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Essad Bey (alias Kurban Said), il turco napoletano

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 4, n. 35, 27 agosto 2005 )

essad beyUna delle caratteristiche salienti dell’Europa nel periodo tra le due guerre mondiali è la passione per l’esotico, che sembra sedurre particolarmente gli ambienti della destra politica. Si trovano qui le origini di un sentimento – prima ancora che un’idea – che influenza ancora oggi atteggiamenti, per esempio, anti-americani e filo-arabi, che non sono monopolio della sinistra. Per una certa destra la Tradizione, quella vera con la T maiuscola, avrebbe abbandonato l’Occidente con l’avvento della modernità. Anzi, quello che attualmente chiamiamo “Occidente” non avrebbe in realtà nulla in comune con la grande tradizione occidentale imperiale e cristiana ma sarebbe una pura contraffazione prodotta dal mercantilismo anglo-americano. La vera Tradizione si troverebbe altrove.

Un aspetto curioso di questa ideologia è la sua estrema vulnerabilità ai mistificatori, ai “turchi napoletani” – per riprendere un’immortale espressione di Totò – che si presentano come esotici e in certi ambienti ottengono più successo dei veri rappresentanti delle tradizioni non occidentali. E c’è una ragione per questo: mentre i secondi sono spesso diversi dall’immagine idealizzata e romantica che ci si è fatti di loro, i primi – i mistificatori – offrono esattamente quello che il pubblico si aspetta e gradisce. Vicende simili sono continuate anche dopo la Seconda guerra mondiale: il caso più famoso è quello del falso lama Lobsang Rampa, il cui Il terzo occhio, pubblicato a Londra nel 1956 e primo di una lunga serie di volumi, ha costituito per molti occidentali il classico per eccellenza del buddismo tibetano, prima che si scoprisse che Rampa era in realtà Cyril Henry Hoskins (1911-1981), un idraulico inglese. Duri a convincere, molti “rampaisti” sostengono ancora oggi che i libri firmati Rampa sono del tutto genuini, in quanto lo spirito di un autentico monaco tibetano avrebbe a un certo punto posseduto l’intraprendente idraulico britannico.

Ma l’epoca d’oro degli avventurieri esotici resta quella fra le due guerre. Qualche settimana fa il quotidiano La Stampa ha ripubblicato L’anno dell’indiano di Ernesto Ferrero, la più divertente versione – romanzata, ma sostanzialmente fedele ai fatti – delle avventure del Capo Cervo Bianco, che nel 1924 si presentò in Italia come depositario della più pura tradizione dei pellerossa, sollecitò aiuti per le tribù canadesi perseguitate dalla perfida Albione girando per le Case del  Fascio di tutta Italia, fu ricevuto in pompa magna da Mussolini e divenne l’amante di due contesse triestine, madre e figlia. L’ultima prodezza ne determinò la fine: quando la contessina scoprì che il “capo indiano” dormiva volentieri anche con sua madre, la furia della gelosia la spinse a fare qualche indagine e a trasformarsi in implacabile accusatrice di “Cervo Bianco”. Si scoprì così che si trattava di un avventuriero americano, Edgar Laplante (1890-1968), senza una sola goccia di sangue indiano nelle vene: finì in prigione a Torino, prima di tornarsene mestamente in America.

The Orientalist del giornalista del New York Times Tom Reiss (Random House, New York 2005) affronta in oltre quattrocento pagine di puntigliosa ricostruzione storica un personaggio di ben altro calibro, le cui analisi del comunismo, dell’islam e dei problemi petroliferi – firmate “Essad Bey” –  continuano a essere influenti ancora oggi, e un cui romanzo, a firma “Kurban Said” – Alì e Nino (nelle ultime edizioni italiane Alì e Nina, per le difficoltà di far capire al lettore nostrano che Nino è un nome femminile nel Caucaso) –, la storia di un Romeo musulmano azero e di una Giulietta cristiana georgiana, è tuttora in vendita in ventisei lingue ed è considerato il romanzo nazionale dell’Azerbaijan moderno. Per ragioni politiche, l’establishment di quest’ultimo paese continua ad attribuire il romanzo al poeta nazionalista locale Yusif Vezir (1887-1943), mentre in Germania le biblioteche danno “Kurban Said” come pseudonimo della baronessa austriaca Elfriede von Bodmershof von Ehrenfels (1894-1982), moglie del barone convertito all’islam Omar Rolf von Ehrenfels (1901-1980) i cui eredi hanno finora rivendicato con successo i diritti d’autore  su Alì e Nino.

Tom Reiss dimostra in modo persuasivo che le idee del nazionalista azero Vezir – del tutto contrario ai matrimoni inter-etnici ed interreligiosi – erano antitetiche al tema centrale di Alì e Nino, e che la rivendicazione di un qualunque collegamento fra il poeta caucasico e il romanzo è recente e priva di fondamento. La storia della baronessa austriaca si inserisce in una vicenda molto più complicata. Quando arriva in Germania nel 1921, e nel 1929 pubblica un bestseller internazionale sulla questione del petrolio, Olio e sangue in Oriente, Essad Bey si presenta come musulmano, figlio di un principe azero e di una nobildonna russa. La storia tiene quando Essad, autore di una decina di best seller anticomunisti prima di avere compiuto trent’anni, arriva negli Stati Uniti nel 1933, e quando comincia a frequentare l’Italia – dove i suoi libri hanno particolare successo – nel 1936 prima di stabilirsi definitivamente a Positano nel 1938.

Ma è una storia per il grande pubblico. La cerchia dei suoi amici più stretti sa che, per quanto si sia formalmente convertito all’islam in Germania, Essad Bey si chiama in realtà Lev Nussimbaum (1905-1942) ed è figlio di un ebreo ucraino. Quando prima la GESTAPO e poi la polizia fascista scoprono che un autore letto e apprezzato sia dai gerarchi nazisti sia dal Duce è in realtà un ebreo, l’imbarazzo è notevole, e oscura in qualche modo la vera storia.

Contrariamente a quanto scrivono i rapporti di polizia, Lev Nussimbaum non viene dai ghetti dell’Europa dell’Est. Il padre, Abraham Nussimbaum (1875-1941) – che morirà nel campo di concentramento di Treblinka – è sì un ebreo di origini ucraine, ma all’epoca della nascita di Lev ha fatto fortuna ed è diventato uno dei milionari del petrolio di Bakù, in quell’Azerbaijan che agli inizi del XX secolo fornisce metà del fabbisogno petrolifero mondiale e per qualche decennio trasforma la sua capitale in una Montecarlo del Caucaso completa di case da gioco, alberghi e ville di un lusso sfrenato. La madre, Berta Slutzki (1875?-1912), un’ebrea bielorussa arrivata a Bakù nel 1900 – cui il figlio dedicherà una sola, fredda riga in tutta la sua voluminosa produzione letteraria – è a sua volta una figura interessante e tragica. Bolscevica, amica di Stalin, considerata un’eroina nell’Unione Sovietica, sposa uno dei grandi capitalisti del petrolio dell’epoca – o così sembra, perché la verità resta difficile da accertare – al solo scopo di infiltrarsi per conto del partito nei circoli di una borghesia di cui prepara la rovina. Scoperta, si suicida in un modo atroce bevendo acido solforico. La circostanza autobiografica spiega l’odio di Lev per il comunismo, e il fascino della Bakù della Belle Epoque – in cui cristiani, ebrei e musulmani si spartiscono per una quindicina di anni gli straordinari profitti del petrolio in sorprendente concordia – rende ragione della sua utopia orientalista.

L’Esad Bey che, in fuga dal comunismo dopo la Prima guerra mondiale attraverso la Turchia, arriva in Francia e poi in Germania non è, secondo Reiss, un semplice mistificatore. Si tratta piuttosto di una ribellione contro un’epoca in cui la cristallizzazione della persona nella sua identità etnica è una delle cause principali dei grandi massacri ideologici. In più – ed è tra i meriti della biografia – Reiss ricollega Essad Bey a tutta una tradizione di “ebrei orientalisti”, che ha i rappresentanti più illustri nel letterato e primo ministro inglese Benjamin Disraeli (1804-1881) e nello storico ungherese Arminius Vambéry (1832-1913): ed è singolare che al giornalista americano, infaticabile collezionista di curiosità, sfugga l’amicizia di questo studioso con Bram Stoker, 1847-1912, che gli rende omaggio nel suo romanzo Dracula nel 1897 citandolo come amico del cacciatore di vampiri Van Helsing. Per quanto strano possa sembrare oggi, questi ebrei rovesciavano l’accusa antisemita di non essere veramente “europei” ma piuttosto “orientali” in un motivo di vanto, ricollegandosi a tutta la letteratura sulla superiorità dell’Oriente e prospettando un’alleanza fra ebrei, musulmani e occidentali “tradizionalisti” contro il moderno Occidente decaduto.

È così meno paradossale di quanto si possa credere che nel 1936 il convertito all’islam Essad Bey sia il coautore di un interessante e per molti versi profetico volume sul futuro dell’islam – Allah è grande – con l’ebreo sionista Wolfgang von Weisl (1896-1974: preciso che la ricostruzione delle date di nascita e di morte qui come in altri casi è mia, perché Reiss ne fornisce ben poche), tesoriere e numero due del Partito Revisionista di Ze’ev Vladimir Jabotinsky (1880-1940), che solo in seguito emergerà come radicalmente anti-arabo. Né deve stupire la collaborazione di un ammiratore del fascismo (ma mai esplicitamente del nazional-socialismo) come Essad Bey con l’ala più estremista del sionismo: all’epoca, il partito di Jabotinsky era in buoni rapporti con lo stesso Mussolini che, prima dell’alleanza con Hitler, vedeva nel revisionismo sionista una sorta di fascismo ebraico.

Più tardi, naturalmente, le cose cambieranno. Le porte si chiuderanno anche per Essad Bey – una volta scoperta dalle polizie tedesca e italiana (anche se non dal pubblico) – la sua origine ebraica. Negli ultimi anni della vita si dà ai romanzi con un nuovo nom de plume, Kurban Said, ed è perché agli autori ebrei non è permesso pubblicare in lingua tedesca che si accorda con l’amica baronessa Elfriede von Ehrenfels (un’appassionata di esoterismo che tuttavia non avrebbe certo potuto scrivere dettagliate descrizioni di un Caucaso dove non era mai stata) perché registri il copyright dei romanzi a suo nome. Quando Alì e Nino esce a Vienna nel 1937, e diventa un bestseller internazionale, pochi si rendono conto che il suo autore è quello stesso Essad Bey famoso per i libri anticomunisti e per le biografie di Lenin, dello zar Nicola II e del profeta Muhammad tradotte in molte lingue del mondo. Solo un’edizione italiana del 1944 del romanzo (nel frattempo seguito nel 1938 da La ragazza del Corno d’Oro), pubblicata con il titolo Alì Khan, darà come nome dell’autore Essad Bey.

Si tratta di un’edizione voluta dall’autore, dove Nino è chiamata Erika in onore della moglie dello scrittore, Erika Loewendahl (1911-1990), figlia di un grande industriale delle scarpe. Il divorzio nel 1935 dopo la decisione della moglie di andare a vivere con René Fülöp-Miller (1891-1963), un rivale di Essad Bey come autore di biografie di successo, sarà la grande delusione della vita dello scrittore. Erika sosterrà di non avere conosciuto prima del matrimonio la vera identità del “principe azero”. Vera o no questa circostanza, la fine del grande amore della sua vita condurrà brevemente Essad Bey in un ospedale psichiatrico e darà inizio alla fase finale della sua esistenza, illuminata da Alì e Nino ma tormentata negli anni di Positano dalla dolorosissima sindrome di Raynauld, che dà sintomi simili alla lebbra, ma è incurabile, e condurrà lo scrittore alla morte nel 1942. La sua tomba si trova ancora oggi nel cimitero di Positano.

Ancora, fra le curiosità sfuggite a Reiss c’è la successiva carriera della ex-moglie di Essad Bey. Dopo la morte di Fülöp-Miller, che aveva sposato e da cui aveva avuto tre figli, Erika sposa nel 1963 un amico del secondo marito, Dimitri Sergeevich von Mohrenschildt (1902-2002), noto come studioso di cose russe ma anche come esponente di punta del movimento neo-indù di Sri Aurobindo (1872-1950). Proprio la decisione di von Mohrenschildt di andare a vivere nell’ashram di Aurobindo a Pondicherry nel 1976 porterà Erika – che è conosciuta in questi anni nei circoli letterari con lo pseudonimo di Erika Renon, e che resiste solo tre mesi nel centro di spiritualità indiano – a un nuovo divorzio e al ritorno in America. Se gli fosse stato noto, il collegamento di Erika con l’ambiente di Aurobindo avrebbe certo permesso a Reiss – che di solito segue tutti i suoi personaggi anche dopo che sono usciti dall’orbita di Essad Bey – di scrivere un ulteriore capitolo del suo già voluminoso libro.

A Essad Bey il biografo presta dunque quella buona fede così ovviamente carente in un Capo Cervo Bianco o in un Lobsang Rampa. Il fatto che non fosse un principe azero non toglie che le sue analisi del comunismo sovietico, della politica petrolifera del Caucaso e del futuro dell’islam – solo di poco invecchiate – facciano ancora per molti versi testo, e che Alì e Nino rimanga un capolavoro. Quanto a quello che Reiss chiama il suo travestitismo culturale che induce un ebreo di origini ucraine a presentarsi come principe musulmano, non si tratterebbe di puro gusto della mistificazione ma di un prodotto, per quanto a suo modo unico, di un ambiente ebraico filo-islamico e orientalista che merita più attente riflessioni. Un “turco napoletano”, dunque, ma cui vanno sia la simpatia del biografo – e del lettore – sia la pietà per un destino tragico, che è lo specchio e la sintesi di un’epoca.