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Discovering God. Il disegno sociologico intelligente di Rodney Stark

di Massimo Introvigne
Pubblicato, con lievi modifiche, come
Grande sprint delle “aziende religiose”, il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 6, n. 50, 15 dicembre 2007, p. 6-7. Vedi l’articolo in pdf

S’immagini qualcuno che odi gli aerei, che non abbia mai preso un aereo e che consideri quelli che viaggiano in aereo come dei pazzi scriteriati. Se lo ritroviamo a scrivere manuali sugli aerei o a occupare cattedre universitarie di aeronautica c’è evidentemente qualche cosa che non va. È la parabola che Rodney Stark, uno dei più grandi sociologi viventi, mi raccontava qualche tempo fa annunciandomi l’intenzione di volere chiudere i conti con gli studiosi accademici delle religioni, molti dei quali – piuttosto curiosamente – non sono religiosi, odiano le religioni e considerano le persone religiose inguaribilmente arretrate, se non affette da una malattia di cui si dovrebbe cercare la cura.
I conti, ora, sono chiusi con Discovering God. The Origins of the Great Religions and the Evolution of Belief («La scoperta di Dio. Le origini delle grandi religioni e l’evoluzione del credere», HarperOne, New York 2007), un’opera monumentale destinata a fare epoca non solo per l’ambizione di portare uno sguardo sociologico sull’intera storia delle grandi religioni, dalla preistoria al fondamentalismo islamico, ma per il carattere molto politicamente scorretto delle conclusioni cui perviene.
Per capire di che si tratta occorre ricordare brevemente i principi generali del metodo sociologico di Rodney Stark, ispiratori di una lunga carriera di cui quest’opera costituisce per molti versi il coronamento. La sociologia della religione è stata dominata fin dalle sue origini ottocentesche dall’idea secondo cui la presenza delle religioni è destinata a diminuire mano a mano che avanzano la modernità e la scienza, di cui i primi studiosi di questa materia si consideravano gli araldi, così che si aspettavano di poter fare da notai e stendere presto o tardi l’atto di morte della religione. Poiché le religioni tardavano a morire, le loro idee – senza cambiare nell’ispirazione generale – si sono trasformate in teorie sempre più sofisticate della «secolarizzazione». Uno dei postulati di queste teorie è che la modernità porta con sé la democrazia e la libertà religiosa, che erodono le strutture di plausibilità delle religioni. Se c’è una religione sola – ragionavano questi sociologi – è ancora possibile che qualcuno ci creda veramente. Ma se regna la libertà religiosa e ce ne sono molte, non potendo credere a tutte, si finirà per non credere a nessuna.
I fatti si sono ostinatamente rifiutati di conformarsi a queste teorie. Diffondendosi la democrazia e il pluralismo religioso le religioni non sono scomparse. Anzi, è proprio nei paesi dove ci sono più religioni – come gli Stati Uniti – che c’è anche più religione: più persone si dichiarano religiose, più numerosi sono coloro che frequentano i luoghi di culto. Proprio facendo leva sul caso americano, Stark e i colleghi che lo hanno seguito – dapprima minoritari, mentre oggi rappresentano negli Stati Uniti una buona metà dei sociologi della religione, anche se incontrano forti resistenze in Europa (ma assai meno in Asia) – hanno gradualmente sostituito al «vecchio paradigma» della secolarizzazione come portato necessario della modernità e del pluralismo un «nuovo paradigma», secondo cui la compresenza di più religioni giova alla religione nel suo insieme. La concorrenza stimola infatti le energie delle varie «aziende» che operano sul «mercato religioso», le spinge a fare di più e a proporre «prodotti» più graditi dal pubblico. La metafora economica può piacere o no, ma non significa affatto che Stark consideri le religioni un prodotto da supermercato, né che si disinteressi delle dottrine. È precisamente il contrario: infatti il centro del «mercato» – se si vuole, il «prodotto» che le «aziende religiose» vendono – è la dottrina, che dunque ha un ruolo centrale nel «nuovo paradigma», mentre il «vecchio» tendeva a spiegare il successo delle religioni con fattori extra-religiosi come la povertà o le crisi politiche. Secondo la nuova teoria il vecchio paradigma si poneva, sbagliando, «dal lato della domanda», andando a cercare nella storia i fattori che facevano crescere o diminuire la domanda di religione, mentre per Stark la domanda tende a rimanere costante nel tempo e per spiegare che cosa succede nel mondo delle religioni occorre porsi supply-side, «dal lato dell’offerta», perché è appunto l’offerta religiosa che cambia continuamente.
E la domanda è veramente molto costante. In Discovering God Stark ipotizza che sia costante fin dalla preistoria (il che equivale a dire che la religione ha qualcosa a che fare con la stessa natura umana), e che anche la distribuzione dei consumatori religiosi in «nicchie» – le quali dividono chi cerca un’esperienza religiosa molto intensa da chi la vuole più blanda – potrebbe essere rimasta costante non solo per secoli, ma per millenni. Ma come è nata l’offerta? Come sono nate le religioni? Stark svela la risposta finale che gli sembra più plausibile solo alla fine del libro, non perché scambi un testo di sociologia per un giallo ma perché è ragionevolmente persuaso che, data all’inizio, la sua risposta apparirebbe così scandalosa da indurre più di un lettore (e certamente molti suoi colleghi accademici) a non proseguire oltre.
Procedendo dunque cautamente, Stark comincia a far notare che le religioni non nascono da vasti «comitati» o dal «popolo»: «una nuova cultura non “accade” semplicemente e né le tribù né le società inventano alcunché. L’innovazione è il lavoro di individui o al massimo di piccoli gruppi». Dopo avere rifiutato come teorie alla vana ricerca di fatti che le confermino le ipotesi secondo cui i culti preistorici e protostorici erano estremamente rozzi, selvaggi e «animistici», Stark mostra come molti studi recenti riabilitino le ipotesi di Andrew Lang (1844-1912) secondo cui i «primitivi», pur non essendo tecnicamente monoteisti, credevano in un «Dio supremo» che regnava su un pantheon di divinità minori e aveva creato il mondo. Rispetto a questa fase più antica l’abbandono dell’idea di «Dio supremo» a favore di un «elaborato politeismo» appare non come un progresso, ma come una decadenza. Questo processo degenerativo porta alle «religioni del tempio», di cui Stark studia dettagliatamente le forme sumere, egizie, greche, maya ed azteche, a proposito di queste ultime ricordando, contro accostamenti «buonisti», sia la centralità del sacrificio umano, sia le sue motivazioni prevalentemente religiose – non economiche o politiche –: «senza le ragioni religiose non ci sarebbe stato nessun sacrificio».
Naturalmente sappiamo molto poco di una eventuale «economia religiosa» nella preistoria e nella protostoria, ma – nota Stark – sappiamo almeno che non c’erano Stati forti in grado di imporre una religione di Stato. Non così all’epoca delle «religioni del tempio», che erano un’appendice dello Stato, avevano un clero statale e contavano sullo Stato per sopprimere qualunque concorrenza (pur potendo presentarsi al loro interno come divise nei culti delle varie divinità politeistiche, tutte però parte di un ordine comune). La conseguenza, come Stark cerca di documentare attraverso un’ampia ricognizione, è quella tipica delle economie religiose monopolistiche. Ufficialmente tutti erano religiosi, ma questa religione si riduceva al sostegno economico (obbligatorio) dei templi, le cui cerimonie spesso erano condotte dal clero senza neppure la presenza del popolo. Nonostante le apparenze in contrario, non si trattava di una religiosità popolare e diffusa. Infatti, era esposta alla crisi appena si fosse presentata la concorrenza.
Il mercato religioso nasce, secondo Stark, a Roma, che da questo punto di vista – pur mantenendo a lungo gli stessi dei – è molto diversa dalla Grecia. Roma si limita a un modesto sostegno ai templi di Stato, e lascia ampiamente che la religione sia regolata dalla libera concorrenza. Come risultato, la religione fiorisce, benché le autorità si preoccupino di quelle religioni che rischiano di interferire eccessivamente nel normale andamento dello Stato e della politica perseguitando, già prima dei cristiani, gli ebrei – così che solo «strane militanze ideologiche» possono attribuire al cristianesimo la nascita di un antisemitismo che a Roma esisteva ben prima di Gesù Cristo – e i seguaci di culti misterici semi-monoteistici come quelli di Cibele e di Iside. Proprio il successo della religione più crudelmente perseguitata, il cristianesimo, mostrerà però che una volta aperte le porte del mercato religioso è difficile richiuderle persino con il sangue, e chi risponde alla domanda religiosa con l’offerta più persuasiva vince. Ma il successo nel mercato religioso è sempre precario. Chi vince tende a conquistare anche il potere politico e a creare forme di religione di Stato, che s’impigriscono e perdono seguaci. È un rischio, secondo una tesi che Stark ha esposto in maggiore dettaglio altrove, che diverse forme di Chiese cristiane avrebbero spesso corso nella storia.
Il monoteismo costituisce in effetti un’offerta più persuasiva del politeismo: un Dio unico appare più ragionevole e può promettere ai suoi seguaci non i benefici settoriali delle varie divinità dei pantheon politeistici ma la salvezza eterna. La «rinascita» del monoteismo (che secondo Stark si era già lasciato intravedere all’alba della storia nei culti del «Dio Supremo», prima della fase decadente delle «religioni del tempio») è annunciata da avventure singolari come quella del faraone egiziano Akhenaton (che regna dal 1353 al 1334 a.C.) – stroncata dopo la sua morte dalla reazione della «religione del tempio» egizia – e si compie con lo zoroastrismo in Persia e la graduale vittoria (che avviene non senza difficoltà e opposizioni) della fazione monoteista all’interno del popolo d’Israele. Una discussione delle controversie su quando si sia svolta l’attività di Zoroastro – e delle ragioni che militano a favore di una datazione più o meno tra il 618 al 541 a.C. (mentre altri la collocano intorno al 1000 a.C. o anche diversi secoli prima) – permette a Stark di ritornare sulla nozione, resa popolare dal filosofo Karl Jaspers (1883-1969) ma già proposta da studiosi ottocenteschi come Ernst von Lasaulx (1805-1861) e Viktor von Strauss (1809-1899) del sesto secolo a.C. come «età assiale». In quest’epoca contemporaneamente fioriscono i rinnovatori dell’induismo che gli conferiscono la sua forma attuale, Buddha (563-483 a.C.?) e il fondatore del giainismo, Mahavira (forse morto nel 527 a.C.), in India, Zoroastro in Persia, i grandi profeti in Israele, Lao-Tze (di cui Stark rivendica la storicità, ma di cui si ignorano le date di nascita e di morte) e Confucio (551-479 a.C.?) in Cina. Questi riformatori hanno poco in comune fra loro, salvo il fatto che tutti stabiliscono un saldo collegamento fra la religione e la morale, che non era affatto scontato in epoca precedente: gli dei più antichi spesso non solo non ricompensavano il bene, ma compivano essi stessi azioni malvagie. Stark ritiene che, mentre sarebbe del tutto sbagliato pensare che le religioni nate nell’«età assiale» siano state «generate» dal sorgere di grandi Stati che avevano bisogno di rafforzare con il consenso morale il necessario «controllo sociale», questa situazione spiega «perché, quando le “risposte” sono apparse, sono risultate così popolari».
L’istituzionalizzazione religiosa propone peraltro due tipi diversi di religione: quelle per cui Dio (o il divino) è una «essenza» o un’energia impersonale e remota, e quelle dove Dio è concepito come un Essere personale che si occupa del mondo. Nonostante la preferenza personale di molti studiosi accademici delle religioni per il primo modello, questo in una situazione di libero mercato religioso ha in realtà un successo molto modesto. Nella loro forma «pura» – come «religioni dell’essenza» – il buddhismo, il giainismo, il confucianesimo e il taoismo si riducono a fenomeni elitari senza grande seguito. Quando invece adottano nei loro templi un buon numero di dei e propongono dottrine di salvezza personale, nella loro forma «popolare», si assicurano un successo che arriva fino ai giorni nostri. Il buddhismo o il confucianesimo «atei» come risultano dai libri entusiasmano solo piccoli gruppi d’intellettuali (e molti studiosi occidentali). I templi buddhisti e confuciani davvero frequentati dalle popolazioni sono, invece, letteralmente pieni di dei.
Peraltro, le religioni che si fondano sulla meditazione o sulla riflessione filosofica hanno uno svantaggio in un mercato religioso aperto rispetto a quelle che rivendicano una rivelazione divina. Se il monoteismo è persuasivo soprattutto quando ci parla di un Dio che si occupa di noi, allora appare anche logico che questo Dio non rimanga silenzioso e si riveli. Non tutte le rivelazioni, però, sono uguali. Stark propone un’analisi senza reticenze dell’islam di cui mostra l’essenza nel carattere imprevedibile del suo Dio, che non dispone il mondo secondo ragione, così che di questo mondo non si può avere una conoscenza certa, dovendo invece sottomettersi a quanto Dio rivela nel Corano e all’autorità politica che – secondo diversi percorsi – continua nella storia la missione del Profeta. Stark non cita mai Benedetto XVI né il discorso di Ratisbona, ma le conclusioni sono del tutto analoghe quanto al rischio che questa nozione di Dio spinga a risolvere le controversie con un appello non alla ragione, ma alla forza.
Il sociologo americano può così finalmente tirare le sue sorprendenti conclusioni. Da dove nasce la religione? O si tratta di un’invenzione umana o viene da un Dio che si rivela. Si è sempre detto che le scienze umane non si occupano delle prove dell’esistenza di Dio e non rispondono alla domanda se Dio esista o meno, perché questo sarebbe un «giudizio di valore» mentre il metodo scientifico è per definizione value-free, «indipendente dai valori». Stark confessa di avere condiviso questa tesi per anni, ma di non essere più così sicuro che l’affermazione secondo cui le religioni ci sono perché un Dio personale si è rivelato agli uomini sia un «giudizio di valore» rispetto al quale la sociologia non ha niente da dire. Anzitutto, i sociologi hanno a lungo barato: fingendo di proporre una scienza value-free si sono in realtà schierati in modo militante per sostenere che Dio non esiste, che le religioni sono illusioni, che al massimo sono tollerabili religioni «senza Dio» come il buddhismo o il confucianesimo (delle élite) o è simpatico l’islam perché dà noia a quell’Occidente che certi accademici amano ancora meno della religione. Stark, per così dire, rende loro la pariglia. Se tanti sociologi, a partire dai padri fondatori della disciplina, hanno tratto dalla loro scienza argomenti contro l’esistenza di Dio, la foglia di fico della neutralità è caduta. Si può dimostrare che i loro argomenti sono sbagliati. Le cause economiche e politiche che dovrebbero rendere ragione dell’ascesa delle religioni non sono sufficienti a spiegare fenomeni come la diffusione del cristianesimo o la vittoria del monoteismo nella storia dell’antico Israele. Tutto lo schema evolutivo secondo cui la religione sarebbe passata da forme più primitive e caotiche di politeismo a versioni raffinate del monoteismo è falso. Le acquisizioni archeologiche e storiche permettono al contrario di concludere che alle origini vi è il semi-monoteismo del «Dio supremo» e che il successivo fiorire del politeismo non corrisponde a uno sviluppo ma a una decadenza.
Stark fa riferimento alla polemica scientifica sul «Disegno Intelligente» – secondo cui la natura dell’universo rivelerebbe l’esistenza di un progetto e quindi di un progettista, Dio –, rilevando che la vera prova di questa tesi non è tanto offerta «dalla scienza» tramite le sue ricerche quanto «dalla stessa esistenza della scienza»: un’esistenza che è un dato sociale, e su cui il sociologo ha titolo a pronunciarsi. La scienza è fiorita in Occidente sulla base dell’idea secondo cui – prima che arrivi lo scienziato a scoprirle – esistono nel mondo leggi che non mutano: oggi sono le stesse di ieri, e saranno le stesse domani. È precisamente perché non crede che Dio abbia creato il mondo secondo ragione che l’islam – che è stato capace di produrre altissima tecnologia – è rimasto ai margini dello sviluppo della scienza moderna. «Alcuni pensatori musulmani hanno perfino negato la stessa esistenza del principio di causa e di effetto, anche riferito al solo mondo terreno, sulla base che è intrinsecamente contrario al principio dell’illimitata libertà di azione di Dio […]. Queste dottrine, che implicano l’affermazione che ogni pretesa di formulare leggi naturali è blasfema in quanto anche queste leggi limiterebbero la libertà di Allah, hanno avuto un ruolo fondamentale nel fallimento del tentativo musulmano di tenere il passo dell’Occidente».
L’esistenza nel reale di leggi naturali – che la scienza ha puntualmente scoperto – rende invece eminentemente plausibile l’esistenza di un Disegno Intelligente di Dio: in effetti, una «variazione infinitesimale» delle componenti fondamentali dell’universo, come gli scienziati hanno dimostrato, lo renderebbe caotico e inintelligibile e le possibilità che l’universo si sia disposto così per caso rasentano l’impossibilità. Se questo è l’argomento classico degli scienziati sostenitori del Disegno Intelligente, anche lo scienziato sociale trova nella storia delle società «leggi» e regolarità che vanno precisamente nella stessa direzione. Così, anche il sociologo – argomentando pure dalle «leggi» che regolano lo sviluppo e la diffusione delle religioni, che avviene nel corso dei millenni con sorprendente regolarità – può arrivare secondo un suo percorso ad affermare il Disegno Intelligente.
E può fare di più. Una volta indicata come plausibile l’esistenza di un Dio che si rivela può costruire un percorso sociale di questa divina rivelazione, che mostra come assai credibile l’antica ipotesi teologica secondo cui la rivelazione è progressiva e tiene conto delle capacità di ricevere rivelazioni che l’umanità manifesta nelle varie epoche storiche, che sono talora di sviluppo della ragione, talaltra di decadenza e di crisi. Stark torna così esplicitamente a Giambattista Vico (1668-1744) e all’idea di una «rivelazione primordiale» le cui vestigia si trovano nelle antichissime teologie del «Dio supremo», cui segue una decadenza. Dalla storia della rivelazione progressiva di Dio – e qui Stark consapevolmente si avventura su un terreno teologico, rivendicando peraltro il carattere perfettamente «scientifico» della teologia – si devono escludere i sistemi religiosi dell’Oriente, che non affermano di essere basati su una rivelazione ma sulle intuizioni di saggi (i quali, peraltro, hanno potuto scoprire qualche verità grazie alla ragione). Dopo un possibile ma dubbio prologo con il faraone Akhenaton – la cui rivelazione è sì monoteistica ma «trova una base per rifiutarla come autentica nel fallimento del suo tentativo di produrre effetti di lunga durata»– la storia della rivelazione per Stark inizia con la vittoria del monoteismo all’interno dell’ebraismo, al quale avviene peraltro non senza «una qualche interazione con lo zoroastrismo» durante la cattività babilonese degli Ebrei. Zoroastro (parzialmente), gli autori di quello che per i cristiani è l’Antico Testamento e gli scrittori neo-testamentari costituiscono per Stark – insieme alle ignote ma spesso geniali personalità religiose che conservarono e diffusero brandelli della rivelazione primordiale, resistendo a lungo al politeismo – le tappe di una storia in cui Dio progressivamente si rivela.
La domanda è inevitabile: in questa storia dove si colloca l’islam? Per i musulmani la risposta è chiara: l’islam è il vertice e la conclusione di tutte le rivelazioni. Per Stark la risposta non è meno tranchant: a prescindere dalla «sincerità di Muhammad», un problema che è estraneo al nocciolo della questione, «la fede rivelata nel Corano è moralmente e teologicamente regressiva». Rispetto ai monoteismi precedenti, la nozione musulmana di Dio – «imprevedibile e così inconoscibile che non si può neppure dare per scontato che sia ragionevole o virtuoso» – rappresenta una fase di decadenza. Pertanto nel modello di Stark «è inappropriato includere l’islam nel novero centrale delle religioni che risultano da un’autentica ispirazione di Dio», il che non esclude che – come ogni impresa umana – l’islam possa includere anche elementi umanamente degni di stima.
Ma «tutta questa discussione su un nucleo centrale di religioni davvero ispirate è basata sull’assunzione che Dio esista. Se Dio non esiste, non c’è nessuna religione ispirata», il che rende puerili certe difese dell’ufficio dell’islam da parte di accademici occidentali atei. Ma per Stark lo studio della sociologia, come di ogni scienza, permette di concludere che è eminentemente plausibile che Dio esista. Per negare quanto sembra evidente ci vuole, paradossalmente, un atto di fede (atea) e – scrive il sociologo – «non sono più sufficientemente arrogante o ingenuo per pronunciare questo atto di fede». Naturalmente, il fatto che una religione presenti credenziali più credibili di un’altra come autentica rivelazione divina non significa necessariamente che continuerà ad affermarsi nella storia. Il sociologo fedele alla sua professione è costretto a ricordare sempre il ruolo centrale della demografia. A prescindere da qualunque esame delle rispettive rivelazioni, e contro le tesi contrarie di qualche studioso inguaribilmente ottimista, «il numero di cristiani in Europa sta declinando molto rapidamente, non tanto per le defezioni dalla fede ma perché i cristiani fanno sempre meno figli», mentre «la fertilità musulmana rimane ovunque sopra il livello di sostituzione demografica, anche fra i musulmani immigrati in Europa», così che la prospettiva di una mappa religiosa del mondo che presenti fra un secolo «un’Europa musulmana» non è irragionevole. Ma è anche vero, nota Stark, che non sempre le previsioni dei sociologi si realizzano. «Chi fra gli apostoli avrebbe potuto intravedere la Chiesa Cattolica come è oggi? Quale Papa medioevale avrebbe potuto immaginare i Battisti del Sud [la denominazione, conservatrice, di maggioranza relativa nel protestantesimo americano contemporaneo]?». Il disegno di Dio sulla storia è certamente intelligente, ma non può essere necessariamente anticipato e compreso dalle previsioni intelligenti dei sociologi.