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Induismo: identità e fanatismo

di Massimo Introvigne (Il Nostro Tempo, anno 63, n. 32, 7 settembre 2008)

imgLe recenti tragiche violenze contro i cristiani in India hanno riportato agli onori delle cronache un dibattito che ferve da anni fra politologi e sociologi delle religioni. Ci si chiede se possa davvero essere definita “fondamentalista” la grande organizzazione indiana Rashtriya Swayamsevak Sangh (Associazione dei Volontari della Nazione, RSS), che a diverso titolo è alle origini dell’associazione internazionale di propaganda dell’induismo Vishva Hindu Parishad (VHP) e del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito politico che – dopo una lunga marcia dall’emarginazione al centro della scena politica, apertasi con la partecipazione a governi di coalizione – nel 1998 è diventato il partito di maggioranza relativa in India e ha espresso il primo ministro, Atal Binari Vajpayee, che è stato in carica fino al 2004. Nelle elezioni del 2004 una coalizione laica guidata dal Partito del Congresso dell’indiana di origine piemontese Sonia Gandhi ha sconfitto, contro tutti i sondaggi, il BJP, che è tornato all’opposizione. Il partito BJP, la VHP e molte altre organizzazioni fanno parte del Sangh Parivar, la “famiglia” di organizzazioni che derivano dal RSS e ne condividono gli ideali. Il Sangh Parivar propone una difesa intransigente dell’identità indù dell’India, con campagne contro i missionari cristiani e musulmani, che purtroppo non di rado trascendono in violenze, e gesti simbolici come la distruzione da parte della folla, nel 1992, della moschea eretta in epoca Mogul sul luogo, ad Ayodhya, dove la tradizione indù colloca la nascita di Rama, una delle più popolari incarnazioni di Vishnu.

Si tratta di “fondamentalismo”? La tesi è stata sostenuta sia nella dialettica politica indiana (dagli avversari del BJP), sia da specialisti come Andreas Schworck, ed è stata vigorosamente rifiutata non solo da alcuni studiosi occidentali che hanno evidenti simpatie per il Sangh Parivar come Koenraad Elst ma anche da altri che hanno cercato una definizione accettabile del fondamentalismo come “tipo ideale”, fra i quali lo storico svizzero Jean-François Mayer. Al di là di assonanze innegabili con i fondamentalismi protestante e islamico, il problema sottolineato da Mayer – per quanto riguarda l’induismo – sembra quello di identificare in modo chiaro quale sia il plesso di principi e dottrine religiose da cui dedurre senza mediazioni una cultura e una politica. L’induismo è un mosaico di principi e di correnti diverse, che la VHP ha tentato di unificare in una sorta di “Chiesa” induista, senza però riuscire a costruire più di una federazione di gruppi che rimangono diversi e che comunque rappresentano solo una parte del variegato mondo induista. Le parole d’ordine intorno alle quali il Sangh Parivar raduna un numero cospicuo di seguaci fanno riferimento a un’immagine essenziale e mitica dell’induismo quale elemento unificatore della nazione indiana e bastione contro il colonialismo culturale “straniero” (cioè musulmano e cristiano). Perché questa immagine tenga, occorre ridurre al minimo i dettagli, così che il riferimento alla religione (senza volerlo necessariamente squalificare come strumentale o posticcio) costruisce più un “nazionalismo religioso” che non un autentico fondamentalismo.

Ultimamente, decidere se si tratti di “fondamentalismo” o di “nazionalismo” è certamente importante per gli studiosi, ma non fa molta differenza per le vittime di violenze contro la minoranze cristiana e quella musulmana – senza dimenticare che tra queste due c’è una differenza, che è forse poco “politicamente corretto” ma è obbligatorio ricordare: i cristiani non hanno mai reagito alla violenza con la violenza, mentre i musulmani si sono organizzati per rispondere al sangue con il sangue, alimentando vari conflitti regionali e locali che hanno fatto migliaia di morti. La condanna della violenza – come ha ricordato Papa Benedetto XVI – non può che essere intransigente e assoluta. La violenza contro i cristiani non può essere giustificata o “compresa” – come purtroppo talora si legge anche su qualche giornale occidentale – in nome dell’anticolonialismo o della difesa dell’identità indiana minacciata dalla globalizzazione.

Resta tuttavia un grande problema culturale o politico. Tutto il Sangh Parivar – un immenso movimento il cui braccio politico, il BJP, nelle elezioni indiane del 2004 ha preso (pure arretrando rispetto alla tornata elettorale precedente) ottantacinque milioni di voti – può essere squalificato come una congrega di “fondamentalisti” e di assassini di cristiani? C’è chi lo pensa, con buone ragioni che derivano dalle dichiarazioni di alcuni suoi esponenti, i quali sono almeno “cattivi maestri” rispetto alle folle ubriache di slogan nazionalisti che assaltano le parrocchie e gli orfanotrofi.  Di fatto, però, la coalizione che si esprime nel Sangh Parivar e nel partito BJP comprende una ricca varietà di correnti e gruppi che vanno da un ultra-fondamentalismo indù radicale a forme di conservatorismo piuttosto pragmatico. Il partito regionalista Shiv Sena, con base a Bombay (Mumbai) e guidato da Bal Thackeray (con cui ho avuto un’interessante conversazione qualche anno fa) non manca di accenti pressoché razzisti contro i non indù e gli immigrati. Altre componenti del movimento e del partito sono assai più moderate e pragmatiche. Di fatto sono state queste ultime a prevalere (anche se non senza compromessi con le tendenze più estremiste) nella classe dirigente del BJP. Il primo ministro Vajpayee aveva saputo coniugare ultra-antico e ultra-moderno: simboli che risalgono ai Veda e ai poemi epici e una decisa modernizzazione dell’economia in direzione del libero mercato, con risultati economici da molti definiti straordinari.

Il rivale storico del BJP, il Partito del Congresso di Sonia Gandhi oggi al potere, guida un’eterogenea coalizione di forze unite dal richiamo al secolarismo e al laicismo anch’essi tipici di una certa tradizione indiana. Sonia Gandhi ha beneficiato del voto della minoranza cattolica promettendo l’abolizione delle leggi anti-missionarie: tuttavia in molti Stati queste rimangono in vigore, e la Gandhi ha potuto vincere solo mettendo insieme decine di partiti alcuni dei quali a loro volta fieramente anti-cattolici. Quanto al BJP, i suoi oltre ottanta milioni di elettori non sono certo tutti “fondamentalisti” con la bava alla bocca: molti votano BJP perché considerano i nazionalisti più competenti in economia e più onesti della coalizione guidata dal Partito del Congresso, la cui storia è segnata da gravi episodi di corruzione. Il BJP insieme rappresenta e in qualche modo controlla gli elementi più facinorosi della rinascita induista. La comunità internazionale deve chiedere a voce alta e con la necessaria severità a questo grande partito (che potrebbe tornare presto al potere in India) di condannare e isolare i violenti. Ma tagliare i ponti e interrompere il faticoso dialogo con il BJP che gli Stati Uniti e l’Europa hanno avviato da anni sarebbe invece un errore.