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"Kosher Nostra": i gangster ebrei in mostra al Museo Ebraico di Vienna

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 3, n. 19, 8 maggio 2004)

imgUna importante mostra, Kosher Nostra (e un piccolo ma prezioso catalogo curato da Oz Almog), allestita al Museo Ebraico della Città di Vienna ha riproposto la storia dei gangster del mondo ebraico americano e della loro curiosa relazione con la religione in cui erano stati allevati. Dal re della criminalità di Las Vegas, Bugsy Siegel (1906-1947), al braccio destro di Al Capone (1899-1947), Jack Guzik (1886-1956), la mostra mette in scena con dovizia di documenti una galleria di personaggi essenziali per la storia della criminalità americana e nello stesso tempo sempre in qualche modo in contatto – dai matrimoni ai funerali – con la loro religione.
Già Gershom Scholem (1897-1982) il maggiore studioso del misticismo ebraico, affermava qualche anno fa che lo studio del mondo della malavita ebraica, che ha sempre interagito con rabbini più o meno marginali, «sarebbe urgente», ma – del tutto «comprensibilmente» – è stato trascurato o almeno rimandato per non alimentare l’antisemitismo (cfr. Gianfranco Bonola, Scholem/Shalom. Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e la qabbalah, Quodlibet, Macerata 2001, pp. 95-102). Un aspetto paradossale di tutta la tradizione cabbalistica e del successivo hassidismo è infatti la presenza di maestri e correnti antinomiste, le quali sostengono che quanto è peccato e trasgressione per i non illuminati può essere misteriosamente lecito per i maestri e per i loro più diretti seguaci. Si tratta di tendenze che si ripresentano nelle frange messianiche ed esoteriche di quasi ogni religione, e la loro presenza nell’hassidismo non va sopravvalutata. Il lusso stravagante e la simbologia regale e imperiale del Rizhiner Rebbe, Yisrael di Rizhin (1797-1850), figura che rimane veneratissima nel mondo hassidico, si muovono in questa direzione, anche a prescindere dal carattere controverso di voci di altri eccessi nella sua corte. Tendenze antinomiste si ripresentano periodicamente nel mondo cabbalistico, e offrono agli occhi di alcune frange giustificazioni anche per pratiche illegali.
Peraltro, come ha notato ancora Scholem, la storia della malavita ebraica non è legata solo alla Qabbalah, né nasce con l’emigrazione nel continente americano, ma si sviluppa soprattutto in Germania «già dal XVI e soprattutto dal XVII al XVIII secolo», con la conseguenza per esempio che «il gergo della delinquenza tedesca è yiddish per una parte assai cospicua». L’antisemitismo ha sfruttato queste vicende, e ha spesso sostenuto che la Legge ebraica permetterebbe di ingannare o perfino derubare i non ebrei. Un numero sorprendente di citazioni passate da un testo antigiudaico o antisemita all’altro dagli inizi dell’età moderna ai giorni nostri semplicemente non si ritrova nelle fonti, in particolare nel Talmud, ai luoghi indicati. Altri passaggi, spesso citati, si riferiscono a popoli specifici con cui gli ebrei antichi si consideravano in guerra e non ai non ebrei in genere. Certamente si trovano nelle fonti passaggi problematici, da leggere nel contesto secondo le normali regole dell’interpretazione. Ma è raro che la letteratura antisemita citi la chiara ingiunzione della Tosefta secondo cui «colui che ruba a un gentile è obbligato a restituire al gentile [quello che ha rubato]. Una regola più stretta si applica al derubare un gentile rispetto al derubare un israelita a causa della profanazione del Nome di Dio [causata dal derubare un gentile]» (Baba Qamma 10, 11).
In effetti, il tema dell’antinomismo ebraico come presunta giustificazione di attività della malavita è stato spesso agitato dall’antisemitismo, e in particolare da una certa stampa argentina – da cui passa in molti altri paesi – negli anni 1930, dopo la condanna in un processo a Buenos Aires, il 27 settembre 1930, di 108 esponenti della società di mutuo soccorso ebraica Zwi Migdal (in precedenza chiamata Società Israelita di Mutuo Soccorso Varsovia, fondata nel 1906), come responsabili di quella che diventerà nota come la più celebre rete internazionale di «tratta delle bianche»: las polacas, ragazze dell’Europa dell’Est quasi esclusivamente ebree (contrariamente a quanto affermeranno successive leggende) trasportate in America Latina e avviate alla prostituzione. Il processo – che nasce dalla denuncia di una prostituta, Raquel Liberman (1900-1935), eroina di successive serie televisive e film (ancorché, abbandonata da tutti dopo il suo momento di celebrità, sia poi tornata volontariamente alla prostituzione) – si celebra pochi giorno dopo il colpo di Stato del generale José Félix Uriburu (1868-1932), sostenuto da diverse forze politiche e culturali alcune delle quali antisemite. In realtà, non sembra sia stata una qualche forma di antinomismo (certo filtrata e volgarizzata dalle altezze della Qabbalah a ragionamenti assai più terra terra) a spingere qualche rabbino a giustificare le attività della Zwi Migdal. Cacciati dalla comunità ebraica maggioritaria – che anzi, li aveva denunciati alle autorità già prima dell’intervento della Liberman –, gli esponenti di questa società si erano dotati di una sinagoga propria e di un cimitero (che esiste ancora, semi-abbandonato, ad Avellaneda), serviti da rabbini disponibili ad assisterli per ragioni di interesse. La mostra viennese ricostruisce vicende simili – talora più brutali – di «tratta delle bianche» negli Stati Uniti.
La questione dell’antinomismo è del resto ben più complessa delle sue strumentali semplificazioni. Come ha notato Shaul Magid in Hasidism on the Margin (University of Wisconsin Press, Madison 2003) un’opera consacrata a una corrente hassidica particolarmente nota per il suo antinomismo, quella legata alla «dinastia» Izbica/Radzin, che origina da Mordecai Joseph Lainer (1800-1854) e le cui idee sono codificate dal nipote di questi, Gershon Henokh Lainer (1839-1891), i «testi hassidici giustificano il comportamento antinomico attraverso il determinismo religioso», che nega il libero arbitrio e ritiene Dio comunque autore diretto di ogni azione umana, buona o (apparentemente) cattiva che sia. Secondo Magid l’antinomismo può diventare – particolarmente nella versione che chiama hard, dove antinomismo significa liberazione da qualunque regola morale o comportamentale – libertinismo, ma può anche contestare la vecchia legge in nome dell’instaurazione di una nuova («neonomismo»: così si sarebbe comportato il cristianesimo nascente in relazione all’ebraismo), o ancora – in una versione soft – andare al di là della legge attraverso un comportamento ascetico dove atti di per sé non obbligatori sono però richiesti («ipernomismo»).
Se si eccettuano casi rari come quelli del messianismo di Jakob Frank (1726-1791), «nell’ebraismo la maggioranza delle istanze antinomiche sono accompagnate da un pietismo severamente ascetico più che da un comportamento libertino».
Le eccezioni veramente devianti, semmai, confermano la regola. Che un’istituzione benemerita nella lotta contro l’antisemitismo come il Museo Ebraico della Città di Vienna riapra coraggiosamente il dibattito sulla criminalità di origine ebraica mostra come di questi temi si posa oggi discutere pacatamente. Paradossalmente, ma non troppo, una riflessione approfondita sulle relazioni fra gangsterismo ebraico e religione permette forse, al contrario, di denunciare le falsificazioni dell’antisemitismo in tema di rapporti fra misticismo ebraico, antinomismo e morale.

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