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L'Europa fra cristianesimo e apostasia: cinque letture

di Massimo Introvigne (pubblicato con alcune modifiche redazionali come "Europa, non c’è più religione?", il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 6, numero 38, 22 settembre 2007, pp. 6-7)

L’Europa è ancora un continente cristiano o vive in uno stato di “apostasia da se stessa” e, a causa del ripudio di Gesù Cristo e della morale cristiana – evidenziato in particolare dalla crisi demografica – “sembra incamminata su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia” e a un’egemonia islamica conquistata non con le armi ma con l’immigrazione e le nascite ? Le espressioni fra virgolette nella frase precedente sono di Benedetto XVI, nel discorso pronunciato il 24 marzo 2007 in occasione del cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma. E proprio il magistero di Benedetto XVI, che ha la crisi dell’Europa al suo centro, è la posta in gioco del dibattito fra chi sostiene che c’è in effetti una vasta “apostasia” e chi invece pensa che si esageri.

Per essere correttamente impostata, la discussione richiede una conoscenza del dibattito sulla secolarizzazione, che è al cuore della sociologia della religione contemporanea. Una prima lettura da cui partire è dunque un manuale per le università, The Sociology of Religion (Sage, Londra 2007), opera di una sociologa, Grace Davie, che ha messo da tempo la questione dell’Europa al centro delle sue riflessioni. Come ricorda la Davie, due scuole si contrappongono nella sociologia della religione dei nostri giorni. La prima, dominante in Europa, ritiene che la modernità generi non solo secolarizzazione qualitativa (cioè minore influenza della religione nella vita morale e politica) ma anche quantitativa, cioè inevitabile diminuzione del numero delle persone in contatto con le religioni istituzionali. La seconda, maggioritaria negli Stati Uniti, afferma invece che la modernità, pur generando secolarizzazione qualitativa, non ha nessuna relazione necessaria con la secolarizzazione quantitativa ed è anzi perfettamente compatibile con la tenuta e perfino l’aumento del numero di quanti continuano ad andare in chiesa. Secondo questa scuola, detta della religious economy, la concorrenza che la modernità crea, grazie alla libertà religiosa, fra Chiese e comunità fa bene al mercato anche nel campo della religione: e la prova sono gli Stati Uniti, dove il numero di religioni in competizione fra loro è molto più alto che in Europa, ma nello stesso tempo è doppio rispetto all’Unione Europea il numero di coloro che affermano di recarsi a un rito religioso almeno una volta al mese. Grace Davie ricorda come parte della divergenza deriva dal fatto che i sociologi di paesi cattolici abituati all’idea del precetto domenicale considerano come indice più importante la frequenza religiosa settimanale, mentre quelli di paesi dove maggioritarie sono le comunità protestanti – che non hanno la nozione di “festa di precetto” – ritengono decisiva la frequenza “almeno mensile”. La Davie rievoca anche la singolare vicenda del sociologo americano C. Kirk Hadaway, le cui ricerche intendevano dimostrare che molte persone che affermano di frequentare le chiese mentono, così che la pratica “reale” misurata con apposite macchine contatrici alle porte delle chiese sarebbe assai più bassa della pratica “dichiarata”. Ma le ricerche di Hadaway sono state pressoché ignorate dai sociologi americani, e sono state accolte con grande interesse quasi solo dalle Chiese e comunità cristiane. In realtà, i sociologi hanno rivolto a Hadaway – che ha finito per lasciare il mondo accademico e oggi lavora a tempo pieno per una comunità protestante, la United Church of Christ – obiezioni metodologiche difficilmente superabili. Mentre preti e pastori hanno tratto paradossali consolazioni dal fatto che forse molti non seguono la morale cristiana perché in realtà non vanno in chiesa, e non nonostante vadano in chiesa come direbbero i sondaggi.

Centrale nel libro della Davie è l’osservazione secondo cui le teorie sociologiche sono condizionate dalla geografia. La tesi della religious economy si adatta bene agli Stati Uniti e la teoria classica della secolarizzazione, per esempio, alla Francia. Come sociologa che lavora in Gran Bretagna – un paese che ha in comune elementi linguistici con gli Stati Uniti e culturali con l’Europa continentale – Grace Davie propone una “terza via”, secondo cui non esistono teoremi universalmente validi sulle relazioni fra religione e modernità, ma queste possono evolversi in modi diversi in funzione di un gran numero di variabili. Sarebbe questa, delle “modernità variabili”, la terza fase del pensiero della stessa Grace Davie, nota anzitutto per la formula del believing without belonging (“credere senza appartenere”) che caratterizzerebbe oltre metà degli europei – i quali si dichiarano religiosi ma non hanno una pratica neppure “almeno mensile” –, e in una seconda fase per l’espressione “religione vicaria”, riferita agli stessi europei che in gran parte ammirerebbero e applaudirebbero, ma non imiterebbero, la minoranza che, da un certo punto di vista, frequenta le chiese anche per loro.

La ricognizione del terreno sociologico che si può ricavare dall’opera della Davie è, come accennato, necessaria per capire la critica che il sociologo americano Philip Jenkins muove ai “pessimisti” che considerano la crisi religiosa dell’Europa profonda e irreversibile nel suo God’s Continent. Christianity, Islam, and Europe’s Religious Crisis (Oxford University Press, New York 2007). Per Jenkins – che critica esplicitamente Rodney Stark, il teologo americano George Weigel e il giornalista neo-conservatore canadese Mark Steyn (ma implicitamente anche Benedetto XVI) – non è, a rigore, necessario decidere chi abbia ragione fra teorici della religious economy e della secolarizzazione. Ai primi Jenkins chiede come possano da una parte sostenere che, almeno in alcuni paesi europei (tra cui l’Italia), la pratica religiosa e la rilevanza sociale della religione manifestino una tenuta, se non un lieve aumento, e insieme paventare che il laicismo dominante e il rifiuto della morale cristiana stiano aprendo la strada a un declino irreversibile insieme della religione e della stessa identità europea, in procinto di essere travolta dall’ondata migratoria islamica. Ma Jenkins non risparmia critiche neppure ai teorici della secolarizzazione: se questa, chiede, è davvero così forte da essere riuscita a dissolvere un’identità cristiana bimillenaria, perché non dovrebbe essere capace di far perdere le loro caratteristiche identitarie anche ai musulmani venuti in Europa? I molti recensori dell’ultimo lavoro di Jenkins lo hanno accusato soprattutto di avventurarsi su un terreno che conosce poco quando parla dell’islam, a proposito del quale mostra una certa ingenuità quando prende per buone le affermazioni di personaggi che si presentano come “moderati” come Tariq Ramadan. Sono critiche che almeno in parte condivido: se è vero che alcuni musulmani in Europa subiscono la forza secolarizzante del contesto sociale, non è meno vero che la maggioranza degli immigrati islamici resiste alla secolarizzazione meglio dei cristiani anche dopo molti anni di soggiorno in Europa. E tutto questo ha a che fare con la natura dell’islam come sistema totale dove religione, cultura e vita sociale non sono concepite come separate.

Il magistero di Benedetto XVI da una parte descrive senza illusioni l’apostasia dell’Europa. Dall’altra, parlando – per esempio – dell’Italia nel discorso tenuto il 19 ottobre 2006 a Verona, la definisce “un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana” dove la Chiesa “conserva una presenza radicata” e le tradizioni cristiane “continuano a produrre frutti”. A Jenkins, che vedrebbe qui una contraddizione, mi sento di rispondere che non bisogna confondere secolarizzazione qualitativa e quantitativa. La teoria della religious economy nega che la secolarizzazione quantitativa – cioè la diminuzione della pratica – sia un portato necessario della modernità, ma non nega che alla modernità corrisponda quasi sempre un’ampia secolarizzazione qualitativa, cioè un’influenza minore che in passato e anche ridotta ai minimi termini delle credenze e delle pratiche religiose (che pure permangono) sui comportamenti morali e sociali. In questa prospettiva teoretica non vi è nessuna incoerenza fra sostenere che la pratica in alcune regioni europee “tiene” e che comportamenti sempre più lontani dagli insegnamenti cristiani determinano un declino gravissimo dell’Europa, particolarmente evidente nella crisi demografica. Ma io non penso neppure che pratica religiosa e comportamenti sociali siano variabili assolutamente prive di relazioni fra loro. Benché le ricerche dimostrino che non hanno correlazioni precise e dirette, tuttavia dove un buon numero di persone si mantengono in contatto con le Chiese e comunità cristiane, lì da questo dato si può partire per tentare una nuova evangelizzazione anche della vita morale e sociale. Nell’analisi del Papa, l’Europa è malata gravemente, ma non è morta: e il libro di Jenkins è utile nella misura in cui ci ricorda appunto che non siamo al capezzale di un defunto ma di un malato di cui tentare una difficile guarigione.

Come l’Europa si sia ammalata ce lo racconta invece un grande storico cattolico inglese che si dichiara a sua volta cautamente ottimista sulla possibilità che la malattia non sia fatale. Michael Burleigh ha concluso l’edizione americana (aggiornata rispetto a quella inglese) di una monumentale storia dell’Europa dal 1789 ad Al Qaida letta come storia dei rapporti fra politica e religione con Sacred Causes. The Clash of Religion and Politics, from the Great War to the War on Terror (Harper Collins, New York 2007), un volume che fa seguito a Earthly Powers.The Clash of Religion and Politics in Europe, from the French Revolution to the Great War, pubblicato dallo stesso editore nel 2006. Si tratta di un’opera di grande rilievo, che rimette la religione al centro del lavoro degli storici. I recensori hanno sottolineato soprattutto la magistrale analisi, da parte di un autore noto soprattutto come specialista della Germania nazista, dell’opposizione al nazional-socialismo dei pontefici Pio XI e Pio XII, che fa giustizia definitiva di molte sciocchezze sul punto e attribuisce giustamente gli attacchi a Papa Pacelli prima a una manovra di propaganda diretta dai servizi segreti sovietici e poi all’opera, definita disonesta e anzi “oscena”, di lobby che usano il nazismo come un pretesto per colpire le posizioni della Chiesa sulla vita e la famiglia. Ma memorabili sono anche le pagine di Burleigh sul tentativo di distruzione della religione da parte del giacobinismo, sugli eccessi ridicoli dei laicismi ottocenteschi, sulla Prima guerra mondiale e sull’importanza decisiva, non solo per l’Italia, della vittoria contro il comunismo decretata dagli elettori italiani il 18 aprile 1948 (il che non impedisce allo storico inglese un severo giudizio sulla Democrazia Cristiana dei decenni successivi). Burleigh vede nella storia dell’Europa degli ultimi due secoli un epico scontro fra il cristianesimo che – nonostante le cadute e i tradimenti di alcuni suoi esponenti – difende non la libertà astratta, ma le libertà concrete in tutti i campi della vita sociale, e lo Stato moderno che, con diverse modalità e sorretto da diverse ideologie, si fa Stato ideologico, Stato-Chiesa che cerca di assorbire in sé l’intera società diventando totalitario. Si tratta di una chiave di lettura estremamente feconda, anche se talora troppo schematica e con poco spazio per le sfumature. Così, per esempio, Charles Maurras (1868-1952) e Francisco Franco Bahamonde (1892-1975) sono considerati soltanto nella loro dimensione di apologisti di uno Stato troppo “forte” per i gusti di Burleigh, mentre in entrambi i casi l’analisi potrebbe essere più complessa. Del Sillabo del Beato Pio IX (1792-1878) lo storico rivaluta, giustamente, la denuncia dello statalismo del XIX secolo, ma lo considera globalmente un documento reazionario e tardivo: anche su questo punto, l’analisi di Benedetto XVI nel lungo discorso del 22 dicembre 2005 che qualcuno ha definito una “enciclica sulla modernità” avrebbe potuto portare a un giudizio più sfumato. Ma, al di là dei singoli giudizi, Burleigh ha il merito – sulla scia di Eric Voegelin (1901-1985), della cui lezione tiene ampiamente conto – di ricostruire la lotta fra la religione vero nomine e le “religioni politiche” che ne usurpano la funzione come dimensione fondamentale della storia dell’Europa e della sua crisi. E, nonostante Burleigh veda la tragedia europea degradare in farsa a partire dagli anni 1960 in una lunga “epoca delle trombette giocattolo”, sul futuro del continente egli rimane moderatamente ottimista. Non perché creda alle statistiche sulla tenuta della pratica religiosa in alcuni Paesi: anzi, Burleigh cita addirittura la tesi Hadaway sulle persone che mentono nei sondaggi, riprendendola da un teorico estremo della secolarizzazione come Steve Bruce, cui la Davie rende nel suo libro l’onore delle armi, ma come ultimo difensore di una trincea ormai poco frequentata dai sociologi. Ma perché pensa che l’11 settembre 2001 abbia risvegliato in Europa un sussulto identitario, che ha trovato interpreti adeguati e anzi eccezionali in Giovanni Paolo II (1920-2005) e in Benedetto XVI.

Il tema delle “religioni politiche” obbliga a un cenno a un altro libro molto atteso e importante. Comrades! A History of World Communism di Robert Service, ordinario di Storia della Russia all’Università di Oxford (Harvard University Press, Cambridge, Mass.- Londra 2007) che si cimenta, in occasione del novantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre, in una storia mondiale e globale del comunismo. Per Service il comunismo rappresenta la tragedia di un’ideologia fondata su un’analisi economica sbagliata che, piuttosto che riconoscere i suoi errori, si è trasformata in un dogma imposto con la violenza e si è diffusa come un cancro le cui metastasi, pure dopo la caduta del Muro di Berlino, continuano a infettare in particolare l’Europa anche tramite ambienti che non si dichiarano più comunisti. Quanto alla fine dell’Impero sovietico, Service rivaluta ampiamente l’opera di Ronald Reagan (1911-2004), a proposito del quale osserva che quando pronunciò i suoi primi discorsi da presidente degli Stati Uniti per un momento era sembrato che un matto si fosse impadronito del manicomio: mentre i veri matti erano i cosiddetti esperti che non credevano alla sua tesi secondo cui l’Unione Sovietica non sarebbe durata per sempre. Service, tuttavia, non fa mistero delle sue inclinazioni laiciste (l’unico aspetto di Marx per cui ha simpatia è la critica della religione), e questo lo porta a sottovalutare sia il ruolo di Giovanni Paolo II nella caduta del comunismo nell’Europa dell’Est (che per Burleigh invece è decisivo), sia la natura di “religione politica” del comunismo, un elemento senza il quale è difficile spiegarne il lungo successo. Service cade anche in alcuni errori clamorosi. Quando dichiara di scarso rilievo in Italia la presenza di Rifondazione Comunista possiamo ancora sperare che ci stia proponendo una profezia per il futuro (per il presente, il giudizio è certamente sbagliato). Ma quando paragona le manipolazioni di Stalin (1878-1953) in sede di edizione delle opere di Lenin (1870-1924) alle presunte prevaricazioni della Chiesa cattolica che avrebbe scelto solo al Concilio di Nicea del 325 d.C. quattro Vangeli politicamente utili fra i molti che esistevano, Service ci sta solo rivelando che nei momenti liberi gli piace leggere Il Codice da Vinci. Una rapida consultazione non si dice delle opere di qualche suo collega di Oxford esperto in storia del cristianesimo, ma dell’equivalente inglese di un Bignami sul tema, gli avrebbe facilmente rivelato che la cristianità aveva accettato come canonici i quattro Vangeli che tutti conosciamo almeno 135 anni prima di Nicea. Certo, ricordare le tragedie del comunismo è fondamentale per accostarsi all’Europa malata. Ma non è dall’anticlericalismo alla Dan Brown che si potrà partire per la cura.