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Il mistero degli Hardy Boys

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 4, n. 49, 3 dicembre 2005)

hardy boysQuali storie di detective hanno raggiunto il maggior numero di lettori nel mondo? La risposta non è facile, dal momento che si deve distinguere fra racconti brevi – all’epoca d’oro della dime novel venduti in fascicoli settimanali da 16 o 32 pagine – e veri e propri romanzi. Ma di sicuro non si tratta né di Sherlock Holmes né del commissario Maigret. Se si contano i fascicoli, il primato va probabilmente a Nick Carter: non la caricatura televisiva o a fumetti creata in Italia per la trasmissione Gulp! ma il detective originale partorito nel 1886 da John R. Coryell (1848-1924) e protagonista di diverse migliaia di storie, le più famose delle quali opera di Frederic Van Rensselaer Dey (1861-1922) – che morirà suicida, vittima della crisi della dime novel – nell’epoca d’oro che va dal 1890 alla Prima guerra mondiale. Se invece si parla di veri e propri libri, la lotta coinvolge Nancy Drew e gli Hardy Boys, prodotti dalla stessa “officina” – lo Stratemeyer Syndicate, geniale creazione di Edward Stratemeyer (1862-1930), autore a sua volta di alcune delle avventure “storiche”di Nick Carter – e che sfiorano entrambi i cento milioni di volumi venduti dalle origini ai giorni nostri.

Stratemeyer aveva imparato l’arte presso la casa editrice Street & Smith, la “casa” di Nick Carter. La chiave di volta dell’intera popular culture – e la ragione del suo spregio pluriennale da parte della cultura “alta”, prima che dall’interno stesso di quest’ultima Umberto Eco e altri si presentassero a rovesciare allegramente il tavolo – è la serialità. Il pubblico “popolare”, e certamente i ragazzi, amano ritrovare gli stessi personaggi e le stesse situazioni. Se il mercato è quello americano – e canadese, per non parlare delle traduzioni – e il personaggio ha davvero successo la domanda, dopo un po’, travolge l’offerta. Il pubblico è disposto a comprare una storia di Nick Carter alla settimana; ma nessuno stakanovista della dime novel fa in tempo a scriverne così tante. La soluzione? Fare firmare “Nick Carter” o “The Author of ‘Nick Carter’” una ventina di scrittori diversi, legati da contratti che impediscono loro di rivelare al pubblico il loro collegamento con il popolare detective. L’operazione riesce così bene che solo frugando negli archivi della Street & Smith – che gli si sono aperti perché la casa editrice ha avuto bisogno di lui come consulente in cause di diritto d’autore – il maggiore specialista del personaggio, J. Randolph Cox, è riuscito a ricollegare a un autore quasi ogni storia nota del personaggio.

Stratemeyer non ha una casa editrice. Quando dopo la Prima guerra mondiale – finita in America l’epoca d’oro delle dime novel (che continua con le traduzioni e le produzioni locali in Europa, a partire dalla Germania e dalla Francia) – si mette in proprio e passa alle serie in volumi, veri e propri romanzi di circa duecento pagine, Stratemeyer mantiene però l’idea di creare degli “autori” fittizi dietro i quali possano celarsi diversi scrittori. Stratemeyer, però, non ha una casa editrice ma un “sindacato”, un’idea presa a prestito dal mondo dei fumetti. Produce, impagina e vende le lastre bell’e pronte agli editori: in gran parte a Grosset & Dunlap, oggi parte del gruppo Penguin, finché le sue eredi venderanno prima parte della produzione e poi lo stesso “sindacato” a un altro colosso dell’editoria mondiale, Simon and Schuster.

 

Nonostante i boy scout

 

Stratemeyer non è uno specialista di gialli per adulti; è invece l’inventore del giallo per ragazzi. Un devoto protestante che non beve, non fuma e non usa parole improprie, vuole che il suo “sindacato” produca letteratura che offre l’ebbrezza del giallo senza sangue e con poca violenza, adatta a ragazzi di ogni età. Sarà attaccato comunque dai boy scout, per cui i gialli non vanno bene per i ragazzi – comunque edulcorati – e dopo la Seconda guerra mondiale da bibliotecari “politicamente corretti” che, con poco senso storico, troveranno nelle storie del “sindacato” pregiudizi “di destra” (i poveri sono spesso criminali) e anche “razzisti” (gli afro- e anche gli italo-americani fanno errori di grammatica quando parlano), così che le storie degli anni 1920 e 1930 sono oggi ristampate in edizioni rivedute e corrette, con orrore dei puristi e dei collezionisti.

Ma la formula rende Stratemeyer miliardario – “il Rockefeller della letteratura popolare”, secondo la stampa dell’epoca – e lancia i baby-detective Nancy Drew (che attira le ragazze) e Frank e Joe Hardy (destinati piuttosto ai maschietti, almeno alle origini) nell’olimpo dei personaggi più letti e amati in tutto il mondo. Degli Hardy Boys l’autore indicato è un certo “Franklin W. Dixon” di cui il “sindacato” diffonde perfino biografie fittizie. I contratti ferrei impediscono agli autori di rivelarsi, e il segreto tiene fino agli anni 1960. Oggi si sa che autore delle prime sedici storie, dagli storici Il tesoro della torre e La casa sulla scogliera del 1927 fino a L’avvertimento segreto del 1938, e di altri quattro volumi tra il 1943 e il 1947 (uno attribuito alla moglie per ragioni puramente fiscali), era Leslie McFarlane (1902-1977), noto al pubblico canadese come autore di celebrati racconti brevi nonché come padre di due figli famosi e tuttora viventi, il più noto telecronista di hockey del Canada, Brian McFarlane, e l’autrice di racconti per ragazzi – figlia d’arte, dunque – Norah McFarlane Peretz.

Con buone ragioni, dunque, McFarlane avrebbe potuto presentarsi poco prima di morire in un volume autobiografico come “il vero Franklin W. Dixon”, ancorché decine di altri autori abbiano firmato con lo stesso pseudonimo e, fino alla morte di Stratemeyer nel 1930, gli autori del “sindacato” trasformassero in romanzi di 216 pagine brevi trame di due o tre pagine predisposte dal loro datore di lavoro. Tuttavia gli Hardy Boys – almeno quelli dei primi tempi (oggi usano il computer e lottano contro i terroristi, e forse McFarlane non li riconoscerebbe) – devono buona parte del loro successo alla capacità dello scrittore canadese di creare testi pieni di umorismo e di descrivere nell’immaginaria Bayport dei fratelli Hardy una tipica cittadina nordamericana, che deve parecchio alla nativa Haileybury, nel Nord dell’Ontario. Per giunta, McFarlane ha anche firmato con il nome altrettanto fittizio “Carolyn Keene”, la presunta creatrice di Nancy Drew (e un altro nome che copriva in realtà un gruppo di autori del “sindacato”), una serie di storie sulle sorelle Dana, non così famose come Nancy o gli Hardy e a proposito delle quali lo scrittore ironizzerà molti anni dopo sull’estremo puritanesimo voluto per loro dal pio Stratemeyer (mentre gli Hardy Boys almeno hanno delle fidanzatine, ancorché una di queste, Iola Morton, sarà eliminata negli anni 1980 facendola ammazzare dai terroristi).

 

Finalmente col suo nome

 


Leslie McFarlane

La biografia di McFarlane The Secret of the Hardy Boys. Leslie McFarlane and the Stratemeyer Syndicate (Ohio University Press, Athens 2004), opera dell’accademica Marilyn S. Greenwald, ci fa conoscere finalmente uno scrittore quintessenzialmente canadese (nonostante abbia vissuto per qualche tempo a Los Angeles e in Florida), dalle molteplici capacità, che ha dedicato la parte finale della sua vita soprattutto al cinema e alla televisione arrivando a una nomination per l’Oscar nella categoria dei documentari. È anche una storia familiare: come molti altri scrittori McFarlane considera i suoi gialli per ragazzi opere minori, spera di essere ricordato per le sue storie canadesi e la sua poesia, e arriva in un periodo della sua vita a odiare gli Hardy Boys, che pure gli hanno permesso di sopravvivere nei tempi difficili della Grande Depressione. Sono sentimenti simili a quelli a suo tempo provati da Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) nei confronti di Sherlock Holmes.

Peraltro, il libero pensatore McFarlane conserva un ottimo ricordo di Stratemeyer e anche delle sue eredi, e non rimpiange di avere venduto per 100 dollari al volume testi che in royalties gli avrebbero fruttato miliardi. Era la legge dei “sindacati” dell’epoca, che garantiva agli scrittori poveri l’uovo della sopravvivenza oggi privandoli di ogni speranza di gallina per domani. Né l’anonimato dispiaceva a McFarlane, che quasi si vergognava dei “gialli” mentre frequentava scrittori “seri”. Solo nell’ultima parte della sua vita – lunga e, a leggere la biografia della Greenwald, non priva di spunti interessanti, compresa una battaglia vinta contro l’alcolismo, un complesso di inferiorità per non essere mai riuscito a scrivere il “romanzo nazionale canadese” tante volte sognato, e una commovente devozione alla numerosa famiglia – mentre, appunto, il mondo intellettuale rivaluta la popular culture, McFarlane si riconcilia con gli Hardy Boys, si fa autorizzare dagli eredi del “sindacato” a rivelare il suo ruolo nella creazione dei personaggi, e conclude che essere amato e rispettato da giovani lettori è quanto di meglio uno scrittore possa desiderare.