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Stefano Dambruoso, con Guido Olimpio, Milano Bagdad. Diario di un magistrato in prima linea nella lotta al terrorismo islamico in Italia - Recensione di Massimo Introvigne

imgStefano Dambruoso, oggi esperto giuridico presso la Rappresentanza permanente italiana alle Nazioni Unite di Vienna, è stato per otto anni Sostituto Procuratore della Repubblica a Milano, dove si è occupato in particolare di inchieste sul terrorismo ultra-fondamentalista islamico. Guido Olimpio è il giornalista che con più continuità ha seguito sul Corriere della Sera le attività della stessa forma di terrorismo in Italia e all’estero. Dalla loro collaborazione è nato Milano Bagdad, che esordisce presentando senza mezzi termini Milano e la Lombardia come “una base avanzata del radicalismo islamico, una rete di supporto logistico al terrorismo di Al Qaeda trasformatasi in un apparato operativo in grado di compiere attentati” (p. 3). Come conferma la strage di Madrid dell’11 marzo 2004, “l’Europa non è più solo retrovia, ma è anche zona d’operazioni dove cellule che in apparenza fanno della pura propaganda islamica diventano punte d’attacco letali” (p. 6). L’Italia, per la sua posizione geografica e geo-politica, occupa in questo quadro una posizione tanto rilevante quanto pericolosa.

L’opera dà conto – seguendo un percorso che non è cronologico – di una serie di inchieste compiute dal giudice Dambruoso su episodi diversi, tutti però legati a una matrice ideologica comune. La prima porta a sgominare, nel marzo 2003, un’ampia rete terroristica internazionale legata a personaggi attivi nella ormai nota moschea ultra-fondamentalista di Viale Jenner a Milano, in contatti con Al Qaeda e con il superterrorista giordano al Zarqawi, pronti a compiere attentati in diversi paesi europei.

La seconda identifica un “lupo solitario” (p. 27), un siciliano convertito all’islam a torto preso poco sul serio nel 2002 quando lascia rudimentali e inefficaci bombe a gas di fronte al Tempio di Minerva nella Valle dei Templi, presso Agrigento, e davanti al carcere della stessa Agrigento, con teli bianchi con la scritta “Allah è grande”, ma infine arrestato quando deposita una bomba dello stesso tipo, con concrete possibilità di esplodere, nella metropolitana di Milano. Certamente questo pittoresco personaggio non è un membro di Al Qaeda: ma, secondo gli autori, dimostra che il “qaedismo”, l’ideologia di bin Laden, può anche ispirare terroristi fai da te, rozzi finché si vuole ma pericolosi proprio perché praticamente impossibili da individuare prima che passino all’azione.

La terza inchiesta, che deriva dalla prima, porta gli uomini della polizia giudiziaria e della DIGOS di Milano a seguire nelle sue peregrinazioni nel nostro paese un certo Mohammed, esponente di un gruppo somalo legato ad Al Qaeda, che conduce gli investigatori non solo nelle note moschee radicali di Viale Jenner e di Cremona, ma anche a scoprire a Reggio Emilia – una città dove nessuno ne sospettava l’esistenza – un nucleo ultra-fondamentalista con esponenti di spicco della rete terroristica internazionale sospettati di complicità negli stessi attentati dell’11 settembre 2001. Sviluppi di questa inchiesta portano a individuare a Milano cellule femminili, con funzioni di appoggio logistico (e non solo), e nuovi contatti fra ambienti lombardi ed emiliani e il superterrorista al Zarqawi. Emerge anche – tra mille cautele – il primo “pentito”, la cui attendibilità peraltro sembra tutta da verificare, disposto a dire qualcosa del terrorismo ultra-fondamentalista in Italia ai giudici.

Il testo di Dambruoso e Olimpio non è solo una cronaca di successi. Agli investigatori milanesi sfugge per esempio nel 1999 Abdelkader Es Sayed, forse il più importante terrorista ad essere passato per il capoluogo lombardo, stretto collaboratore dell’ideologo di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri e venuto in Italia per organizzare la rete del movimento di Osama bin Laden nel nostro paese. “La buona sorte e un certo formalismo della legge italiana” (p. 66) aiutano Es Sayed a fuggire, anche se sembra poi sia perito combattendo contro le truppe alleate in Afghanistan, o almeno così si sostiene negli ambienti musulmani milanesi.

Proprio quello del “formalismo” della legge occidentale è un problema che ritorna nel corso del testo. Comprensibilmente, Dambruoso evita di criticare apertamente i suoi colleghi giudici, ma è noto come pericolosi terroristi siano stati messi in libertà provvisoria da tribunali del riesame consentendo loro di dileguarsi tempestivamente. Il magistrato si chiede anche se le leggi, che consentono l’arresto solo quando un reato è stato commesso, o è ovvio che sarà commesso a breve, siano adeguate a questo tipo di terrorismo: dopo tutto, “se la mattina del 10 [settembre] la polizia americana avesse fermato Mohammed Atta e gli altri diciotto kamikaze, che cosa avrebbe trovato? Nulla o quasi. Un manuale di volo, qualche testo religioso, dei taglierini e forse dello spray al pepe per la difesa personale” (p. 126). Se non in America, certo in Italia Atta e compagni sarebbero stati rilasciati con tante scuse.

Più in generale, il volume conferma – con qualche elemento problematico – quanto altri specialisti hanno scritto di Al Qaeda. L’organizzazione dopo l’11 settembre non ha segnato vittorie, ma ha subito al contrario “rovesci” che “hanno decimato i ranghi della formazione” (p. 129). La perdita della Tortuga del terrorismo in Afghanistan è stata decisiva. Inizialmente si è cercato di ricostruire un porto franco per addestrare terroristi altrove: in alcune zone del Caucaso, nello Yemen, in Somalia, ma anche nell’Iraq di Saddam Hussein. Gli elementi raccolti da Dambruoso indicano chiaramente che nell’Iraq di Saddam si addestravano i terroristi della formazione ultra-fondamentalista originariamente curda, poi internazionale, Ansar al-Islam guidata da al Zarqawi. Mentre sono chiari i rapporti fra al Zarqawi e Saddam, sulla base del citato “pentito” Dambruoso tende a problematizzare quelli fra al Zarqawi e Al Qaeda. Il terrorista giordano sarebbe stato a lungo un “dissidente” più che un luogotenente di bin Laden: anche se questa affermazione è poi ridimensionata da una serie di dati che mostrano al Zarqawi chiedere continuamente approvazione, aiuto e sostegno ad Al Qaeda, e questo fino a tempi recentissimi e al coinvolgimento di Ansar al-Islam nell’attentato di Madrid.

Dopo la guerra in Iraq, diventato difficile il radicamento territoriale di macro- realtà di formazione e addestramento dei terroristi, l’internazionale del terrorismo si è ampiamente spostata in Europa, dove il sistema giuridico e un certo lassismo di alcuni ambienti politici permettono la nascita di micro-ambienti che preparano attentati di vario genere. Al Qaeda e Ansar al-Islam sono attivi in Italia, “parte integrante di progetti di attentati in Europa” e con precisi “piani per colpire anche da noi. L’Italia da retrovia è diventato terreno di jihad” (p. 127). Molto importante è il reclutamento di terroristi non solo fra gli immigrati algerini, marocchini, tunisini, pakistani, egiziani e curdi ma anche fra i convertiti europei. A un dirigente ultra-fondamentalista egiziano attivo in Italia (e poi “sparito” in circostanze misteriose), Abu Omar, che gli chiede se sia opportuno reclutare “stranieri”, un leader di grado evidentemente superiore risponde in una conversazione telefonica intercettata: “Non è importante. Abbiamo bisogno anche di stranieri, abbiamo albanesi, svizzeri, inglesi… basta che siano di alto livello culturale” (p. 22). Con il che si smentisce anche, per l’ennesima volta, che i terroristi cerchino di reclutare poveri emarginati incolti senza arte ne parte: li vogliono invece “colti, preparati, convinti” (ibid.). E ne trovano: il che induce a un esame di coscienza sull’adeguatezza delle nostre leggi e del nostro costume politico alla minaccia, e alla consapevolezza che il rischio è grave anche in Italia. Balliamo sulla tolda del Titanic: e, forse, non lo sappiamo.


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