams 1974a, 318) della Lega Elettorale Cattolica Brasiliana, cioè dello strumento che il mondo cattolico brasiliano si era dato per manifestare la sua presenza in occasione delle elezioni per l’Assemblea Costituente, offre il ritratto di una Chiesa cattolica la cui influenza sulla società brasiliana sembra al culmine. Tuttavia, se alla fotografia di famiglia di un cattolicesimo unito e felice nel Brasile del 1933 ne affianchiamo un’altra idealmente scattata vent’anni dopo nel 1952, al momento della fondazione della Conferenza Episcopale Cattolica Brasiliana (CNBB), scopriamo che la situazione è cambiata in modo drammatico. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Chiesa in Brasile «ha perso improvvisamente la sua influenza» (Alting von Geusau 1978, 25; l’autore di questo testo, importante ma d’impronta marxista, Leo Alting von Geusau, è un sacerdote e antropologo olandese che, dopo essersi occupato a lungo di cose brasiliane e avere animato prima una lobby «progressista» durante il Concilio Vaticano II, poi varie iniziative di opposizione all’enciclica Humanae Vitae, del 1968, di Paolo VI, 1897-1978, anche come segretario generale del gruppo cattolico progressista IDOC, «International Documentation on the Catholic Church», si è sposato nel 1981 e ha lasciato il sacerdozio, dedicandosi a tempo pieno alla lotta per i diritti delle tribù Akha tailandesi, da cui proviene sua moglie).

Vent’anni dopo la vittoria del 1933, la pratica cattolica settimanale – peraltro sempre difficile da valutare sul piano statistico – è unanimemente percepita come in declino. Non vi sono dati certi né per la pratica degli anni 1930 né per quella degli anni 1950 in Brasile, ma nel secondo caso il citato Alting von Geusau parla del 5-6%, mentre Bruneau (1974, 48) riferisce indagini compiute su singole città di dimensioni medie considerate come tipiche dove la pratica domenicale sarebbe andata dal 12% al 16%. È probabile che le affermazioni secondo cui negli anni 1920 e 1930 la pratica cattolica in Brasile coinvolgeva la maggioranza della popolazione siano esagerate. Un rilevante declino dopo la Seconda Guerra Mondiale sembra comunque un dato certo. Un secondo fenomeno – su cui vi sono dati più sicuri – è la diminuzione del numero dei sacerdoti, o meglio di quel 60% di sacerdoti che era di nazionalità brasiliana, dal momento che il 40% dei sacerdoti attivi in Brasile già prima della guerra era costituito da missionari stranieri (Bruneau 1974; Deelen 1966). Il terzo aspetto della crisi del cattolicesimo è costituito dalla rapida crescita in Brasile del protestantesimo pentecostale, un fenomeno studiato seriamente dai sociologi solo a partire dagli anni 1980 e 1990 ma che era in realtà presente in Brasile fin dal 1910 e il cui primo grande sviluppo risale agli anni 1950 (Freston 1995: la fondazione della grande comunità pentecostale Brasil para Cristo, che deve essere considerata più un punto d’arrivo che un punto di partenza, risale al 1955). Le statistiche sul pentecostalismo in Brasile costituiscono notoriamente un rompicapo, dal momento che alcune ricerche prendono in esame le singole denominazioni, altre il pentecostalismo o anche il «protestantesimo» nel suo insieme. Dal 1936 al 1949-1950 le due maggiori comunità pentecostali brasiliane, ancora relativamente piccole in numeri assoluti, hanno tuttavia tassi di crescita spettacolari. La Congregazione Cristiana passa da 36.644 a 132.297 membri (cioè cresce del 210%) mentre le Assemblee di Dio salgono da 14.000 a 125.000 membri, cioè moltiplicano i loro fedeli per otto (Chesnut 1997, 31). Nel 1960 i «protestanti» erano saliti al 4,4% della popolazione brasiliana e, dal momento che si stimava che all’epoca almeno l’80% dei protestanti fosse pentecostale, si trattava del 3,5% della popolazione brasiliana (Stoll 1990, 337), cioè circa 2.460.000 fedeli.

Se poi prendessimo in esame una terza fotografia del cattolicesimo brasiliano, scattata al momento dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, nel 1962, constateremmo una situazione profondamente diversa dal 1952, per non parlare dal 1933. La Chiesa sta rioccupando il proscenio brasiliano, e di un certo numero di sacerdoti e vescovi si parla spesso nei media. Di molti è però difficile dire se siano famosi o non piuttosto famigerati, e la risposta dipende dall’orientamento dei singoli mezzi di comunicazione. Benché in nessun modo la Chiesa cattolica brasiliana possa essere ridotta alla sua componente che ha abbracciato una «teologia della liberazione» che o dialoga con il marxismo o s’identifica esplicitamente con esso, sono le voci di questa tendenza ad avere maggiore eco nazionale e internazionale. Negli organismi in cui si è di fatto frammentata l’Azione Cattolica – particolarmente la Gioventù Universitaria Cattolica e la Gioventù Operaia Cattolica – la tendenza filo-marxista è dominante. La gerarchia cattolica è divisa, ma alcuni prelati autorevoli tollerano o appoggiano questa tendenza, come Dom Hélder Câmara (1909-1999), dal 1952 vescovo ausiliare di Rio de Janeiro e dal 1952 al 1964 segretario generale della CNBB, che sarà uno dei vescovi brasiliani più attivi nella lobby «progressista» al Concilio e diventerà in seguito arcivescovo di Olinda e Recife dal 1964 al 1985. Nello stesso anno 1962 militanti della Gioventù Universitaria Cattolica – che considerano la gerarchia ancora troppo prudente – fondano Ação Popular, un movimento che – già a partire dai primi fondatori, tra i quali il sociologo Herbert José de Sousa, detto «Betinho» (1935-1997), che morirà di AIDS nel 1997 – manifestano un orientamento socialista puro e duro. In seguito, una parte consistente del movimento cambia nome in Ação Popular Marxista-Leninista, creando difficoltà di collaborazione con lo stesso Partito Comunista Brasiliano che considera gli ex-universitari di Azione Cattolica di Ação Popular marxisti eccessivamente dottrinari quando non seguaci acritici del maoismo cinese (Kuperman 2003). Nel clero stavano per emergere figure come Pedro Casaldáliga Plà, CFM, teologo della liberazione venuto dalla Spagna in Brasile nel 1968, vescovo-prelato di São Félix do Araguaia dal 1971 al 2005, lo spirito del cui ministero è forse catturato in modo icastico da una sua poesia dove si chiede se non sia diventato «con un callo per anello […] – Monsignor Falce e Martello?» (la controversa poesia è peraltro tuttora presente sul sito Internet della prelatura di São Félix do Araguaia: «Poesias de Pedro Casaldáliga» 2008).

Tre notazioni aiutano ulteriormente a capire il problema cui ci si trova di fronte. La prima è che non si tratta di una crisi «post-conciliare», perché si manifesta già negli anni 1940 e 1950, molto prima del Vaticano II. La seconda è che precede anche la cosiddetta «esplosione delle sette» in America Latina (un’etichetta che in Brasile e nel linguaggio pastorale include anche, se non soprattutto, i pentecostali, che tutti gli specialisti accademici considerano invece parte integrante del protestantesimo), la quale – più correttamente – è la presa di coscienza negli anni 1970 e 1980 da parte della sociologia e anche dei media della presenza in America Latina di una rilevante minoranza pentecostale (e di alcuni nuovi movimenti religiosi, i cui numeri sono però molto più piccoli rispetto a quelli del pentecostalismo), che in realtà esisteva fin dagli anni 1910 e aveva acquistato notevole consistenza a partire dagli anni 1950. La terza è che la strategia di una parte – in alcune stagioni e ambienti maggioritaria – del cattolicesimo brasiliano per riconquistare terreno attraverso la «teologia della liberazione» e l’incontro con il marxismo, nonostante l’immensa eco mediatica, è fallita. Mentre i vari «monsignori Falce e Martello» occupano le prime pagine dei giornali, il numero di praticanti e di sacerdoti continua a decrescere, e il numero dei pentecostali a salire, tanto che a partire dagli anni 1970 ci si comincia a chiedere seriamente se non abbia ormai superato in Brasile quello dei cattolici praticanti (Bruneau 1974; Stoll 1990; Martin 1990). In effetti dal 3,5% del 1960 i pentecostali erano saliti nel 1970 al 6,95% della popolazione brasiliana, e contavano su 7.200.000 fedeli (Barrett, Kurian e Johnson 2001, I, 131). Solo una strategia pastorale diversa (anche se qua e là sono continuate fino a oggi forme pastorali nostalgiche degli anni 1960 e 1970) – con il declino e la condanna vaticana della «teologia della liberazione», la diffusione di movimenti come il Rinnovamento nello Spirito, che per così dire fanno concorrenza ai pentecostali sul loro stesso terreno, e l’impatto anche in Brasile del pontificato di Giovanni Paolo II (1920-2005) – ha determinato effettive variazioni del quadro brasiliano, così che un’ulteriore fotografia scattata nel 2003 dal sociologo statunitense Andrew R. Chesnut mostra un cattolicesimo brasiliano che sembra avere trovato le forze per rispondere alla sfida pentecostale e – sia pure fra molte difficoltà – manifesta segni di ripresa anche dal punto di vista statistico (Chesnut 2003). Non che i pentecostali abbiano cessato la loro avanzata, ma a questa si affianca una vigorosa affermazione del Rinnovamento nello Spirito e di altri gruppi carismatici cattolici indipendenti. Le statistiche sono ancora una volta difficili, perché l’autorevole World Christian Encyclopedia mette insieme sotto la voce «pentecostali e carismatici» i pentecostali protestanti e i carismatici cattolici senza disaggregarli: nel 1995 il totale (cattolici compresi) è stimato al 46,3% della popolazione brasiliana (68,5 milioni di fedeli) con una proiezione al 2005 di 79,95 milioni di fedeli (47%: Barrett, Kurian e Johnson 2001, I, 131). La proiezione, formulata nel 2001, è molto vicina al dato fornito nel 2002 dalla maggiore enciclopedia del pentecostalismo: 79,94 milioni di fedeli (Burgess e Van der Maas 2002, 35). Disaggregare il dato cattolico non è facile, perché diverse comunità «carismatiche» (che non fanno parte del Rinnovamento nello Spirito «ufficiale» ma entrano nelle statistiche) sono «inter-denominazionali»,  e comprendono fedeli cattolici insieme ad altri di comunità protestanti e a persone che dichiarano di non aderire ad alcuna Chiesa istituzionale. Questi «carismatici» - facciano parte di comunità cattoliche o «inter-denominazionali» - sarebbero stati nel 2002 secondo la stessa fonte 33,97 milioni (ibidem).

Senza esagerare l’unicità del caso brasiliano, mutamenti così repentini nella nazione che vanta il maggior numero di battezzati e il maggior numero di vescovi nel mondo cattolico richiedono evidentemente spiegazioni. Ci si può anzi stupire che la letteratura sociologica che ha cercato di spiegare che cosa è successo in Brasile, pure non assente, sia rimasta relativamente scarsa.

 

Problemi metodologici

Come ho più diffusamente illustrato altrove (Stark e Introvigne 2003; Introvigne 2004), le mutazioni del campo religioso sono spiegate dalla sociologia sulla base di due paradigmi interpretativi: la teoria della secolarizzazione e il «nuovo paradigma», che comprende al suo interno diverse teorie fra cui spiccano quelle dette dell’«economia religiosa». Se consideriamo il campo religioso come un «mercato» (il che, beninteso, non significa affatto ridurre la religione alla sua dimensione economica, ma solo utilizzare strumenti e metafore economiche per meglio studiare i fenomeni religiosi), dove s’incontrano un’offerta e una domanda di religione, possiamo dire che la teoria della secolarizzazione ha tradizionalmente spiegato l’ascesa o il declino delle religioni affermando che nella storia muta la domanda. In particolare il progresso, la scienza e la democrazia farebbero diminuire inesorabilmente la domanda di beni religiosi, producendo un collegamento inevitabile fra modernità e secolarizzazione. Partendo dallo studio del caso relativo agli Stati Uniti – dove la modernizzazione si è rivelata compatibile con un’invidiabile vitalità della religione – il «nuovo paradigma» risponde che non esiste nessuna diminuzione inevitabile della domanda collegata alla modernità. Al contrario, la domanda si mantiene abbastanza costante anche nel lungo e nel lunghissimo periodo. Le variazioni nelle statistiche e nell’influenza della religione dipendono invece dall’offerta, così che per spiegarle occorre cambiare punto di vista e porsi «dal lato dell’offerta» (supply-side).

Se la religione declina (a meno che siano sbagliati i metri di valutazione e le statistiche, il che capita più frequentemente di quanto non si creda) c’è qualche cosa che non va nell’offerta. Secondo la teoria dell’economia religiosa la crisi dell’offerta religiosa si verifica quando questa non è abbastanza «offerta» oppure non è abbastanza «religiosa». Secondo la scienza economica, il contrario dell’offerta libera è il monopolio. Dunque la religione declina (esattamente al contrario di quanto pensavano i teorici della secolarizzazione) quando è percepita come monopolistica, sia perché la mancanza di concorrenza deprime il mercato e il prodotto è considerato poco interessante dai potenziali consumatori, sia perché in assenza di competitor il venditore (il personale religioso) s’impigrisce e non è spinto a prendere efficaci iniziative per rimanere competitivo sul mercato. Si deve precisare che la concorrenza, come in ogni settore, può essere interbrand o intrabrand. La concorrenza interbrand è quella fra offerte la cui origine è del tutto diversa: in campo religioso, fra cattolicesimo e pentecostalismo protestante, o fra cattolicesimo e islam. La concorrenza intrabrand è quella fra offerte la cui origine ultima non è diversa ma che sono abbastanza differenti da offrire ai consumatori reali possibilità di scelta. In campo religioso, oggi il cattolicesimo in Italia o l’islam in Turchia offrono una tale varietà di forme, associazioni, movimenti da creare una vera concorrenza intrabrand. Perché la religione prosperi non è necessaria una concorrenza interbrand ma è sufficiente una concorrenza intrabrand.

In secondo luogo, la religione declina quando l’offerta non è abbastanza «religiosa» (Stark e Finke 2000). Si misura qui l’inanità della critica secondo cui le teorie dell’«economia religiosa» s’interesserebbero solo di come è «venduto» ciascun «prodotto» religioso, trascurando le dottrine. È precisamente il contrario. Sono le teorie della secolarizzazione che tendono a non interessarsi della dottrina, perché rintracciano la radice di ogni problema in una domanda che non dipenderebbe dall’offerta, così che quali dottrine siano proposte ultimamente né ferma né fa avanzare il processo secolarizzatore. Al contrario, il «nuovo paradigma» rimette la dottrina al centro dell’indagine sociologica. Proprio se si applicano modelli mutuati dalla scienza economica, non ha senso ignorare le dottrine perché sono le dottrine il «prodotto» che le «aziende religiose» offrono. Sarebbe come occuparsi del mercato delle automobili ignorando le automobili. E, per quanto i frigoriferi siano utili, se un’azienda automobilistica a un certo punto anziché automobili vende frigoriferi, è difficile che abbia successo sul mercato delle automobili (anche se potrà entrare in quello dei frigoriferi). Così il «progressismo» religioso che sostituisce ampiamente la religione con tematiche sociali e di promozione umana è destinato a non avere successo sul mercato religioso «perché nella pratica i comportamenti religiosi e la teologia sono collegati. Contrariamente alle proteste dei nostri critici meno attenti secondo cui il nostro accostamento riduce semplicemente la religione al marketing, abbiamo sempre sostenuto che l’incapacità delle denominazioni progressiste di “vendersi” con successo trova le sue radici nelle loro dottrine – solo vivide concezioni di un soprannaturale attivo e provvidente possono generare un’atmosfera religiosa vigorosa» (Stark e Finke 2000, 257-258).

 

La spiegazione della crisi brasiliana secondo la teoria della secolarizzazione

Quando si manifesta la crisi del cattolicesimo brasiliano, gli studi sociologici sulla religione sono ancora dominati dal «vecchio paradigma» della secolarizzazione. Anzi, per quanto riguarda il Brasile questo paradigma è spesso declinato in una chiave che tiene ampiamente conto del marxismo, anche a causa del fenomeno che il citato antropologo ed ex-sacerdote olandese Leo Alting von Geusau chiama – con una buona dose di auto-ironia, giacché egli stesso vi è stato a suo tempo coinvolto – della «discarica» (Alting von Geusau 1978, 24). Le Chiese europee e degli Stati Uniti mandano in esilio in un Brasile che peraltro ha fame di preti i sacerdoti «troppo radicali» e in particolare quelli che manifestano simpatie per il marxismo (ibidem). Molti di loro hanno studiato sociologia o antropologia e si presentano come gli unici «esperti», dotati insieme di strumenti metodologici specializzati e di esperienza di terreno, capaci di spiegare che cosa mai stia succedendo in Brasile. Naturalmente, il fenomeno della «discarica» non si limita al piano delle spiegazioni. Esercita il suo influsso anche sui fatti, come basterebbe a dimostrare il solo esempio dell’influenza dei soggiorni in Brasile di un antesignano della «teologia della liberazione» come padre Jean Cardonnel, O.P., nato nel 1921, che sarà poi oggetto di una censura ecclesiastica nel 1968 e nel 2008 è tornato agli onori delle cronache per avere vinto in primo grado (ma è in corso l’appello, e il risarcimento ottenuto è stato di soli mille euro) un processo penale che origina da una sua denuncia contro il priore del convento domenicano di Montpellier, da cui è stato non solo esclaustrato ma fisicamente espulso: fermamente e, secondo i suoi avvocati, neppure cortesemente.

Come, dunque, una sociologia improntata al modello della secolarizzazione e talora influenzata dal marxismo interpretava gli avvenimenti, per molti versi straordinari, che si erano prodotti nella Chiesa brasiliana? Come ci si poteva attendere, ponendosi dal punto di vista della domanda, e immaginando che la domanda religiosa fosse quasi improvvisamente venuta meno in una misura assai più ampia di quanto non fosse avvenuto in altri Paesi. Un riassunto classico di questa interpretazione, citato da quasi tutti gli studiosi degli anni 1970 e 1980, è il volume The Political Transformation of the Brazilian Catholic Church di Thomas C. Bruneau (1974), un politologo americano che oggi lavora nel sistema accademico della Marina americana e che all’epoca, pur non essendo marxista, era legato a un modello di sociologia strettamente funzionalista e che teneva ampiamente conto delle classi sociali. Secondo Bruneau nel corso del secolo XIX si era verificato il distacco dalla Chiesa cattolica di gran parte delle classi alte della società brasiliana (beninteso, con significative eccezioni familiari e individuali), che avevano abbracciato l’ideologia laicista e positivista, e se erano religiose si rivolgevano alle forme più esoteriche di massoneria o allo spiritismo (che in effetti aveva avuto, e continua ad avere oggi, uno sviluppo in Brasile maggiore rispetto a qualunque altro Paese del mondo). Anche le classi più basse, in gran parte analfabete, erano sfuggite al controllo della Chiesa gerarchica: pur nominalmente battezzate, praticavano un folk Catholicism intriso di elementi millenaristi o derivanti dalla religiosità sincretistica afro-brasiliana, e i loro contatti con il clero si riducevano spesso alla festa annuale del santo patrono (normalmente intrisa di elementi eterodossi, che il clero non riusciva a reprimere). Il Risveglio Cattolico era stato possibile all’inizio del XX secolo perché lo sviluppo economico aveva fatto emergere una classe media dove la Chiesa aveva ampiamente (anche qui, non senza eccezioni) reclutato il suo clero, i suoi intellettuali e i suoi militanti, specialmente nei piccoli centri, mentre nelle grandi città la stessa classe media tendeva spesso a essere attratta e assorbita dalle élite laiciste.

Nel periodo intorno alla Seconda Guerra Mondiale e negli anni 1950 il Brasile – continua Bruneau – sperimenta un boom economico e demografico (la popolazione raddoppia fra il 1940 e il 1967), che tuttavia, secondo un’analisi diffusa che punta il dito su politiche governative che tengono alta l’inflazione e sull’urbanizzazione (dal 1940 al 1960 il numero di brasiliani che vivono nelle grandi città passa da un terzo alla metà, con un gigantesco esodo di venti milioni di persone), fa diventare – usando un’espressione scontata ma, secondo il politologo americano, in questo caso adeguata – i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ne consegue che la crisi della Chiesa cattolica deriva dalla quasi completa sparizione – nel migliore dei casi, riduzione all’irrilevanza – di quella classe media di provincia che aveva sostenuto il Risveglio Cattolico.

L’altro nome che ha dominato gli studi sulla religione in Brasile nel XX secolo è quello dello storico e teologo statunitense Ralph Della Cava. Benché le sue opinioni attuali in campo politico (che si situano sul versante della sinistra radicale) siano molto lontane da quelle di Bruneau, fino agli anni 1970 l’analisi della crisi brasiliana era simile. Della Cava, per la verità, insisteva giustamente sull’importanza cruciale degli anni 1940 (Della Cava 1976). Ma anch’egli riteneva che la crisi derivasse dal venire meno della classe media, dunque di un segmento cruciale della domanda religiosa. Quanto ai pentecostali, Della Cava riteneva allora (e ritiene ancora oggi, ma la sua posizione è diventata minoritaria) che la loro presenza si spiegasse con un disegno – quasi un complotto – degli Stati Uniti, che nel contesto di un’economia neo-coloniale e della Guerra Fredda avevano bisogno di agenti in un Paese cruciale come il Brasile, dove esportavano le forme religiose più conservatrici tradizionalmente leali al governo di Washington.

La spiegazione, in quanto adottata da vasti settori del laicato, del clero e dell’episcopato brasiliano, diventa gradualmente strategia. Quanto alla crisi della pratica religiosa e delle vocazioni, se si ritiene che questa derivi dalla «sparizione» della classe media, considerata sia l’esiguità sia l’ostilità delle élite, non resta che cercare di stimolare la domanda nei ceti popolari. La domanda che è soddisfatta dal pentecostalismo sarà presa sul serio solo dopo molti anni: per il momento la si attribuisce a fenomeni che il marxismo chiama di «falsa coscienza», cioè a una non completa consapevolezza delle proprie esigenze da parte del proletariato. Così, sulla base di dati peraltro non inesatti sulla diffusione della povertà soprattutto nel Nordeste (per esempio, negli anni 1950, 504 bambini su 1.000 nello Stato di Pernambuco decedevano per malnutrizione e malattie nel primo anno di età: Alting von Geusau 1978, 26), si ritiene che i ceti popolari – una volta che siano messi in grado di superare la «falsa coscienza» e formulare le loro «vere» domande – non chiedano religione, ma soluzioni socio-politiche ai loro problemi. Così, secondo la formulazione di Bruneau, nella pastorale prevalente negli anni 1950 «l’elemento strettamente religioso (sia nei programmi pastorali sia nella loro legittimazione ideologica) era messo in secondo piano», «i vescovi parlavano di strutture sociali più che di credenze religiose personali»; in breve, «l’elemento religioso era trascurato e ci si concentrava su quello politico» (Bruneau 1974, 103-104).

Beninteso, si era consapevoli del fatto che i ceti economicamente più deboli non formulavano in modo esplicito una domanda di sostituzione della politica alla religione: e la prova era precisamente che si rivolgevano in proporzioni significative ai pentecostali, i quali non si occupavano di politica (o meglio non se ne occupavano negli anni 1950: alcune denominazioni pentecostali, come Brasil para Cristo, «scenderanno in campo» in politica nei decenni successivi, con sorpresa dei vescovi cattolici non necessariamente «a destra»). Era dunque necessaria un’opera previa di «coscientizzazione» perché i poveri superassero la «falsa coscienza» e imparassero a formulare correttamente le loro domande. A questo doveva provvedere il programma di alfabetizzazione ed educazione MEB (Movimento de Educação de Base), avviato nel 1958 per iniziativa del vescovo ausiliare di Natal (oggi cardinale) dom Eugênio de Araújo Sales sulla base delle teorie pedagogiche di Paulo Freire (1921-1997), a loro volta un’originale miscela di cattolicesimo e marxismo. Il MEB «era fondamentalmente disinteressato alla catechesi» (Bruneau 1974, 103), ritenendo che si dovesse anzitutto fare «prendere coscienza» ai poveri e agli analfabeti dei loro problemi socio-politici (i quali si riassumevano ampiamente in un’aspirazione nascosta, ma che si riteneva dovesse emergere, alla riforma agraria).

I pentecostali sono considerati con disprezzo perché da una parte, secondo queste teorie, sfruttano la «falsa coscienza» anziché combatterla – diffondendo una religione che è davvero l’«oppio del popolo» di Karl Marx (1818-1883) –, dall’altra si pensa abbiano successo grazie ai fondi e ai missionari degli Stati Uniti, così che il modo di contrastare l’avanzata pentecostale dovrebbe consistere nel diffondere presso le masse «coscientizzate» l’anti-imperialismo e l’anti-americanismo. Come si è accennato, l’operazione non ha alcun successo. Semmai, l’avanzata pentecostale diventa particolarmente spettacolare negli anni 1970, in cui è possibile che il numero dei pentecostali attivi superi in Brasile quello dei cattolici praticanti (Della Cava 1976, 28; Martin 1990).

 

Un’interpretazione della crisi brasiliana «dal lato dell’offerta»

Se adottiamo, anziché il paradigma della secolarizzazione, quello dell’economia religiosa e ci poniamo «dal lato dell’offerta» l’insuccesso delle campagne di «coscientizzazione» non appare più come sorprendente. La teoria dell’economia religiosa insegna infatti che la domanda è per definizione costante, e che ogni tentativo d’intervenire sulla domanda è votato all’insuccesso. Se si adotta questa griglia di analisi, ci si accorge poi che in Brasile è capitato qualche cosa di peggio: il presunto intervento sulla domanda ha portato a una modifica dell’offerta religiosa, che ha gradualmente abbandonato l’elemento specificamente religioso. Per ritornare all’esempio precedente, un’azienda in crisi sul mercato delle automobili si è messa a vendere frigoriferi. Fuor di metafora, cercando di reagire al successo declinante della sua offerta religiosa, una parte importante e a tratti egemonica della Chiesa cattolica brasiliana ha pensato di sostituirla con un’offerta principalmente politica.

Non dobbiamo, tuttavia, precorrere i tempi. Alcuni studiosi che abbiamo citato, benché prigionieri delle più anguste teorie della secolarizzazione, hanno ragione quando attirano l’attenzione sul fatto che i decenni dal 1950 al 1970 non si capiscono senza gli anni 1940. Ricordiamo, ancora, che secondo il «nuovo paradigma» la religione percepita come monopolistica perde colpi. La materia è delicata perché implica chiamare in causa le scelte di figure veneratissime della storia del cattolicesimo brasiliano – che nulla hanno a che fare con le scelte marxisteggianti successive – e in particolare il cardinale Sebastião Leme da Silveira Cintra (1882-1942), che è alle origini del Risveglio Cattolico. Nel decennio finale della sua vita, il cardinale Leme – che è il leader culturale indiscusso della Chiesa brasiliana – si trova di fronte alla dittatura di Getúlio Vargas (1882-1954), l’Estado Novo (1937-1945), con cui viene meno la possibilità di utilizzare strumenti come la Lega Elettorale Cattolica, i quali presupponevano un quadro istituzionale democratico. Personalmente positivista e non credente, Vargas era legato da amicizia personale al cardinale Leme. Questa amicizia servì al cardinale per conseguire tacitamente diversi risultati politici, in particolare per bloccare la sempre paventata introduzione del divorzio in Brasile e ottenere diversi riconoscimenti pubblici per la Chiesa cattolica, che costringevano le minoranze religiose – e in particolare i pentecostali – a muoversi con cautela (ancorché la loro avanzata non sia mai veramente cessata). Leme, naturalmente, si rendeva conto del fatto che l’ideologia dell’Estado Novo non era veramente cattolica. Tuttavia riteneva – tramite il supporto della Chiesa al regime – di potere conseguire insieme due scopi: ottenere tramite Vargas più o meno tutti gli obiettivi che si era posta la Lega Elettorale Cattolica, e nel frattempo mantenere viva la fiamma del Risveglio Cattolico tramite l’Azione Cattolica, fondata in Brasile nel 1935.

Alla lunga, i due scopi dovevano rivelarsi non compatibili. Occorre riconoscere che si tratta di una tipica valutazione «con il senno di poi»: all’epoca, la stragrande maggioranza del clero e del laicato cattolico era con Leme e considerava l’Estado Novo preferibile alle alternative al momento disponibili, tanto più di fronte alla minacciosa avanzata in America Latina delle influenze da una parte nazional-socialista e dall’altra comunista e sovietica. Tuttavia – analizzata ex post secondo il modello dell’economia religiosa – la Chiesa dell’epoca dell’Estado Novo appare come la tipica organizzazione religiosa che corre il rischio di essere percepita come «Chiesa di Stato» monopolista. Sappiamo che questa percezione provoca all’interno scarsa vitalità d’iniziative, all’esterno minore interesse e partecipazione religiosa. Per di più non vi era neppure la percezione di una vera concorrenza intrabrand, dal momento che nel 1937, dopo il colpo di Stato di Vargas, l’Azione Cattolica dava l’impressione di «avere assorbito in sé tutte le altre associazioni cattoliche» (O’Neill 1939, 11).

 

Plinio Corrêa de Oliveira e Em defesa de Ação Católica

L’Azione Cattolica da sola non poteva reggere il peso del Risveglio Cattolico. Semplicemente «non ce la fece», tanto che, secondo Bruneau, il cardinale Leme «morì di crepacuore per il triste fato del movimento» (Bruneau 1974, 45). L’Azione Cattolica aveva cominciato a soffrire di una «sclerosi precoce dell’organismo» (do Santo Rosario 1962, 342). Il problema, tuttavia, non riguardava solo le difficoltà di una Chiesa percepita come monopolista nell’Estado Novo di Vargas. C’erano anche problemi interni all’Azione Cattolica. Presidente della Giunta Diocesana dell’Azione Cattolica di San Paolo era, dal 1940, Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995). Nel 1943, pubblica il suo primo libro, Em defesa de Ação Católica (Corrêa de Oliveira 1943). L’opera non è certo un trattato di sociologia. Tuttavia dalla sua lettura emerge come l’idea secondo cui la soluzione ai problemi della Chiesa brasiliana sia offrire al Paese «meno» religione (e non «più» religione, come facevano a loro modo i pentecostali) non risalga agli anni 1950 e all’influenza di sacerdoti brasiliani e stranieri che si erano appassionati al marxismo, ma fosse già ben presente negli anni 1940.

L’opera parte da una raffinata analisi canonistica della natura dell’Azione Cattolica, comunemente definita «associazione di apostolato gerarchico», e del suo «mandato» ricevuto da Papa Pio XI (1857-1939). L’affermazione più volte ripetuta secondo cui l’Azione Cattolica «partecipa» all’apostolato gerarchico della Chiesa secondo Plinio Corrêa de Oliveira va intesa nel senso di una «collaborazione» e non nel senso che la dirigenza dell’Azione Cattolica «faccia parte» della gerarchia, il che le darebbe prerogative straordinarie, con il rischio di prevaricare sull’autorità dei vescovi e dei sacerdoti. Nella seconda parte, utilizzando ampiamente l’insegnamento del monaco trappista dom Jean-Baptiste Chautard (1858-1935), l’opera denuncia il rischio che l’attivismo dell’Azione Cattolica non si radichi sufficientemente nella vita interiore, e che quest’ultima sia interpretata con riferimento alla sola liturgia disprezzando come superati altri elementi che invece sarebbero, precisamente, indispensabili a evitare questo rischio come gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), il Rosario e la Via Crucis, pratiche tra l’altro carissime al popolo cattolico così che la loro svalutazione rischia di allontanare i fedeli dalle chiese. La terza parte è dedicata a un certo lassismo dell’Azione Cattolica brasiliana, che si manifesta sia nella riluttanza ad applicare gli Statuti in relazione all’espulsione di membri che non li rispettano, sia nell’ammissione incauta di nuovi membri privi dei requisiti statutari. Più in generale, il lassismo si manifesta nel considerare secondari gli ambienti, il gusto, l’abito, la buona educazione, temi carissimi all’autore che nell’Azione Cattolica del 1943 sembrano ampiamente sottovalutati. L’autore considera pure discutibile, benché sia consapevole che questo avvenga talora a fronte di una lunga sopportazione di conferenzieri noiosissimi, la sistematica sostituzione del gruppo di studio, dove ognuno «dice la sua» e al massimo è proposta una sintesi finale, alla conferenza o lezione dove è chiaro chi insegna e chi apprende. Plinio Corrêa de Oliveira contesta pure la tesi secondo cui l’Azione Cattolica debba assorbire in sé e fare lentamente scomparire le altre associazioni cattoliche, fra cui le Congregazioni Mariane, in cui personalmente militava da anni e con profitto.

Nella quarta parte – per molti versi la più importante – è denunciata la tattica del «terreno comune» che propone come forma privilegiata se non unica di attività un «apostolato d’infiltrazione» in associazioni, sindacati, partiti non cattolici o «neutri», i cui fini per definizione non sono religiosi, in nome della possibilità di avvicinare in questi ambienti nuove persone da fare accostare all’Azione Cattolica. Il magistero pontificio, nota l’autore, non ha certamente escluso questa possibilità, e talora è necessario associarsi con non cattolici per conseguire scopi limitati e comuni di carattere non strettamente religioso. Tuttavia considerare la ricerca del «terreno comune» come la priorità assoluta dell’Azione Cattolica significa non avere compreso la sua essenza, né le sue basi teologiche. L’Azione Cattolica deve anzitutto rinforzare il cattolicesimo di chi ne fa parte (che è sempre insidiato dalle conseguenze del peccato originale e dei peccati personali, da cui l’iscrizione all’associazione non preserva certo miracolosamente), quindi – ma solo in secondo luogo – rivolgersi anche ai «lontani». La quinta parte – mentre la quarta si è servita soprattutto di un’analisi del magistero dei Pontefici, e il libro in genere ha citato spesso l’Antico Testamento – mostra come la pedagogia che il testo difende trova le sue basi anche nei Vangeli.

Non opera di sociologia, dunque, ma analisi estremamente lucida di come – sulla base di diversi errori dottrinali – l’Azione Cattolica sia in crisi: un’analisi che arriva per altra via a quanto si può ricavare oggi da un’analisi sociologica che tenga conto del «nuovo paradigma». Corrêa de Oliveira sia percepisce il danno che deriva dal concentrare ogni forma di associazionismo nell’Azione Cattolica, sopprimendo in gran parte la concorrenza intrabrand, sia – attraverso la denuncia delle tattiche di «infiltrazione» e di «terreno comune», che portano a privilegiare l’associazione con terzi non cattolici per perseguire scopi comuni di carattere, il più delle volte, sindacale o politico – rivela la natura inutile e anzi dannosa di sforzi che (già nel 1943) cominciano a mescolare a un’offerta di tipo religioso un’offerta di tipo meramente politico, religiosamente «neutra». Nel 1943 siamo ancora a monte dei «monsignori falce e martello». Di fatto all’interno dell’Azione Cattolica la collaborazione con non cattolici e l’ideologia del «terreno comune» si erano rivolte principalmente in due direzioni: da una parte, verso l’Azione Integralista Brasiliana di Plínio Salgado (1895-1975), versione brasiliana sui generis del fascismo (Todaro Williams 1974b), dall’altra verso un «cattolicesimo democratico» aperto all’incontro di «terreno comune» con il pensiero laico e liberale verso cui si orientava il responsabile dell’Azione Cattolica di Rio de Janeiro, Alceu Amoroso Lima (1893-1983), che scriveva con lo pseudonimo Tristão de Ataíde, e che era passato da una simpatia per lo stesso Plínio Salgado all’«umanesimo integrale» predicato in quegli anni dal filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973). La rivalità tradizionale fra San Paolo e Rio de Janeiro nascondeva un contrasto dottrinale di fondo (Zanotto 2003, 41). La scelta per Salgado o per l’«umanesimo integrale» degli anni 1940 era certo diversa da quella per il marxismo-leninismo che avrebbe attirato tanti cattolici brasiliani nel decennio successivo. Il meccanismo di adesione aveva però elementi di similitudine.

Em defesa de Ação Católica non affronta il tema dell’ascesa dei pentecostali, che nel 1943 dovevano ancora uscire allo scoperto con le loro manifestazioni più spettacolari. Tuttavia gli elementi che offre – in particolare, la denuncia dell’illusione di potere ottenere successo con un atteggiamento più lassista sui temi etici e meno «religioso» nella scelta degli argomenti e degli interlocutori – avrebbero potuto aiutare a evitare gli errori interpretativi in cui studiosi come Della Cava sembrano persistere ancora oggi. I pentecostali ottenevano successo non nonostante ma perché offrivano «più religione», accompagnata da una morale piuttosto puritana ed esigente (che accusavano precisamente la Chiesa cattolica di avere abbandonato). Si sarebbe dovuto attendere il 1993 perché, in un’intervista poi divenuta celebre, il teologo argentino Josè Miguez Bonino, uno dei più celebrati esponenti della «teologia della liberazione», riconoscesse pubblicamente che ci si era sbagliati. «Gli studiosi seri oggi – affermava Miguez Bonino – non sottolineano più l’importanza di un’assistenza dall’estero [cioè dagli Stati Uniti], né parlano di un’“invasione straniera” con riferimento al pentecostalismo latino-americano» che sarebbe invece «un’autentica espressione dello stesso ethos del contesto e della cultura latino-americana» (in Peterson 1994, 29; cfr. pure Miguez Bonino 1994). Questo peraltro non impedisce a molti osservatori cattolici d’interpretare ancora oggi le «sette» (termine che, come si è accennato, designa principalmente in America Latina le comunità protestanti pentecostali e non solo i nuovi movimenti religiosi) come «Chiese del dollaro» importate dall’imperialismo americano, benché appunto nessuno «studioso serio» abbia più sostenuto questa tesi negli ultimi vent’anni, e il loro successo dimostri che c’è una reale domanda per il tipo di religione che offrono.

L’analisi dei mali dell’Azione Cattolica proposta da Em defesa de Ação Católica non sarà capita. Il disastro che colpirà l’Azione Cattolica brasiliana non sarà apprezzato nelle sue vere cause dalla maggioranza dei vescovi e dei sacerdoti. Si colpiranno, anzi, gli annunciatori di cattive notizie, immaginando – per dirla con Antonio Gramsci (1891-1937) – che «abolendo il barometro si abolisca il cattivo tempo» (Gramsci 1975, III, 1743). Nel 1943 muore prematuramente, a soli quarantadue anni di età, l’arcivescovo di San Paolo José Gaspar d’Afonseca e Silva (1901-1943), che aveva voluto Plinio Corrêa de Oliveira alla guida dell’Azione Cattolica arcidiocesana. Il suo successore, il futuro cardinale Carlos Carmelo de Vasconcelos Motta (1890-1982), ascolta con benevolenza i critici di Em defesa de Ação Católica. Plinio Corrêa de Oliveira perde la sua carica di presidente dell’Azione Cattolica paulista. Quanto ai due influenti sacerdoti che lo avevano sostenuto, monsignor Antonio de Castro Mayer (1904-1991) da vicario generale dell’Arcidiocesi passa a vice-parroco della parrocchia di São José de Belém, mentre padre Geraldo de Proença Sigaud, SVD (1909-1999) è inviato in Spagna. Nel 1947, completando una vera e propria epurazione, Plinio Corrêa de Oliveira dovrà lasciare anche la direzione di O Legionário, che dirigeva dal 1933 e che da modesto organo della Congregazione Mariana della parrocchia paulista di Santa Cecilia era diventato l’organo ufficioso dell’Arcidiocesi di San Paolo.

A Roma, tuttavia, l’analisi della crisi della Chiesa brasiliana proposta da Em defesa de Ação Católica e dal cosiddetto «gruppo di O Legionário» era considerata con sempre maggiore benevolenza tanto più quella crisi si precisava in tutta la sua gravità. Nello stesso anno 1947 padre Geraldo de Proença Sigaud è nominato vescovo di Jacarezinho, e nel 1948 monsignor Antonio de Castro Mayer è nominato vescovo coadiutore con diritto di successione del vescovo di Campos, Octaviano Pereira de Albuquerque (1866-1949), cui succederà nel 1949. Sempre nel 1949, il 26 febbraio, il sostituto della Segreteria di Stato vaticana monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, scrive a Plinio Corrêa de Oliveira una lettera più che formale dove, a nome di Papa Pio XII (1876-1958), loda il volume Em defesa de Ação Católica con espressioni di un calore inconsueto per un’opera che, dopo tutto, era stata pubblicata sei anni prima. Per Plinio Corrêa de Oliveira gli anni 1950 si annunciano come un’epoca insieme difficile ed entusiasmante, in cui potrà svolgere il ruolo di diffusore del magistero di Pio XII in un Brasile dove questo magistero sarà seguito con convinzione solo occasionalmente da un clero e da una gerarchia che, come si è visto, cercheranno di reagire alla crisi battendo strade diverse.

 

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