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Sì al dialogo con l'islam, ma senza buonismo

di Massimo Introvigne (il Giornale, 18 aprile 2005)

Chiunque sia, il nuovo Papa si troverà sul tavolo il dossier del dialogo con l’islam: risultati, speranze e delusioni dopo il grande sforzo di Giovanni Paolo II. Al convegno chiuso domenica a Cracovia sulla “nuova evangelizzazione” – già programmato da tempo, ma dove studiosi, teologi e rappresentanti di movimenti cattolici hanno tratto occasione per un primo bilancio del pontificato di Papa Wojtyla – si sono sentite molte voci che alla doverosa celebrazione dei risultati ottenuti aggiungono l’auspicio che anche in futuro ci si tenga lontani dalle trappole del buonismo.

“Giovanni Paolo II – ha ricordato don Krzysztof Koscielniak, esperto di cose islamiche dell’episcopato polacco, molto ascoltato a Roma – ci ha insegnato che il dialogo è un mezzo, non un fine. Dobbiamo evitare l’ideologia del dialogo e passare al dialogo delle cose concrete”. Ma quali sono queste “cose concrete”? Al convegno di Cracovia si sono alternati oratori con esperienza in Pakistan, in Siria, in Sudan, perfino in Cecenia, che hanno chiesto anzitutto attenzione per le minoranze cristiane perseguitate. Nel mirino soprattutto Sudan e Mauritania, accusati di camuffare sotto altri nomi la condanna a morte e la riduzione in schiavitù di chi si è convertito al cristianesimo. Secondo un missionario, in Sudan – nonostante le solenni dichiarazioni di pace – bambini cristiani sono ancora rapiti e venduti in schiavitù in zone remote del paese per il prezzo di un fucile, mentre una ragazza in età da marito “costa” novanta dollari. Agli schiavi che non vogliono convertirsi all’islam è tagliato il tendine d’Achille: saranno zoppi per sempre. Ai giovani di alcune tribù passate da decenni al cristianesimo “predoni” che godono di ampie complicità in settori del governo offrono l’alternativa fra il ritorno all’islam e la castrazione.

Secondo un esponente dell’agenzia non governativa International Christian Solidarity nel mondo islamico ci sono venticinquemila schiavi di origine cristiana, benché – appunto – la schiavitù sia mascherata sotto altri nomi. In Polonia il libro di Agnieszka Dzieduszycka Ma voi non piangete con noi ha denunciato la situazione di questi moderni schiavi suscitando grande scalpore.

I rappresentanti delle Chiese e delle organizzazioni missionarie che operano nei paesi islamici chiedono di non essere sacrificati sull’altare della politica o di un dialogo inter-religioso fine a se stesso. “Non basta continuare a ripetere – ha ricordato uno di loro – che musulmani e cristiani si riconoscono entrambi come figli di Abramo. E allora? Se un altro ‘figlio di Abramo’ mi perseguita, la cosa è forse meno dolorosa?”.

Eppure, tutti concordano che la via della ricerca di interlocutori non fondamentalisti nell’islam con cui instaurare un dialogo, avviata da Giovanni Paolo II, è irreversibile. Nessuno pensa a uno scontro apocalittico contro un miliardo o duecento milioni di musulmani. Ci si augura solo che anche la curia e la diplomazia del dopo Wojtyla non prestino fede troppo facilmente a chi si auto-proclama “moderato” o “non fondamentalista”. Le cartine di tornasole per verificare la buona fede dell’interlocutore musulmano sono due: la condanna senza ambiguità del terrorismo e la disponibilità a riconoscere la libertà religiosa ai non musulmani, che è liberta di predicare e di evangelizzare, non solo di celebrare il culto più o meno di nascosto. Diversamente – conclude don Koscielniak – “il dialogo è un monologo, o peggio un inganno”.